martedì 30 giugno 2015

Non è stato un caso!



di Francesco Agnoli
Roma. All’indomani della manifestazione di piazza San Giovanni a Roma del 20 giugno, il Comitato “Difendiamo i nostri figli” è già pronto a riconvocarsi. Alcuni incalzano perché non si molli la presa. In tanti chiedono che si torni in piazza già a settembre, sull’esempio dei francesi. Abbiamo chiesto al presidente e portavoce del Comitato, Massimo Gandolfini, come si siano potute mobilitare, in 18 giorni, migliaia e migliaia di persone, senza l’appoggio né di partiti o sindacati, né della gerarchia ecclesiastica.
“Il risultato di piazza S.Giovanni – risponde il neurochirurgo e psichiatra – è senz’altro straordinario e ha superato le più ottimistiche previsioni. Ma non è stato un fulmine a ciel sereno. Nei dodici mesi precedenti abbiamo incontrato decine di migliaia di persone in convegni, conferenze, dibattiti; abbiamo incontrato la gente comune – quella degli oratori, delle piazze, dei circoli culturali più disparati e più sconosciuti, dei ritrovi e dei bar – e abbiamo informato di quanto stava accadendo, senza che se ne accorgessero, raccontando storia e strategia del gender, con tutti i pericoli che figli e nipoti stavano correndo nella scuola, compresi i rischi per la famiglia, scippata della sua identità (padre e madre) e del suo diritto educativo. Si è alzata una voce comune: facciamo qualcosa, manifestiamo il nostro dissenso, diciamo che vogliamo una famiglia con mamma e papà e i bimbi al centro, protetti nella loro innocenza, che il gender si ripromette di traviare! Questo è il segreto del successo in pochissimi giorni: molte famiglie erano già pronte e aspettavano solo che qualcuno avesse il coraggio di chiamarle all’appello. Anzi, molti erano scandalizzati che non si facesse nulla: se non ora, quando?”

Sì, l’attività sul territorio è stata febbrile, ma otto anni fa il Family day fu sostenuto dalla Cei di Camillo Ruini. Furono organizzati pullman, persino da Coldiretti e Cisl… Questa volta non solo la Cei non c’era, ma il suo segretario, Nunzio Galantino, si è mostrato apertamente contrario. Senza risultato, se non il fastidio di molti cattolici e di non pochi confratelli nell’episcopato. Cosa significa, per dei laici agire in prima persona, senza appoggio della gerarchia? E’ finito il tempo dei “vescovi pilota”? Che giudizio dà del disimpegno, non certo assoluto, ma purtuttavia evidente, delle gerarchie ecclesiastiche, sui temi eticamente sensibili?

“Sì, l’autoconvocazione è stato un aspetto nuovo. Il Family Day del 2007 nacque dall’alto ed ebbe alle spalle un’organizzazione formidabile, in tutti i sensi. Il 20 giugno, nasce dal basso, dalla gente comune, priva di qualsiasi finanziamento, tutto a spese delle singole famiglie. Nessuna agevolazione o sconto speciale, né per treni né per pullman. Il laicato cattolico è diventato il vero protagonista diretto: certamente onore al merito, ma è anche un merito ‘obbligato’ dalle circostanze. Quando nessuno si muove, non si hanno molte alternative: o si sceglie di rimanere passivi e supinamente immobili, o si decide di avere coraggio, anche rischiando… ma se la causa è alta, importante, di valore, vale certamente la pena di rischiare. San Giovanni Paolo II, nella Familiaris Consortio (43) esortava le famiglie ad assumersi responsabilità per ‘trasformare la società: diversamente saranno le prime vittime di quei mali che si sono limitate ad osservare con indifferenza’. Responsabilità che – secondo gradi e livelli specifici – è di tutti. Tutti, di fronte al durissimo attacco alle basi stesse dell’umano e della famiglia – leggi ddl Cirinnà e ddl Fedeli – hanno il dovere di alzare il capo, giocandosi con coraggio e lealtà, in nome della verità, al di là di machiavelliche considerazioni strategiche. Responsabilità che è prima di tutto verso la propria coscienza, e poi di fronte alla gente e alla storia”.

Responsabilità di tutti, afferma Gandolfini, con serena fermezza. Ma non la pensa così monsignor Galantino, vero deus ex machina della chiesa italiana, che ha agito in ogni modo per ostacolare il 20 giugno, prima, e per silenziarlo, poi. All’osservatore attento, che segue ormai da parecchi anni la grande battaglia antropologica in atto, appare chiara la svolta imposta dal segretario Cei, in contrasto, è giusto ricordarlo, con il presidente Bagnasco. Dieci anni fa Ruini propose la creazione di Scienza & Vita, un pensatoio di laici, medici, filosofi, insegnanti… capaci di rendere ragione di una visione antropologica fondata sulla fede, ma anche sulla ragione e la scienza. Oggi l’indirizzo suggerito, talora imposto, dal segretario Galantino, è assolutamente antitetico all’impegno vigente sotto il pontificato di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Le voci vanno però tutte nella stessa direzione: è stato Papa Francesco ad approvare la manifestazione, come aveva già fatto in passato in Argentina. E’ stato lui a mettere in riga monsignor Galantino. Con esiti imbarazzanti, quali la lettera “filo-governativa” della dirigenza di Comunione e liberazione, che, per stare con il segretario Cei, si è trovata, forse senza neppure accorgersene, in disaccordo con il Pontefice. Viene spontaneo chiedere a Gandolfini se il clericalismo abbia qualcosa a che fare con le vicende di questi giorni. “Papa Francesco – risponde – sta aiutando moltissimo a liberarci da un clericalismo che cala dall’alto e considera il laicato un quadro subalterno, mero esecutore di scelte imposte e, spesso, non condivise. Però, a mio avviso, è tanto vero che il ‘pastore-pilota’ è figura ormai superata, quanto è vero che il gregge ha bisogno di un pastore che coglie le sue necessità, i suoi bisogni, le sue richieste, il suo grido di allarme e di aiuto. La storia – anche recente – ci insegna che quando il pastore tace, vincono i lupi. Quando il Bene e la Verità non hanno più voce pubblica, il Male la fa da padrone”.

