venerdì 29 maggio 2015

Quando lo stupro è brandito come un’arma



Soprusi brutali durante i conflitti. 

(Yudith Pereira Rico) Perché nei conflitti armati, come in Sud Sudan, si attaccano le donne? Anyeth D’Awol lo spiega: «La violenza legata al conflitto armato appare quando c’è un sistema di genere basato sulla discriminazione. Alle morti e agli stupri si risponde con altre morti e altri stupri come vendetta, quando si sa che non ci sarà altra giustizia. Gli autori della violenza cercano di distruggere tutto, il nostro futuro e la nostra storia: le vittime vanno dalle bambine piccole alle anziane di ottant’anni. Si usa la brutalità per assicurare che il dolore sia profondo, affinché duri per sempre e non si possa mai dimenticare. La violenza sessuale si sta infliggendo in una misura mai vista prima, superando i livelli di brutalità delle guerre precedenti. A molte viene fatto scegliere tra lo stupro o la morte. Quelle che rifiutano lo stupro vengono penetrate con pali, fucili e altri oggetti finché muoiono dissanguate. Quelle che scelgono lo stupro vengono violentate da gruppi e neanche loro sopravvivono».
Vi è poi la testimonianza di una religiosa sulle donne di Leer: «Nel mese in cui abbiamo vissuto la guerra, sono state sempre le donne a dover scappare per salvare la vita ai propri figli, in condizioni in cui sembrava impossibile poter sopravvivere. Durante l’attacco numerose donne sono state violentate, e le bambine venivano a rifugiarsi nella nostra casa. Gli assalitori arrivavano ad aprire il ventre delle donne incinte per estrarre il bambino». 
Le donne nei campi parlano della sofferenza e della violenza, dei mariti e dei figli morti o dai quali sono state separate, della mancanza di cibo, di acqua, di medicine, di luoghi sicuri per educare i figli, delle malattie e della morte. E parlano anche loro di anelito di pace.
L’uso dello stupro come arma di guerra nei campi di sfollati interni è stato riconosciuto come la situazione più atroce di cui è stata testimone in trent’anni di lavoro Zainab Hawa Bangura, la rappresentante delle Nazioni Unite per la violenza sessuale in situazioni di conflitto armato afferma: «Le persone trasferite nei campi affrontano una situazione d’insicurezza cronica, condizioni di vita inimmaginabili, seri problemi di protezione e una violenza sessuale senza freni. Il cibo offerto nei campi è insufficiente, per cui le donne devono uscire per andare a cercare la legna per cucinare, attraversando diversi controlli dell’esercito, dove vengono sistematicamente violentate. Gli uomini non escono dal campo, devono scegliere tra la propria vita e quella della loro famiglia. Se esco dal campo — pensano — mi uccidono, perciò mando o mia moglie, o mia figlia o mia madre, perché il massimo che possono fare loro è violentarle. Ma almeno torneranno vive».
Commettendo le peggiori atrocità contro le donne, s’inviano chiari messaggi agli uomini: è il modo per punirli. Così le donne e le bambine diventano uno strumento per distruggere famiglie e comunità. Vittime e operatori sanitari raccontano storie di stupri di gruppo, di sequestri, di schiavitù sessuale e di matrimoni forzati. Questi sono crimini contro l’umanità che devono essere perseguiti nei tribunali sia nazionali sia internazionali. Oltre agli stupri, le donne sfollate nei campi subiscono la violenza domestica.
I matrimoni forzati delle bambine servono come fonte di risorse familiari e come misura di protezione o controllo da parte dei padri. Quelle che sopravvivono sono tre volte vittime: della violenza, dell’intimidazione o impunità se la denunciano, e del matrimonio forzato per sistemare la situazione secondo la cultura tradizionale.
Che cosa fa la Chiesa di fronte a tutto ciò? Attraverso laici impegnati, sacerdoti diocesani, religiosi, e soprattutto religiose, la Chiesa locale lavora assistendo le vittime nei campi di sfollati e, mediante programmi per superare i traumi e favorire la riconciliazione, si reca nei luoghi dove sono fuggite le loro comunità. 
Le storie sono terrificanti e lasciano ferite indelebili. Si cerca di aiutare le vittime a superarle e a conviverci in modo da divenire a loro volta capaci di sanare se stesse e gli altri; molti sacerdoti e religiosi devono partecipare a questi programmi per riprendersi.
Le Chiese lavorano direttamente con le donne, riuscendo a fare scoprire loro la propria dignità e i propri diritti. «Oggi è la giornata della mia indipendenza, ho scoperto che le donne hanno dignità e che sono fatta a immagine di Dio. Non è vero che non valgo nulla» afferma una delle donne vittima di violenze.

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La Chiesa di fronte alla condizione delle donne oggi

Dal 29 al 31 maggio nella Casina Pio IV in Vaticano si svolge il seminario internazionale organizzato da «donne chiesa mondo», mensile dell’Osservatore Romano, sul tema «La Chiesa di fronte alla condizione delle donne oggi». 
I lavori del seminario — che si concluderanno domenica con la messa celebrata dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, nella chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva — verranno trasmessi in diretta streaming sul sito del nostro giornale. In questa pagina pubblichiamo uno stralcio della relazione di Caroline Roux, giornalista francese delegata generale aggiunta di Alliance Vita e direttrice di «Vita International», dedicata ai «guasti del diritto d’aborto» e un brano dell’intervento di Yudith Pereira Rico — religiosa spagnola di Gesù-Maria, che ha vissuto 17 anni in Africa occidentale dirigendo progetti educativi, pastorali e di promozione della donna in Guinea e Camerun, responsabile dal gennaio 2014 dell’ufficio internazionale di Solidarity with South Sudan — intitolato «Le donne in Sud Sudan». Entrambi gli interventi saranno pronunciati nel corso della prima sessione del convegno dedicata al tema della violenza, che si svolge nel pomeriggio di venerdì 29 maggio
L'Osservatore Romano