giovedì 26 marzo 2015

Vocabolario "Bergogliese"



Da "mafiarsi" a "spuzzare": la lingua creativa del Papa 
di Mimmo Muolo

'Mafiarsi', 'giocattolizzare', 'inequità'. Se aprite un vocabolario della lingua italiana, termini come questi non li troverete di certo. E neanche in quello della Real Accademia spagnola. Sono i neologismi del Papa, veri frutti di una creatività lessicale che Francesco sfodera quando vuole esprimere concetti per i quali le parole di uso comune gli stanno strette. 

L’ultimo caso in ordine di tempo risale a sabato scorso, durante la visita a Napoli. Il verbo spuzzare, probabilmente reminiscenza vernacolare piemontese, non è passato inosservato e ha contribuito a far 'materializzare' il cattivo odore che emana la corruzione, da sempre considerata da Bergoglio tra i peccati più gravi. Allo stesso modo, se non di più, ha fatto rumore il penultimo dei suoi neologismi, 
messicanizzazione, usato da Francesco in un messaggio privato a un suo amico che si occupa di lotta alla droga, per indicare il pericolo di una diffusione capillare del narcotraffico anche in Argentina. In Messico non l’hanno presa bene e anche il governo ha chiesto spiegazioni. Ma il Papa ha chiarito, nell’intervista alla tivù messicana Televisa, che era un’espressione «tecnica», «nulla a che vedere con la dignità del Messico». «Quando parliamo di 'balcanizzazione' – ha ricordato – né i serbi né i macedoni né i croati si risentono». 

Caso risolto rapidamente, dunque. Resta però la potenza di evocazione del linguaggio papale. Il 7 febbraio scorso, ad esempio, ha attirato l’attenzione dei media (anche era già stato usato nella Evangelii gaudium) il vocaboloinequità che in italiano non esiste. La parola più vicina è 'iniquità'. Ma inequità e iniquità non sono esattamente la stessa cosa per Bergoglio. Iniquità, infatti, (citiamo la definizione del vocabolario Treccani) significa sì mancanza di equità e dunque ingiustizia, ma ormai viene adoperato soprattutto come malvagità, cattiveria e nel linguaggio biblico ascetico è sinonimo di peccato che offende gravemente Dio. Francesco nel numero 53 della Evangelii gaudium (Eg), invitando a «dire no a un’economia dell’esclusione e della inequità», spiega: «Questa economia uccide. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. 
Questo è inequità». Dunque l’inequità è anche iniquità, (cioè azione cattiva e peccato contro Dio), ma prima di tutto è qualcosa che offende l’uomo, il simile, il fratello. 

Una sproporzione nell’uso delle risorse economiche e dei beni della Terra che non permettendo a tutti di godere di pari opportunità, causa dunque esclusione, o meglio quella «cultura dello scarto», che è un’altra delle locuzioni originali di Francesco. 

Tra l’altro non è l’unico bergoglismo della Eg. Nella versione spagnola, al numero 24 c’è il verbo primerear (di cui parliamo dopo) e al 96 troviamo l’habriaqueísmo, che nella versione italiana è stato tradotto con «peccato del si dovrebbe fare» o 'doverfarismo', quando cioè «i maestri spirituali ed esperti di pastorale danno istruzioni rimanendo all’esterno». Al 106 si parla, poi, con riferimento ai giovani, di 
callejeros della fede, tradotto con «viandanti della fede». Ma in realtà il termine significa più propriamente 'monelli di strada'. In quasi due anni di pontificato l’elenco dei bergoglismi si è progressivamente allungato. Jorge Milia, un suo ex alunno, ne ha contati 17, per lo più provenienti dal lunfardo (il gergo dei quartieri popolari di Buenos Aires molto usato nel tango) e vi ha dedicato altrettanti articoli che si trovano nel blog Terre d’America di Alver Metalli e in gran parte pubblicati da L’Osservatore Romano. 