Che il pastore talvolta taccia, sembra appurato. I rumors che vengono dai corridoi del Parlamento, però, sono ancora diversi: Renzi – svela qualcuno – è infastidito dalla grande manifestazione del 20, ma non troppo. Corre voce che Galantino stesso abbia assicurato, non solo con i segnali pubblici di appeasement lanciati in questi giorni al governo, ma in modo ancora più esplicito, che la chiesa italiana non andrà alla “guerra” per il gender. In questa condizione anche i parlamentari impegnati sul fronte delle leggi, si trovano in grande difficoltà. Hanno dietro un popolo, che non solo Renzi, Cirinnà e Scalfarotto vogliono silenziare, ma anche qualcun altro il cui gioco di sponda potrebbe rivelarsi decisivo.
Il Foglio

Coffee Break - #AltriDiritti (Puntata 30/06/2015)

NUOVA LETTERA APERTA 38a CONVOCAZIONE NAZIONALE RNS


 

Carissime, carissimi nel Signore,
vi preghiamo di prendere visione con particolare attenzione di tutti gli allegati di seguito evidenziati che ANNULLANO TUTTE LE PRECEDENTI COMUNICAZIONI RELATIVE ALLA 38CONVOCAZIONE NAZIONALE DEL RINNOVAMENTO NELLO SPIRITO SANTO CON PAPA FRANCESCO, presentando il NUOVO PROGRAMMA e le RELATIVE MODALITÁ.
Queste comunicazioni aggiornate sono da ritenersi definitive.
Le notizie provenienti da fonti diverse o precedentemente acquisite sono da considerarsi non valide.
DIFFONDETE IN OGNI MODO E MOLTIPLICATE QUESTI ALLEGATI!
GRAZIE! ALLELUJA!

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Rassegna stampa Avvenire 28 giugno



Rassegna stampa Avvenire del 24 giugno


Rassegna stampa La Freccia - Giugno 2015


Tv Sorrisi e Canzoni 23 giuugno
Rassegna stampa

Le traiettorie dell’islam radicale.


