lunedì 30 marzo 2015

Il sacro viavai della reliquia.



 Il prepuzio di Cristo gira l’Europa, arriva a Roma e sparisce. Chiodi, legno della croce, sangue: i temi della devozione 

(Luigi Accattoli) Circonciso Gesù, la Vergine Maria custodì con ogni cura il «santo prepuzio» e non lo sperse neanche durante la fuga in Egitto. Lo donò infine alla Maddalena e possiamo immaginare che ciò sia avvenuto dopo l’Ascensione al cielo, non essendoci più sulla terra altro vestigio della carne di Cristo.
Da Maria di Magdala a Carlo Magno abbiamo uno stacco di secoli e non sappiamo dove l’abbia preso l’angelo che lo consegna all’imperatore in Aquisgrana, mentre toccherà a Carlo il Calvo portarlo a Roma. Sarà un lanzichenecco tedesco a entrarne in possesso nella magna confusione del Sacco di Roma (1527) e a portarlo a Calcata, che è un borgo a nord di Roma, verso Viterbo. Lì resta fino al 1983 quando viene rubato dalla casa del parroco don Dario Magnoni, come costui denuncia ai carabinieri. O forse don Dario lo fa sparire in obbedienza a ordini superiori? Perché il sacro ha tempi lenti ma anch’esso — come tutto — scorre e un prepuzio che prima attira rischia poi di allontanare, tant’è che il Sant’Uffizio la venerazione di quella reliquia l’aveva già proibita all’inizio del Novecento. Ma i parroci continuarono a esporla nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano a ogni capodanno, nella festa che si chiamava in Circumcisione Domini , nella Circoncisione del Signore.
Nel frattempo c’era stata la riforma del calendario liturgico e il Rito Romano al primo dell’anno festeggiava Maria Santissima Madre di Dio. Se cambia la messa vuol dire che cambia il mondo, devono aver pensato a Calcata nel 1970 all’arrivo del nuovo calendario, che misteriosamente preludeva al distacco dall’incredibile prepuzio. Una delle più singolari reliquie della cristianità, tra le quali ci fu il Graal e c’è ancora la Sindone, nonché il Velo della Veronica, anch’esso finito fuori mano come il prepuzio, ed ora si trova — se è lui — a Manoppello in Abruzzo.
Che sia destino delle reliquie convergere a Roma e ripartirne? Pare anche loro destino mantenere margini di mistero, com’è ovvio per chi prende forza dall’aver toccato (appunto) il mistero.
Qui infatti abbiamo ridotto a un racconto lineare la vicenda del prepuzio che è fatta di comparse e scomparse, duplicazioni, moltiplicazioni. Sarebbero almeno 32 le località europee nelle quali il prepuzio di Cristo è stato segnalato nei secoli, racconta ora Tonino Ceravolo in Il prepuzio di Cristo. Storie di reliquie nell’Europa cristiana (Rubbettino). E c’era per un tempo sia a Roma — in San Giovanni in Laterano — sia a Calcata e si argomentava che l’uno fosse il prepuzio e l’altro l’ombelico, ovvero il cordone ombelicale, che oggi si conserva in vista dell’utilizzo delle staminali e un tempo si conservava chissà perché, ma nel caso di Gesù di sicuro con buoni motivi. Del cordone infatti parla la fonte più antica che nomina il prepuzio e si tratta di un apocrifo del Nuovo Testamento, il Vangelo arabo-siriaco (forse dell’VIII secolo): «Lo circoncisero nella grotta. Quella vecchia ebrea prese il pezzetto di pelle — ma altri dicono che si prese il cordone ombelicale — e lo mise in un’ampolla di vecchio olio di nardo».
Oggi il cordone ombelicale lo conserviamo in azoto liquido: c’è dunque una lampante continuità tra l’apocrifo e le regole del nostro sistema sanitario. Ma come si presentava il «sacrosanto prepuzio», o «bellico» che fosse? L’osservarono da vicino a metà del Cinquecento due inviati di Paolo IV. Uno dei due, a nome Pipinelli, premendo con le dita «lo spezzò in due» e le due parti furono così descritte dalla Narrazione critico-storica della Reliquia preziosissima del Santissimo Prepuzio (che è del 1802): «L’una della grossezza d’un picciolissimo Cece, l’altra d’un granellino di seme di Canapa».
Come c’erano tanti prepuzi così c’erano — in giro per l’Europa — tanti sangui di Cristo: e qui non s’intende più quello del cordone, ma quello della Passione, uscito dalle ferite della flagellazione, delle spine, dei chiodi, del costato. Una parte l’aveva raccolta Longino, il soldato del colpo di lancia che stava pronto lì sotto. Un’altra aveva impregnato il guanto di Nicodemo, che aveva schiodato Gesù e aveva nascosto il guanto nel becco d’un uccello. Ma anche Maria e la Maddalena avevano raccolto qualcosa là sul Calvario. Troppo sangue e pezzi della croce e spine della corona, che presto scatenarono satire e invettive, da Boccaccio a Chaucer, a Calvino, fino a Garibaldi e Joyce. Erasmo da Rotterdam affermava non senza ironia che ai suoi tempi circolavano talmente tanti frammenti della croce da costruire una nave. San Paolino però aveva preso sul serio la proliferazione delle schegge e trovato una soluzione: la reintegrazione della croce: se ne potevano staccare tutti i frammenti che si voleva, ma la croce restava sempre integra. Boccaccio da parte sua, nella novella decima della sesta giornata, mette in scena l’ineffabile Frate Cipolla, che promette a certi contadini di mostrare «la penna dell’agnolo Gabriello», ma poi — avendo subito il furto della penna — si accomoda a mostrare i «carboni che arrostirono San Lorenzo».
A quei tempi satira e devozione si toccavano: una «santa lacrima» versata da Cristo su Lazzaro morto era conservata a Vendôme e a Roma, in San Lorenzo in Lucina, c’era e c’è uno spezzone della graticola di San Lorenzo.
Il culto delle reliquie non cessa con l’arrivo del terzo millennio. Come già i frammenti della croce così sono oggi innumerevoli i filamenti del saio di Padre Pio che girano per il mondo, o le fialette con il sangue di Wojtyla raccolto da don Stanislaw — novello Nicodemo — in occasione di un prelievo al Gemelli. Né cessa la filiera delle reliquie da contatto, o reliquie di reliquie. Già vedemmo moltiplicati per ogni dove i berretti e le camicie di Garibaldi e oggi vediamo i pellegrini che offrono uno zucchetto di loro fattura a papa Francesco, che se lo mette in testa per un momento e subito lo restituisce all’offerente, avendolo fatto suo «per contatto». E l’entusiasmo dei napoletani per la presenza in città delle «ceneri» di Pino Daniele? E gli autografi non sono una reliquia? E la mania dei selfie? Reliquia per contatto, reliquia per imago. Le reliquie cambiano, ma non cessano perché è proprio della vita lasciare reliquie e forse il mondo è tutto un reliquiario.
Corriere della Sera - La Lettura, 29 marzo 2015 
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La devozione e la Pietra dell'Unzione