bergoglismi sono di due tipi. Quelli che derivano dall’uso creativo del lunfardo e gli autentici neologismi. Al primo gruppo appartiene ad esempio il verbo primerear. La gente della capitale argentina lo usa come sinonimo di anticipare qualcuno, fregandolo un po’. Procurarsi i migliori biglietti per una partita con mezzi poco ortodossi oppure in una rissa estrarre per primo il coltello. Quindi quando hanno sentito il loro arcivescovo dire che la Grazia deve 'primerear' il peccato, hanno capito al volo. Da Papa, Bergoglio l’ha usato diverse volte. Tra le altre il 18 maggio 2013 durante la Veglia con i movimenti. «Quando noi andiamo verso Dio, Lui ci sta già aspettando, è già lì. Userò un’espressione che usiamo in Argentina: il Signor ci 'primerea' , ci anticipa, ci sta aspettando: pecchi e lui ti sta aspettando per perdonarti». 

Anche balconear ha la stessa provenienza. Significa guardare dal balcone, non coinvolgersi. Per Francesco, la fede è un cammino, dunque movimento, uscita, missione. E perciò si è riferito con questa espressione soprattutto ai giovani, durante la Gmg di Rio de Janeiro, invitandoli a non 'balconear', ma a tuffarsi nella vita come ha fatto Gesù. Il gruppo dei bergoglismi 'carioca' (cioè usati a Rio) si completa poi con l’espressione «questa civiltà mondiale si è spanata (in lunfardo 
se pasò de rosca)», che allude alle viti troppo strette che finiscono per girare a vuoto; e anche con l’altra frase – gioventù empachada e triste – che prende a prestito il verbo empachar (qualcosa in più di un imbarazzo di stomaco e un po’ meno di una indigestione) per puntare nuovamente il dito contro la stessa civiltà che riempie i giovani di cibo spazzatura e di altre 'porcherie' spirituali e li appesantisce. Inoltre, nell’incontro con i giovani argentini, il Papa usò la frase hacer lio. 

Letteralmente 'fare chiasso', come succede quando i tifosi festeggiano una vittoria o si partecipa a una manifestazione o i bambini giocano rumorosamente. Il Papa la reinventa in senso religioso e afferma: «Desidero dirvi ciò che spero come conseguenza della Giornata della Gioventù che ci sia chiasso». Cioè «che si esca fuori, che la Chiesa esca per le strade». Vi sono poi i verbi ningunear e pescar. Il primo significa 'annullare', il secondo, in lunfardo, significa anche 'tirar fuori, enucleare' e dunque 'comprendere'. Francesco l’ha usato parlando con la presidente argentina, Cristina Fernández de Kirchner, nell’udienza del 18 marzo 2013. Consegnandole il documento di Aparecida, aggiunse: «Perché lei inizi a pescare ciò che pensano i vescovi».

Tipicamente gergale è anche il que Dios me banque! («se mi ha messo qui che ci pensi lui»), detto in un colloquio privato al suo alunno alcuni mesi dopo l’elezione. E anche il chamuyo di Dio, cioè il parlare del Signore all’orecchio della nostra coscienza, che assomiglia a quello di un fidanzato che 'chamuya' con l’amata, cioè le parla d’amore, vuole sedurla. 

Quanto ai neologismi veri e propri non si può non partire da uno strano gerundio, misericordiando (riferito al suo motto miserando atque elingendo), che sia a Millia, sia nell’intervista a padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, il Papa spiega più o meno così. «Il gerundio latino miserando è intraducibile sia in italiano che in spagnolo. Mi è venuto in mente di tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando». Vi sono poi la preghiera memoriosa, cioè piena di memoria e le comadri(parlando ai ginecologi cattolici: «Un tempo, alle donne che aiutavano nel parto le chiamavamo 'comadre'»). Nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2014, Francesco, tra i peccati curiali, ha inserito anche ilmartalismo, cioè l’atteggiamento di chi fa come Marta, la sorella di Lazzaro: si dà un gran da fare, ma si perde la parte migliore, cioè le parole di Gesù. 