Pubblichiamo in una nostra traduzione uno stralcio del saggio «Les trajectoires des jeunes jihadistes français» di Farhad Khosrokhavar, contenuto nel numero di giugno della rivista francese «Études». L’autore, sociologo e accademico iraniano, è dal 1998 direttore dell’École des hautes études en sciences sociales (Ehess) di Parigi. Tra le sue opere, ricordiamo L’islam des jeunes (1997), Les nouveaux martyrs d’Allah (2002), L’islam dans les prisons (2004).
(Farhad Kosrokhaver) Lo jihadismo è un fenomeno che risale all’ultimo quarto del XX secolo. Un po’ ovunque, degli individui si radicalizzano e tentano di compiere attentati al fine dii lottare contro l’eresia e l’empietà (kufr), di denunciare atti di profanazione dell’islam. Molti di loro sono cresciuti in Europa. Spesso sono di origine musulmana, ma sono sempre più numerosi i convertiti. Dall’inizio della guerra civile in Siria (2013) si sta diffondendo una nuova forma di jihadismo e i suoi nuovi protagonisti hanno caratteristiche diverse rispetto al passato. 
In Francia, e più in generale in Europa, il terrorismo nel nome di Allah è un fatto ultraminoritario tra i musulmani. La sua portata non ha alcun rapporto con il numero effettivo delle persone uccise, sconvolgendo però la società e generando una crisi profonda al livello delle assise simboliche dell’ordine sociale.
Gli attentati pongono la questione dello jihadismo e della sua ideologia estremista, ma anche, e soprattutto, dell’attore jihadista, che passa all’azione e commette i suoi crimini a sangue freddo. Da dove nasce la sua decisione? Come comprendere la sua frenesia in una carneficina che spesso si conclude con la sua stessa morte, che ha a lungo premeditato come atto di compimento del suo destino nel martirio? 
Chi sono questi attori? È possibile distinguere diverse categorie di islamisti radicali in Europa, che hanno come tratto comune quello di essere “terroristi di casa”, vale a dire giovani scolarizzati ed educati nei Paesi europei. Ci sono anzitutto i giovani dissociati (quelli delle banlieue). A questi si aggiungono, soprattutto dal 2013, giovani del ceto medio. La terza categoria è costituita da ragazze o giovani donne.
La soggettività dei giovani dissociati che abbracciano l’islam radicale è caratterizzata da un tratto fondamentale: l’odio verso una società che percepiscono come profondamente ingiusta nei loro confronti. Vivono l’esclusione come un fatto ineludibile, uno stigma che hanno sul loro volto, nel loro accento, nella loro lingua, come anche nella loro postura fisica, percepita come minacciosa dagli altri cittadini. Sono in rotta con la società e respingono ogni divisa (anche quella del vigile del fuoco) come emanazione di un ordine repressivo. La loro identità si declina nell’antagonismo rispetto alla società degli inclusi, francesi, gaulois o anche persone di origine nordafricana che sono riuscite a sollevarsi al livello dei ceti medi. Stigmatizzati agli occhi degli altri, provano un senso profondo della propria indegnità. Ciò si traduce in un’aggressività a fior di pelle, non solo verso gli altri, ma anche, e spesso, verso membri della propria famiglia, soprattutto il fratello più piccolo o la sorella più giovane che osa uscire con un ragazzo.
Il ghetto della banlieue si trasforma in una prigione interiore. Quei giovani mutano il disprezzo verso se stessi in odio verso gli altri, e lo sguardo negativo degli altri in uno sguardo sprezzante su di loro. Mirano anzitutto a caratterizzare la loro rivolta con atti negativi piuttosto che cercare di denunciare il razzismo impegnandosi socialmente. Rinchiusi nel loro quartiere o anche solo all’interno di qualche isolato, i giovani esclusi trovano la via d’uscita nella delinquenza e nella ricerca di denaro facile per vivere secondo l’agognato modello delle classi medie. Talvolta le superano, appropriandosi di somme più o meno importanti che dilapidano con i propri compagni, a costo di reiterare l’atto di delinquenza che diventa progressivamente criminale. Il male di cui più soffrono sono la vittimizzazione e la certezza che l’unica via d’accesso al livello dei ceti medi sia la delinquenza, giacché la società, secondo loro, ha chiuso tutte le altre uscite.
Come l’odio trova una via di fuga nella delinquenza, così si placa con l’accesso, per brevi periodi, all’agio materiale seguito dalla dissipazione dei beni acquisiti illegalmente. Ma per una piccolissima minoranza la devianza da sola non basta; hanno bisogno di una forma di autoaffermazione che combini diverse caratteristiche: la riscoperta della dignità perduta e la volontà di affermare la loro superiorità sugli altri mettendo fine al disprezzo di sé. La trasformazione dell’odio in jihadismo sacralizza la rabbia e fa loro superare il proprio malessere attraverso l’adesione a una visione che rende loro “cavalieri della fede” e gli altri “empi” non degni di esistere. Il cambiamento esistenziale è così compiuto, il sé diventa puro e l’altro impuro. L’islamismo radicale opera un’inversione magica, che trasforma il disprezzo di sé in disprezzo dell’altro e l’indegnità in sacralizzazione di sé a scapito dell’altro.
Nel percorso jihadista dei giovani delle banlieue, il carcere svolge un ruolo essenziale, non tanto perché lì ci si radicalizza, quanto per la ragione fondamentale che esso offre la possibilità di maturare l’odio per l’altro nei rapporti quotidiani, intessuti di tensione e di rifiuto dinanzi all’istituzione carceraria. Ogni volta che si trasgrediscono le regole interne della prigione, le sanzioni ricordano l’esistenza di un sistema del quale si contesta la legittimità a causa di questo grande sentimento d’ingiustizia che si annida nel profondo del cuore. La prigione fa rinsavire alcuni giovani, ma la maggior parte di loro vi trova un motivo in più per odiare la società.