Il Cristo Morto di Andrea Mantegna


La famosissima tela del Cristo Morto, conservata oggi alla Pinacoteca di Brera a Milano, fu  dipinta da Andrea Mantegna, probabilmente per la cappella che aveva intenzione di decorare come sepoltura per sé e i suoi cari nella chiesa di Sant’Andrea a Mantova. In realtà poco sappiamo della destinazione ufficiale di questo dipinto, se non il fatto che alla morte del Mantegna era ancora nella sua bottega e che giunse come eredità al figlio Ludovico.
La critica ha sempre sottolineato la strabiliante abilità tecnica dimostrata dal Mantegna nel costruire uno scorcio prospettico talmente perfetto da divenire proverbiale nell’ambito degli studi storico- artistici, ma forse non ne è stato mai affrontato a sufficienza il significato iconologico, svelandone l’aspetto contemplativo-devozionale.
La tela raffigura il corpo di Cristo morto, deposto dalla croce, semicoperto da un candido lenzuolo e disteso su una lastra di pietra rossa, certamente identificabile nella cosiddetta Pietra dell’Unzione, la preziosissima reliquia venerata a Costantinopoli fino alla conquista dei Turchi Ottomani nel 1453. In questo dipinto i segni della Passione del Redentore sono esibiti allo sguardo del fedele orante  e le mani sono dipinte per mettere in risalto i fori dei chiodi in tutto il loro terrificante aspetto, i piedi sono posti rilasciati con una diversa inclinazione, nella fedele ricostruzione della postura sovrapposta e asimmetrica assunta sulla croce. La testa è posta su di un cuscino, atto di pietà offerto dalle Pie donne e dai discepoli rimasti fedeli nel momento della tragedia del Golgota. A destra del cuscino scorgiamo il vaso degli unguenti,  portato dalle donne per preparare il corpo e lasciato in fretta vicino al corpo del Signore perché è  Parasceve, e di lì a poco bisognerà abbandonare il sepolcro per ritornare poi all’alba della Domenica per finire di pulire e profumare l’Amato e completare il pietoso rito della sepoltura.
Sulla sinistra sono rappresentate tre figure dolenti: le più vicine sono facilmente identificabili con la Madonna, dipinta mentre si deterge le lacrime con un fazzoletto, e con san Giovanni, il discepolo che Gesù amava, il fedele amico che non lo abbandona neanche ai piedi della croce. La terza figura, più nascosta, posta in alto e visibile solo in parte, potrebbe essere il ritratto della Maddalena. Tutta la scena è ambientata in un luogo chiuso, la stanza fredda del sepolcro, rischiarata appena da una debole luce che giunge dalla destra di chi guarda. All’estrema destra della parete di fondo si scorge un’apertura che conduce in una stanza completamente buia, richiamo evidente al buio della morte che il sepolcro porta con sé come simbolo doloroso del mistero della Passione di Cristo.
L’impostazione del dipinto risulta assolutamente originale rispetto a tutta la tradizione iconografica dell’Europa del nord (Vesperbild ), dove Maria è seduta e accoglie sulle gambe il corpo di Cristo morto, ripresa per esempio da Michelangelo nella Pietà Vaticana o nelle innumerevoli pietà dipinte tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500, e risulta diversa anche dall’impianto della Imago pietatis (immagine di pietà) caratterizzata dalla presenza eretta di Cristo morto, sostenuto da angeli o dalla Vergine Maria con san Giovanni e a volte da Giuseppe d’Arimatea o anche da Nicodemo. Quest’ultima tipologia di dipinto devozionale aveva generalmente la forma quadrata o a lunetta (semicerchio) dove Cristo e gli altri personaggi venivano  rappresentati a mezza figura, ed era utilizzata come parte alta di un polittico (in questo caso prendeva il nome di cimasa) o inserita in un ambiente architettonico, appunto in una lunetta.
