martedì 31 marzo 2015

Missione ad Arbil e Duhok



A colloquio con il sottosegretario di Cor unum. 


(Gianluca Bicini) Risvegliare le coscienze della comunità internazionale sul dramma dei profughi iracheni e riaccendere i riflettori sulle difficili condizioni dei cristiani nella regione, portando loro la solidarietà di Papa Francesco: con questo duplice obiettivo una delegazione del Pontificio Consiglio Cor unum e della Congregazione per le Chiese orientali si è recata dal 26 al 29 marzo ad Arbil e a Duhok. Guidava il gruppo il sottosegretario del dicastero per la carità del Pontefice, monsignor Segundo Tejado Muñoz, che in questa intervista al nostro giornale parla della tre giorni in Iraq.
Due tappe in tre giorni. Che impressioni avete tratto dalla visita?
In effetti è stato un vero e proprio “tour de force”, ma è servito per conoscere da vicino la realtà delle persecuzioni subite dalle minoranze cristiana e yaizida in fuga dalle violenze delle milizie del cosiddetto Stato islamico (Is), che hanno conquistato ampie porzioni di territorio in Iraq e nella vicina Siria. Abbiamo visitato infatti soprattutto i profughi di Mossul e della Piana di Ninive, che in quest’area del Kurdistan autonomo iracheno sono riusciti a trovare accoglienza.
Siete andati per portare loro la solidarietà del Papa. Cosa avete fatto in concreto?
Lo abbiamo fatto attraverso un segno: due icone della Madonna che scioglie i nodi, da lui benedette all’udienza generale di mercoledì scorso, 25 marzo. Alla vigilia della partenza infatti io e monsignor Khaled Ayad Bishay, officiale della Congregazione per le Chiese orientali, siamo stati in piazza San Pietro per parlare al Pontefice del nostro viaggio e lui ha benedetto le immagini mariane che poi abbiamo recato ai due presuli delle diocesi caldee visitate: monsignor Bashar Mattie Warda, arcivescovo di Arbil, e monsignor Rabban A-Qs, vescovo di Amadiyah, con sede a Duhok, come dono per le rispettive comunità.
Chi vi ha accompagnati?
C’erano il segretario generale di Caritas internationalis, Michel Roy, e il presidente di Caritas Medio oriente (Mona), Joseph Farah; il segretario generale della Focsiv, Attilio Ascani, e quello della fondazione Avsi, Giampaolo Silvestri, e Moira Monacelli di Cor unum. Con noi anche alcuni giornalisti italiani e di altre nazionalità proprio con l’obiettivo di mostrare al mondo, attraverso immagini e reportage, la realtà che abbiamo incontrato.
Una missione che rientra nei compiti del vostro dicastero? 
Infatti un aspetto fondamentale della nostra attività è quello di recarci in luoghi colpiti da sciagure. Lo abbiamo fatto anche ad Haiti o in Siria, per citare le missioni più recenti. Ma qui c’era una sorta di allarme confermato anche dalle agenzie locali delle Nazioni Unite. Le quali ci hanno detto che alcuni progetti stanno chiudendo per mancanza di fondi. Ma soprattutto si è trattato di incoraggiare le agenzie cattoliche che da tempo lavorano lì, prima tra tutte la Caritas. Siamo andati per dire loro che non sono soli sul campo. La loro opera di accoglienza gravita attorno a tre priorità: alloggio, educazione e sanità. E noi non dimentichiamo i volontari e le agenzie, che sono le braccia della Chiesa, le mani di chi dà.
Come si è svolta la visita?
Abbiamo iniziato ad Arbil incontrando le due principali comunità cattoliche: quella caldea e quella sira. Poi abbiamo avuto un colloquio con Nabil Nissan di Caritas Iraq e con esponenti di altre realtà locali: tutti ci hanno illustrato difficoltà e attese. Poi ci siamo trasferiti al Nord, a Duhok, città vicina a Mossul. Abbiamo attraversato diversi check-point dei peshmerga curdi, i quali garantiscono la sicurezza del territorio. Il vescovo caldeo Al-Qas ci ha guidati in una sorta di pellegrinaggio tra gli sfollati che vivono in case affittate anche grazie ai contributi della Conferenza episcopale italiana. Siamo stati inoltre in un campo profughi gestito dal Governo turco e dalle Nazioni Unite. Si tratta di una tendopoli con annesso ospedale da campo, in cui abbiamo sentito storie toccanti. Io ho esperienze di sfollati a causa di disastri naturali, ma questa è gente che è stata cacciata dai propri vicini di casa o di negozio. Sono storie di dolore e di umiliazioni. Come quella di una donna rapita e riuscita a sfuggire ai suoi aguzzini.
Com’è la vita all’interno dei campi?
Pur non mancando acqua e cibo, si vive sempre in un clima di tensione. I volontari devono fare quotidianamente i conti con l’esasperazione soprattutto degli uomini che si sentono inutili e frustrati perché essendo senza lavoro hanno ben poco da fare. Diverso è invece il discorso per i bambini, ai quali si cerca di assicurare educazione, formazione e animazione. Un programma molto bello per garantire tranquillità alle nuove generazioni.
Arbil ospita ben dodicimila famiglie di sfollati. È una realtà nevralgica nel contesto dell’accoglienza assicurata dalla Chiesa?
Sì, perché è anche la città che in qualche modo ne coordina l’assistenza. Abbiamo visitato altre realtà che accolgono profughi. Una è composta da edifici in costruzione i cui lavori si sono fermati a causa della guerra. Sono stati dati in uso alla Chiesa locale, che attraverso divisioni provvisorie realizzate con mattoncini le ha assegnate a 175 famiglie. Un’altra è un campo formato da edifici-container e animato da un prete espulso da Mossul.
Quali aspetti positivi avete riscontrato?
Oltre all’encomiabile attività formativa dei giovani, mi ha colpito la cura e la partecipazione alle liturgie, in particolare quelle di sabato sera, vigilia della domenica delle Palme. C’è poi una fervente evangelizzazione, perché — come mi ha confidato monsignor Warda — il problema è anche il cibo, ma soprattutto la mancanza di speranza per gente che vede difficile poter tornare nelle proprie case. E il fatto che la nostra visita si sia svolta a ridosso della Settimana santa può essere letto come un messaggio di speranza nella risurrezione anche di queste persone. Ce lo auguriamo noi, così come se lo augura il Papa, che anche all’Angelus di domenica 29 ha di nuovo parlato della tragica situazione dei cristiani martiri di oggi.
L'Osservatore Romano