Un ultimo fatto convince l’apprendista jihadista della legittimità della causa che difende, ovvero il viaggio iniziatico in un Paese del Medio Oriente nel quale prevale la “guerra santa”. Merah è stato in Pakistan, in Afghanistan e in altre regioni dove imperversa l’islamismo radicale. Nella maggior parte dei casi, il viaggio iniziatico conferma il giovane jihadista nella sua nuova identità, facendogli riallacciare rapporti, in modo mitico, con le società musulmane, delle quali però non parla la lingua né condivide le usanze. Questo viaggio gli fa imparare come maneggiare le armi. Allo stesso tempo gli permette di diventare estraneo alla propria società. Impara soprattutto a diventare crudele, a giustiziare in modo professionale e senza emozioni gli ostaggi e gli individui da lui incriminati (poliziotti e militari, ebrei, “cattivi musulmani”), in sintesi: a diventare un vero combattente agguerrito della jihad iperbolica, che non arretra davanti a nessun ostacolo morale nel mettere a morte i “colpevoli”.
La neo-umma è un’utopia tanto pericolosa quanto quella della società senza classi o quella del paradiso in terra e, come tutte queste utopie, il pericolo che rappresenta è di fare violenza alla realtà. Nella neo-umma viene negata l’evoluzione delle società musulmane e il ritorno puro e semplice ai Salaf (compagni del Profeta) viene esaltato in una forma che riporta a pratiche abbandonate da tempo.
Il giovane jihadista prova un bisogno irrefrenabile di fare corpo con la neo-umma contro la propria società disprezzata. Per risollevarsi ai propri occhi, l’islam jihadista gli offre lo status di eroe assoluto rivestito del prestigio del martirio che incarna in quanto mujahid (combattente della fede, stessa radice di jihad). Uccide, incute paura, si fa odiare e trae orgoglio dalla nuova statura conquistata occupando la prima pagina dei mezzi di comunicazione. Supera l’anonimato e l’insignificanza con il fascino malsano che esercita sui media, pronti a diffondere l’immagine dell’eroe negativo, che apprezza tanto più in quanto ispira una paura assoluta negli altri. È pronto a uccidere, e perfino a morire, mentre gli altri temono per la propria vita. Dunque è superiore a loro.
Prima dell’inizio della guerra civile in Siria (2013) i giovani jihadisti provenivano solo eccezionalmente dai ceti medi. Da allora essi formano, accanto ai giovani delle città, una parte importante degli jihadisti in erba che si sono precipitati in Siria per mettersi al servizio dello Stato islamico (Daech) o di altri gruppi jihadisti come il Fronte della vittoria (Jihat al Nusra), affiliato ad Al Qaida. In base alle statistiche disponibili, si ritiene che tra i 2000 e i 4000 giovani europei siano partiti per la Siria e numerosi tentativi di partenza verso quel Paese (soprattutto attraverso la Turchia) sono stati evitati dopo la promulgazione di leggi volte a impedirli.
Questi giovani, spesso adolescenti non risolti, ingrandiscono l’armata di riserva della jihad, convertendosi all’islam radicale un po’ da tutte le religioni: cristiani disincantati che sono alla ricerca di sensazioni forti che il cattolicesimo istituzionale non è in grado di far loro provare, ebrei secolarizzati nel loro giudaismo privo di ancoraggio religioso, buddisti provenienti da famiglie francesi da poco convertite al buddismo e che cercano un’identità rinvigorita al servizio della guerra santa in contrasto con la versione pacifista di questa religione in Europa. Diversamente dagli jihadisti delle banlieue, questi giovani dei ceti medi non provano odio verso la società, né hanno interiorizzato l’ostracismo con cui la società ha schiacciato i primi. Non vivono nemmeno il dramma di una vittimizzazione che rende nera la vita.
Il loro problema è quello dell’autorità e delle norme. L’autorità è stata diluita dalla famiglia allargata e il diritto del bambino ha creato un pre-adulto, che al tempo stesso può essere un adolescente che non cresce. La combinazione tra la logica dei diritti, la dispersione dell’autorità tra diverse istanze genitoriali e una società in cui le norme hanno perso il loro vigore (comprese quelle repubblicane) fa sì che vi sia un’attesa di regole. Una minoranza di questi giovani soffre per il fatto di avere diversi vaghi tutori, ma nessuna autorità distinta. Vorrebbe poter ridisegnare i confini tra ciò che è permesso e ciò che è vietato in forma esplicita. Le norme islamiste propongono loro questa visione in bianco e nero, in cui ciò che è vietato si declina con la massima chiarezza. L’islamismo radicale permette a questi giovani di unire il divertimento ludico e la serietà mortale della fede jihadista. Dà loro la sensazione di conformarsi a norme intangibili, ma anche di essere l’agente dell’imposizione di tali norme al mondo, di invertire il ruolo dell’adolescente e dell’adulto. In breve, di essere colui che instaura le norme sacre e le impone agli altri, pena la “guerra santa”.
Questa gioventù innamorata della jihad incarna gli ideali di un anti maggio 1968. I giovani di allora cercavano l’intensificazione dei piaceri nell’infinito del desiderio sessuale riconquistato. Ora si cerca di inquadrare i propri desideri e di imporsi a essi attraverso un islamismo rigorista, a restrizioni che nobilitano ai propri occhi. Allora si cercava di liberarsi delle restrizioni e delle gerarchie impossibili; ora le si reclama con ardore, si esigono norme sacre che sfuggono al libero arbitrio umano e si fanno forti della trascendenza divina. Si aspira a esse e le si sacralizza secondo la guerra santa.
All’epoca si era anarchici e si odiava il potere patriarcale. Attualmente, in una società priva di significato, l’islamismo radicale, attribuendo un posto alla donna e un posto all’uomo, riabilita una visione distorta del patriarcato sacralizzato in riferimento a un Dio inflessibile e intransigente. Fa il contrario di un repubblicanismo rammollito o di un cristianesimo troppo umanizzato. Maggio del 1968 era una festa ininterrotta che si prolungava nel viaggio esotico fino a Kathmandu o in Afghanistan. Attualmente, il viaggio iniziatico è una ricerca di purezza nell’affrontare la morte nel nome del martirio.