Mentre nel Te Deum del successivo 31 dicembre ha sfornato mafiarsi (cioè assumere esistenzialmente, prima ancora che dal punto di vista criminale, l’habitus mafioso) e nostalgiare la schiavitù, in pratica il provare nostalgia fino quasi a coccolarla dentro di sé. Infine, parlando con i giornalisti durante il recente viaggio in Estremo Oriente, in riferimento alla libertà di espressione che irride la religione, ha creato il verbo giocattolizzare, che va al di là del semplice prendere in giro e rende bene l’idea di un qualcosa di importante reso giocattolo nelle mani di un altro. Quel viaggio, del resto, anche attraverso il ricorso a espressioni idiomatiche italiane («fare figli come conigli»; «un calcio dove non batte il sole») ha confermato come per il Papa l’uso creativo della lingua è un modo di essere pastore con l’odore delle pecore. 

Perché in fondo nei diversi bergoglismi è racchiuso molto del suo magistero.

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La "spuzza" bergogliana? Ecco da dove viene 
di Salvatore Claudio Sgroi

La recente visita di papa Francesco a Napoli, ha suscitato – e non poteva non esser così – una vasta eco nei mass media televisivi, per la sua vigorosa denuncia della corruzione dilagante nella nostra società. «La corruzione spuzza, la società corrotta spuzza e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, spuzza», ha con forza affermato il Papa. 

E ancora: «Quanta corruzione c’è nel mondo: è una parola brutta, perché una cosa corrotta, è una cosa sporca. Se noi troviamo un animale che è corrotto, è brutto. E spuzza. La corruzione spuzza e la società corrotta spuzza». In queste parole del Papa la 'corruzione' è attorniata non meno di cinque volte dalla presenza dell’insolito termine 'spuzza'. Un verbo 'puzzare' con il prefisso 's-' intensivo, semanticamente potenziato in «puzzare in modo acre e rivoltante», come in parole quali '(s)cancellare', '(s)cacciare', '(s)cambiare', '(s)premere'. 

Trattandosi di un termine 'non comune' in italiano, in bocca a un italofono non nativo, qualcuno ha ritenuto di poter parlare di un 'errore', peraltro insistentemente ripetuto. Qualcun altro ha anche ipotizzato che il Pontefice avesse voluto avvicinarsi agli immediati destinatari del messaggio, adoperando un termine partenopeo. Che in realtà tale non è. Invece, il termine 'spuzza' è emerso dal dialetto italiano della famiglia del pontefice, com’è noto, di origine piemontese. La conferma 'dotta' la fornisce per esempio il 'Gran Dizionario Piemontese-italiano' di Vittorio di Sant’Albino (1859), che registra il verbo spussè (puzzare) e il nome 
spussa (puzza), «odore spiacevole di cose corrotte». 

La voce è altresì ampiamente presente, con varianti, nei dialetti italiani settentrionali. Nel milanese: verbo spuzzà e nome spuzza, cito, in particolare, i poeti Carlo Maria Maggi (1630-99) e Carlo Porta (1775-1821). Nel ligure verbospussà, spussar, spüsà e nome spussa, spuça, spüssa('Vocabolario ligure' di Sergio Aprosio 2003). Nel veneziano, cito solo il teatro settecentesco di Carlo Goldoni, ma anche nel roveretano e nel trentino. Il Petrocchi, nel 1890, annota anche che «vive a Pistoia». 

Il termine, oltre che nei dialetti, è attestato nell’italiano antico, dal ’200 al ’500 e in diversi autori toscani: Giovanni Sercambi, Piovano Arlotto, Pietro Fortini… Il sostantivo femminile spuzza, oltre che nel ’200 e nel ’300 (Anonimo genovese e san Gregorio Magno, volgarizzamento), è stato adottato nell’800 e nel ’900 dal lombardo Carlo Dossi e dal toscano Umberto Fracchia, mentre Natalia Ginsburg utilizza il verbo 
spussa nel suo 'Lessico famigliare' (1963). 

Il Pontefice ha quindi trasferito creativamente la voce del dialetto piemontese in italiano, attuando un normale procedimento di 'transfert' linguistico. In bocca a un locutore di tale prestigio il dialettalismo è stato insomma promosso, superando la fase di regionalismo a cui era relegato. Non è quindi giustificata, né filologicamente né semanticamente, la correzione puristica del termine del Papa 'spuzzare' banalizzato, scolorito e depotenziato in 'puzzare', che si è potuta leggere in non pochi giornali e sentire in telegiornali e radiogiornali. 
Avvenire