Mantegna dipinge una tela di straordinaria capacità emotiva, perché consente al fedele di poter contemplare tutte e cinque le ferite di Cristo contemporaneamente: nessun dipinto, né occidentale né orientale, mostra questo tipo di rappresentazione scorciata, cioè in prospettiva, ma tutti si limitano ad una visione laterale oppure sindonica, cioè dall’alto, del corpo di Cristo come nel caso degli epitafi (tessuti ricamati con scene evangeliche tipiche della tradizione liturgica della chiesa orientale e parte integrante dell’arredo liturgico degli altari).
La Pietra dell’Unzione non compare nei testi evangelici, che però fanno chiaro riferimento all’unzione del corpo di Cristo con aloe e mirra. Tra il 1169 e il 1170, durante il regno di Emanuele Comneno, la reliquia della Pietra dell’Unzione giunge da Efeso (dove la tradizione narra che l’aveva portata Maddalena da Gerusalemme e dove fu venerata per secoli) a Costantinopoli. Di questa traslazione abbiamo delle precise descrizioni nelle fonti greche e in particolare in un testo di Niceta Coniata dedicato alle gesta dell’Imperatore Comneno, dove si legge che la pietra fu portata a spalla dallo stesso imperatore nella chiesa della Vergine di Pharos e che successivamente fu collocata in prossimità della sepoltura dell’imperatore nella chiesa del Pantocrator, dove ancora si può ancora individuare il luogo di collocazione. Molti pellegrini occidentali tra il XIII e il XV secolo ne riportano delle dettagliatissime descrizioni, che corrispondono esattamente alla lastra che Mantegna dipinge nella tela del Cristo morto: la lastra è rossa, coperta di macchie bianche, simili, seconde le descrizioni, a gocce di cera o a gocce d’acqua gelata, che si credevano essere state causate dalle lacrime della Vergine Maria al momento della preparazione alla sepoltura del corpo morto del figlio, secondo l’usanza ebraica. Dopo la conquista di Costantinopoli, moltissime trattative furono intraprese con il figlio di Maometto II, Bajezid II, sia da parte dei veneziani sia da parte dal re di Francia, per riportare la reliquia alla devozione della cristianità, ed anche il cardinal Bessarione se ne fece interprete, organizzando delegazioni diplomatiche, purtroppo infruttuose. In quel momento, molti artisti vennero incaricati di dipingere opere dedicate a questa reliquia per offrirle alla devozione popolare, e sicuramente in questo contesto ci fu anche il personale interessamento di Andrea Mantegna, che volle dipingere il Cristo morto, con un preciso intento devozionale.
Ciò che fu sottratto al culto, con la conquista di Costantinopoli, venne dunque risarcito all’interno della pietà devozionale con un capolavoro artistico:  l’artista ancora una volta si pone come testimone diretto degli eventi e accompagna per mano il fedele nel luogo dell’Unzione del corpo del Salvatore, in una ricostruzione puntuale dei fatti e degli oggetti, fedele alla tradizione per permettere al cuore devoto di vedere le ferite di Cristo e le lacrime di Maria, piangendo sui tragici fatti della cronaca contemporanea. I luoghi santi della vita di Gesù, le sante reliquie, i luoghi delle più antiche comunità cristiane sono persi, ma non la devozione e la preghiera; l’arte ha contribuito per mantenerle vive.
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Storico dell’arte, Accademico Ordinario Pontificio.
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