Accanto a questi fantasmi di regole sacralizzate si trova anche la ricerca di giustizia per un Paese, la Siria, dove un regime sanguinario ha ucciso 200 mila persone e ha costretto diversi milioni a errare nei Paesi vicini. Laddove l’Occidente mostra la propria impotenza dinanzi alle dittature, questi giovani, armati di una fede ingenua, intendono lottare contro il male nel nome di un jihadismo del quale non rilevano l’aspetto mostruoso e disumanizzante. La transizione può avvenire in maniera progressiva, come è accaduto con alcuni membri della gang di Roubaix che, sull’esempio di Christophe Case, si sono impegnati in ambito umanitario prima di trasformarsi in islamisti radicali.
Nei ceti medi, l’attrattiva del jihadismo deve essere intesa sia attraverso l’attrazione di un mondo irenistico che lo Stato islamico fa balenare davanti agli occhi dei giovani sia attraverso il sentimento di vuoto che li assale in un universo dal quale il sacro è bandito in forma quasi incosciente. La perdita del senso del religioso istituzionalizzato rende l’immaginario pronto a cercare nell’ignoto di nuovi orizzonti sacri. La de-istituzionalizzazione del cristianesimo in Francia, e più in generale in Europa, “inselvatichisce” il religioso e apre la ricerca di significato al settarismo sotto ogni sua forma. Per alcuni si tratta di una forma di emancipazione, ma per altri dall’assenza di riferimenti riguardo il sacro deriva un senso angosciante di abbandono. La ricerca di un islam jihadista unisce diversi registri, che si attengono all’esotismo di una fede che propone un senso solido del sacro, e la cui stessa intransigenza rompe con la diluizione del sacro nella società contemporanea.
Tutto avviene come se una parte dei giovani del ceto medio combinasse la ricerca dell’avventura, il romanticismo rivoluzionario, l’aspirazione a fare l’esperienza dell’alterità (il sacro) e la volontà di mettersi alla prova sottomettendosi spontaneamente a una forma repressiva di gestione del significato. Nelle società europee, dove l’iper-secolarizzazione è sinonimo della negazione di ogni trascendenza, il sacro ritorna in una configurazione oppressiva, tanto per il desiderio di mettersi alla prova nel contatto con l’altro (l’esperienza dell’alterità totale), quanto per abbracciare la felicità in rottura con il grigiore di una società, nella quale una parte della gioventù soffre del “male del livellamento”. 
Dall’inizio della guerra civile in Siria si assiste, in Europa e in particolare in Francia, alla comparsa di un nuovo tipo di jihadismo femminile. Molte di queste combattenti sono adolescenti o post-adolescenti, accanto ad altre giovani donne di una ventina o una trentina d’anni. Appartengono in maggioranza ai ceti medi. Infine sono prevalentemente convertite: dal cristianesimo, dal giudaismo (alcuni casi), ovvero dal buddismo, oppure provengono da famiglie agnostiche o atee.
Contrariamente ai nuovi jihadisti provenienti dal ceto medio, esse non hanno come motivazione principale l’odio sociale. Sono diversi i motivi che le spingono a partire. Anzitutto una ragione umanitaria: i fratelli nella religione (i sunniti) avranno bisogno d’aiuto dinanzi a un potere eretico. C’è anche l’immagine idealizzata dell’uomo da parte di una gioventù femminile disincantata riguardo al femminismo delle loro madri e delle loro nonne. C’è una sorta di idealizzazione della virilità maschile di colui che si esporrà alla morte e che, in questo confronto, si mostrerà virile, serio e sincero. Questi tre aggettivi danno un senso al marito ideale. Sarebbe, per cominciare, capace di restituire l’immagine della mascolinità, fortemente appiattita a causa proprio dell’evoluzione della società; in secondo luogo sarebbe serio, poiché combattendo contro il nemico mostrerebbe il suo impegno definitivo, a differenza di quei giovani che mostrano tratti di immaturità e di volatilità agli occhi di giovani donne che sembrano aver detronizzato l’immagine del padre. Infine, la sincerità sarebbe il terzo tratto fondamentale di questi giovani: poiché accettando di arrivare fino alla morte per il loro ideale, sarebbero sinceri con la loro donna, venendo il loro grado di affidabilità misurato con la loro capacità di mostrare la loro autenticità sul campo di battaglia.
Questo tipo di giovane, che incarna le virtù cardinali della veracità, sarebbe il tipo d’uomo ideale da sposare per sfuggire al disagio dell’instabilità e della crescente fragilità che caratterizza le coppie moderne. Spesso provenienti da famiglie allargate in Francia, avendo vissuto l’esperienza della precarietà dei legami coniugali dei loro genitori e constatato il livellamento della condizione maschile nel divorzio, esse finiscono col rifiutare l’immagine sia dell’uomo sia della donna, prevalente nella società moderna. Si mettono alla ricerca di un’utopia antropologica, in cui il sentimento di fiducia e la sincerità assoluta di coniughino con una “buona ineguaglianza”.
Lo jihadismo manifesta un intreccio di problemi sociali e di questioni antropologiche. Mostra la dimensione sempre più globalizzata dell’immaginario e della soggettività, specialmente nelle nuove generazioni. La ricerca di una nuova utopia e il senso di profonda ingiustizia si uniscono nella ricerca della felicità individuale e dell’avventura. In questa situazione, ciò che accomuna le tre categorie di giovani (i giovani delle banlieue, quelli delle classi medie e le giovani donne) è, per quanto possa sembrare paradossale, la morte, che diventa la categoria direttrice della loro psiche tormentata. In questa prospettiva, la morte è l’unico punto in cui si annoda e si snoda un destino fondato sul rifiuto subito dagli altri, che si traduce nel rifiuto degli altri, coniugando questa doppia dialettica in una volontà di morire che rovescia il vettore della vita, collegando il desiderio di morire con quello di far morire l’altro, l’avversario, il mondo che circonda il giovane ribelle che vive ormai per abbracciare la sorte dell’eroe negativo.
L'Osservatore Romano

Francesco: ebrei e cristiani sono "amici e fratelli"



Il  tweet di Papa Francesco: "Com’è bello annunciare a tutti l’amore di Dio che ci salva e dà senso alla nostra vita!" (30 giugno 2015)

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Per tutto il mese di luglio sono sospese le udienze generali del mercoledì. Riprenderanno in agosto nell’Aula Paolo VI, in Vaticano. Con l’eccezione della già prevista udienza del 3 luglio pomeriggio al Movimento del Rinnovamento nello Spirito in Piazza San Pietro, sono sospese anche tutte le altre udienze. L’unico appuntamento pubblico del Papa rimane l’Angelus della Domenica.
Le Messe mattutine del Papa con gruppi di fedeli a Santa Marta sono sospese nei mesi di Luglio e di Agosto. Riprenderanno all’inizio di settembre.
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Udienza ai partecipanti al Convegno internazionale promosso dall’“International Council of Christians and Jews”. Papa Francesco:  “Non siamo più estranei, ma amici e fratelli. Confessiamo, pur con prospettive diverse, lo stesso Dio, Creatore dell’universo e Signore della storia. Ed Egli, nella sua infinita bontà e sapienza, benedice sempre il nostro impegno di dialogo
Sala stampa della Santa Sede
[Text: Italiano, English]
Alle ore 12 di oggi, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i Partecipanti al Convegno internazionale promosso dall’International Council of Christians and Jews, in corso a Roma dal 28 giugno al 1° luglio sul tema: “The 50th Anniversary of Nostra Aetate: The Past, Present, and Future of the Christian-Jewish Relationship”. Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti durante l’incontro:
Discorso del Santo Padre 
Cari fratelli, 
mi rallegro che quest’anno abbiate organizzato il vostro convegno a Roma, la città in cui sono sepolti gli apostoli Pietro e Paolo. Entrambi sono, per tutti i cristiani, punti di riferimento essenziali: sono come “colonne” della Chiesa. E qui a Roma si trova la comunità ebraica più antica dell’Europa occidentale, le cui origini risalgono all’epoca dei Maccabei. Cristiani ed ebrei vivono dunque a Roma, insieme, da quasi duemila anni, sebbene le loro relazioni nel corso della storia non siano state prive di tensioni. 
Un vero dialogo fraterno ha potuto svilupparsi a partire dal Concilio Vaticano II, dopo la promulgazione della Dichiarazione Nostra aetate. Questo documento rappresenta infatti il “sì” definitivo alle radici ebraiche del cristianesimo ed il “no” irrevocabile all’antisemitismo. Nel celebrare il cinquantesimo anniversario di Nostra aetate, possiamo guardare ai ricchi frutti che ha prodotto e fare con gratitudine un bilancio del dialogo ebraico-cattolico. Possiamo esprimere così il nostro grazie a Dio per tutto ciò che di buono è stato realizzato in termini di amicizia e di comprensione reciproca in questi cinquant’anni, perché il Suo Santo Spirito ha accompagnato i nostri sforzi di dialogo. La nostra umana frammentarietà, la nostra diffidenza e il nostro orgoglio sono stati superati grazie allo Spirito di Dio onnipotente, così che tra noi sono andate crescendo sempre più la fiducia e la fratellanza. Non siamo più estranei, ma amici e fratelli. Confessiamo, pur con prospettive diverse, lo stesso Dio, Creatore dell’universo e Signore della storia. Ed Egli, nella sua infinita bontà e sapienza, benedice sempre il nostro impegno di dialogo. 
I cristiani, tutti i cristiani, hanno radici ebraiche. Per questo, fin dalla sua nascita, l’International Council of Christians and Jews ha accolto le varie confessioni cristiane. Ciascuna di esse, nel modo che le è proprio, si accosta all’ebraismo, il quale, a sua volta, è caratterizzato da diverse correnti e sensibilità. Le confessioni cristiane trovano la loro unità in Cristo; l’ebraismo trova la sua unità nella Torah. I cristiani credono che Gesù Cristo è la Parola di Dio fattasi carne nel mondo; per gli ebrei la Parola di Dio è presente soprattutto nella Torah. Entrambe le tradizioni di fede hanno per fondamento il Dio Unico, il Dio dell’Alleanza, che si rivela agli uomini attraverso la sua Parola. Nella ricerca di un giusto atteggiamento verso Dio, i cristiani si rivolgono a Cristo quale fonte di vita nuova, gli ebrei all’insegnamento della Torah. Questo tipo di riflessione teologica sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo prende le mosse proprio dalla Nostra aetate (cfr n. 4) e, su tale solido fondamento, può essere ulteriormente sviluppata. 
Nella riflessione sull’ebraismo il Concilio Vaticano II ha tenuto conto delle dieci tesi di Seelisberg, elaborate in quella località svizzera nel 1947. E quelle tesi sono strettamente legate alla fondazione dell’International Council of Christians and Jews. Si può dire che vi era già in nuce una prima idea della collaborazione tra la vostra organizzazione e la Chiesa Cattolica. Tale cooperazione è stata avviata ufficialmente dopo il Concilio, e specialmente dopo l’istituzione della nostra “Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo”, nel 1974. Questa Commissione della Santa Sede segue sempre con grande interesse le attività della vostra organizzazione, in particolare i convegni internazionali annuali, che danno un notevole contributo al dialogo ebraico-cristiano. 
Cari fratelli, vi ringrazio tutti per questa visita ed auguro ogni bene per il vostro convegno. Il Signore vi benedica e vi custodisca nella sua pace. Vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie. 
Inglese 
Dear Brothers and Sisters, 
I am pleased that your meeting is taking place this year in Rome, the city where the Apostles Peter and Paul are buried. For all Christians, both Apostles are an important point of reference: they are like “pillars” of the Church. Here in Rome, we also find the most ancient Jewish community in Western Europe, whose origins can be traced to the time of the Maccabees. Christians and Jews therefore have lived together in Rome for almost two thousand years, even though their relations in the course of history have not been without difficulty. 
The development of an authentic fraternal dialogue has been made possible since the Second Vatican Council, following the promulgation of the Declaration Nostra Aetate. This document represents a definitive “yes” to the Jewish roots of Christianity and an irrevocable “no” to anti-Semitism. In celebrating the fiftieth anniversary of Nostra Aetate, we are able to see the rich fruits which it has brought about and to gratefully appraise Jewish-Catholic dialogue. In this way, we can express our thanks to God for all the good which has been realized in terms of friendship and mutual understanding these past fifty years, as his Holy Spirit has accompanied our efforts in dialogue. Our fragmented humanity, mistrust and pride have been overcome thanks to the Spirit of 
Almighty God, in such a way that trust and fraternity between us have continued to grow. We are strangers no more, but friends, and brothers and sisters. Even with our different perspectives, we confess one God, Creator of the Universe and Lord of history. And he, in his infinite goodness and wisdom, always blesses our commitment to dialogue. 
Christians, all Christians, have Jewish roots. Because of this, since its inception, the International Council of Christians and Jews has welcomed the various Christian confessions. Each of them, in its own way, has drawn near to Judaism, which in its time, has been distinguished by diverse trends and sensibilities. The Christian confessions find their unity in Christ; Judaism finds its unity in the Torah. Christians believe that Jesus Christ is the Word of God made flesh in the world; for Jews the Word of God is present above all in the Torah. Both faith traditions find their foundation in the One God, the God of the Covenant, who reveals himself through his Word. In seeking a right attitude towards God, Christians turn to Christ as the fount of new life, and Jews to the teaching of the Torah. This pattern of theological reflection on the relationship between Judaism and Christianity arises precisely from Nostra Aetate (cf. no. 4), and upon this solid basis can be developed yet further. 
In its reflection on Judaism, the Second Vatican Council took account of the ten theses of Seelisberg, formulated in that Swiss town in 1947. These theses are closely linked to the founding of the International Council of Christians and Jews. We can say that there was already in embryonic form an initial concept of cooperation between your organization and the Catholic Church. This cooperation was officially inaugurated after the Council, and especially after the establishment of our Commission for Religious Relations with the Jews in 1947. This Commission of the Holy See always follows your organization’s activities with great interest, in particular the annual international meetings, which offer a notable contribution to Jewish-Christian dialogue. 
Dear friends, I thank all of you for this visit and I wish you well for your meeting. May the Lord bless you and keep you in his peace. I ask you please to pray for me. Thank you.

Quest’effimero oggi e un’immane promessa




Il Papa e la fede cristiana nella Risurrezione

di Marina Corradi

Il Vangelo dell’Angelus, domenica, era Marco, 5, 23. Giairo, il capo della sinagoga, implora Gesù per la figlia morente. Gesù arriva in una casa dove si grida e si piange la morte di un bambino – di tutte le forme della morte, la più intollerabile. «Perché piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E, a un ordine – talità, kum – la fanciulla si sveglia, e si alza.


Dentro a queste parole è radicata la domanda che il Papa ha poi rivolto alla piazza: «Crediamo noi che Gesù ci può guarire e ci può risvegliare dalla morte?». E si dirà che certo, che è ovvio, che è la sostanza stessa della fede cristiana, una tale certezza. Eppure niente più di quanto teoricamente è "ovvio" subisce la corrosione del tempo, dei mondi che si succedono, delle culture dominanti. Come ha detto Francesco: «Questa fede, che per i primi cristiani era sicura, può appannarsi e farsi incerta».


Perché in realtà la certezza della risurrezione, quand’anche si sia imparata da bambini, può anche restare lì in noi come un oggetto dimenticato in una soffitta, fino a quando non ci tocchi la lacerazione di un lutto. Quella certezza, quand’anche la si sia ereditata, può esser qualcosa di cui non si sente l’assoluto bisogno, fino a quando la morte non ci passi vicino: in qualcuno che ci manca irrimediabilmente, in un volto che non sopportiamo di pensare finito nel nulla. È per molti la morte di un nonno molto caro, di un compagno di scuola, di un fratello ciò che genera una ferita incolmabile, e fa tornare su quel passo di Marco: «Fanciulla, io ti dico, alzati». (E se quel lutto accade quando proprio si è bambini, può essere troppo forte l’urto di una morte che apparentemente resta morte – rigida, impietrita. Forse anzi il germe di molte fedi perdute passa di lì: per lo scandalo, agli occhi di un bambino, di un compagno, di una compagna morta, senza che nessuno le ordini: «Fanciulla, alzati»).


Ma, ha chiesto il Papa, crediamo noi che Cristo ci può risvegliare dalla morte? Perché questa è la domanda nodale. Senza la risurrezione il cristianesimo sarebbe una nobile, generosa dottrina. Ma ogni giustizia, bontà, onestà, si infrangerebbe contro al muro cieco della morte: perché se quel figlio perso non verrà restituito, il più perfetto dei mondi è atrocemente ingiusto, e inutile. Perché, come dice San Paolo, «se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede».


È vero, la fede nella risurrezione, nel tempo, può appannarsi e farsi incerta. E tuttavia proprio lo schiaffo cocente di un dolore può risvegliarne la domanda (come forse anche in Giairo, capo di una sinagoga: si sarebbe abbassato a implorare Cristo, se sua figlia fosse stata sana?). Fra quelli, invece, che vivono in pace, soddisfatti, questa certezza può anche farsi inoperosa e inutile. Prima dell’impatto con la morte si può sorridere, di risurrezione e paradiso. Come si sorride di ciò che non è scientificamente provato e dimostrabile. Come si sorride delle fiabe che si raccontano ai bambini. 


Ma dunque, noi crediamo che in Cristo risorgeremo? ci ha chiesto il Papa. L’eco di quelle parole dalla tv nelle strade silenziose del giorno di festa, nelle aule di scuola vuote, nelle finestre aperte delle periferie accaldate. Dobbiamo vivere nella certezza della risurrezione, ha detto Francesco. E ha aggiunto, con quel suo accento argentino che ci pare un italiano più caldo: «Lì ci incontreremo tutti. Tutti noi che siamo qui in piazza oggi, ci incontreremo nella casa del Padre».


Ci incontreremo tutti, noi di questa piazza di Roma, città splendida e ladra, incantevole e cinica, sontuosa e misera. Ci incontreremo, noi di tutte le piazze, con le nostre stanchezze. E questa nostra strana ansia di felicità. Che meravigliosa, immensa certezza. Ci incontreremo tutti, in carne e ossa, nell’eternità. Chi altri oggi parla con questa audacia? Nel nostro mondo di amori effimeri, di brevi promesse, di smemoratezze, la sfrontata certezza cristiana deposta con fede granitica, una domenica d’estate, nel cuore di una grande millenaria città.
Avvenire

Paternité, maternité, diversité!

Margaret Sanger
I veri razzisti sono proprio loro: i primi fondatori della dottrina gender
di Massimo Introvigne

Su queste colonne, Renzo Puccetti ha spiegato condovizia di argomenti perché sia assurdo paragonare la sentenza della Corte Suprema americana che obbliga gli Stati degli Stati Uniti a introdurre il «matrimonio» omosessuale a precedenti decisioni contro la discriminazione razziale, che dichiararono illegittime le limitazioni ai matrimoni fra americani bianchi e di colore.
Vorrei fare però un passo in più, e respingere l'accusa di razzismo al mittente. Infatti l'informazione è stata totalmente nascosta e censurata, ma è proprio la teoria del gender che nasce e si sviluppa in ambienti razzisti, e ha perfino a che fare con l'organizzazione razzista per eccellenza negli Stati Uniti, il Ku Klux Klan.
In un articolo precedente, dove rispondevo alla «bufala» alla moda secondo cui la teoria del gender non esiste, ne mettevo in luce le due versioni classiche, cui tutti i seguaci successivi della «gender theory» si riferiscono. La prima è quella della filosofa francese Simone de Beauvoir, per cui «donne non si nasce ma si diventa» e ciascuno – ma lei pensava soprattutto alle donne – ha diritto di scegliere il proprio genere, maschile o femminile, indipendentemente dal sesso biologico. Nella seconda versione, teorizzata da Judith Butler, il genere assorbe totalmente il sesso e ciascuno può decidere che cosa vuole essere in una gamma che non prevede più solo due possibilità – uomo o donna – ma tre, cinque, cinquanta o infinite.
Si può però tracciare anche un altro itinerario, che dalla de Beauvoir e dalla Butler non va avanti ma va indietro. La teoria del gender non sarebbe nata senza una serie di precursori che ne hanno formulato, molti anni prima, versioni che possiamo chiamare prototipiche, certo non così sofisticate e radicali come quella della Butler. La principale di queste proto-teoriche del gender è l'americana Margaret Sanger (1879-1966). Paragonate con le teorie successive, le idee della Sanger sembrano persino moderate. Ma senza la Sanger non ci sarebbero le teorie del gender successive.
Le biografie ufficiali della Sanger ci presentano un'eroina femminista che, mossa a compassione dalle donne che muoiono di parto dopo dieci e più figli oppure ricorrono a pericolosi aborti clandestini, dedica la sua vita alla propaganda degli anticoncezionali, accettando anche la prigione e l'esilio. La sua vera storia è un po' diversa.
Non si può capire Margaret Sanger prescindendo dai suoi interessi esoterici. La Sanger   parte dalle idee della Società Teosofica. Nel 1936 è invitata a parlare alla sede mondiale di questa Società ad Adyar, in India. Il suo discorso è pubblicato, in due puntate, sull'organo della Società Teosofica, The Theosophist, e spiega esattamente la relazione fra le sue teorie del femminismo e del gender e la sia interpretazione delle dottrine teosofiche.
Benché sia oggi molto studiata, particolarmente per l'influenza cruciale che ha avuto sull'arte moderna tramite pittori del calibro di Kandinsky e Mondrian, la Società Teosofica dev'essere forse brevemente presentata ai non specialisti. È stata fondata nel 1875 a New York dal colonnello e avvocato americano Henry Steel Olcott e da una delle più importanti figure della storia dell'esoterismo, la nobildonna russa Helena Petrovna Blavatsky. La sua dottrina centrale è che – con l'aiuto dei Maestri, i quali non sono spiriti ma uomini particolarmente evoluti che vivono per centinaia di anni e risiedono in un centro misterioso fra l'India e il Tibet – l'umanità, che – nel suo stato attuale – è il risultato di un processo cosmico di decadenza descritto con chiari riferimenti gnostici, è chiamata a un processo di evoluzione. Questo si compie attraverso il progressivo emergere sulla Terra di sette razze-radici, ciascuna divisa in sette sotto-razze. Secondo la Blavatsky, si era al suo tempo alla vigilia dell'emergere della sesta sotto-razza della quinta razza-radice, spiritualmente superiore alle precedenti e che si sarebbe manifestata negli Stati Uniti.
Chiariamo subito un equivoco, diffuso nella letteratura non specialistica. La teoria delle razze-radici della Blavatsky è aperta a varie interpretazioni, ma la Società Teosofica ha condannato ogni interpretazione di tipo razzista, ritenendo che le diverse «razze» debbano semmai armoniosamente collaborare tra loro. Tuttavia le interpretazioni razziste ci sono state, per quanto la Società Teosofica le abbia denunciate come erronee. In Germania si è sviluppata agli inizi del Novecento una corrente detta «ariosofia» che interpreta la teoria teosofica delle razze sulla base di un primato razzista della razza ariana. Un avido lettore delle pubblicazioni «ariosofiche» in Austria era un ragazzino che si chiamava Adolf Hitler. La stessa Sanger, come si evince dalla lettura dei diari di personalità teosofiche dell'epoca, non fu particolarmente bene accolta ad Adyar, benché la sua conferenza sia stata pubblicata sulla rivista della Società Teosofica. Anche la sua interpretazione della «razza nuova» non corrispondeva infatti a quella della dirigenza teosofica ufficiale.
Resta il fatto che, sulla base di speculazioni esoteriche, la Sanger pensava che stesse per emergere una nuova razza superiore alle precedenti, e che stesse per manifestarsi negli Stati Uniti. Che cosa c'entra tutto questo con il gender? Lo spiega la stessa Sanger. Le sue idee di tipo gnostico l’avevano convinta che la differenza sessuale fra uomo e donna è qualcosa di cattivo, così come il modo in cui le donne mettono al mondo i figli. Sono conseguenze di un processo di degenerazione, e non esistevano nell’età dell’oro originaria, quella dell’androgino, cioè di una persona umana in cui coesistevano i caratteri maschili e femminili, e di forme di generazione diverse dal parto. Liberare la donna con gli anticoncezionali dal suo ruolo di madre è il primo passo per permettere alle donne – e di conseguenza anche agli uomini – di scegliere il proprio genere, chi e che cosa vogliono essere, iniziando il processo di ritorno verso l’androgino originario. Non è ancora la teoria del gender come la conosciamo oggi. Ma è già il suo nucleo fondamentale.
La nuova razza in marcia verso il superamento del genere biologico potrà emergere, continuava la Sanger, solo là dove l’umanità è intellettualmente e culturalmente più avanzata. In America, e tra gli americani bianchi di origine nord-europea: anche dei tanti immigrati italiani la Sanger non aveva una buona opinione. «I negri e gli europei del Sud – scriveva – sono intellettualmente inferiori agli Americani nativi»: un’espressione che il movimento «nativista» utilizzava per escludere dal numero dei «veri americani» gli immigrati venuti dall’Italia. In una citazione famosa la Sanger paragonava gli afro-americani a una «erbaccia da estirpare», attraverso una severa politica eugenetica che avrebbe dovuto comprendere la sterilizzazione forzata. Quanto agli aborigeni australiani, li considerava «appena un gradino sopra agli scimpanzé». Certo, i sostenitori della teoria delle razze e dell’eugenetica erano molti. Ma solo la Sanger collegava l’eugenetica al gender: estirpata l’erbaccia, sarebbe potuta finalmente emergere la «razza nuova» in marcia verso l’androginia e capace di superare la schiavitù biologica della differenziazione sessuale.
Male accolta nella Società Teosofica, la Sanger trovò terreno fertile per le sue idee nel Ku Klux Klan, l’organizzazione americana nata per perpetuare la discriminazione razziale contro gli afro-americani e nello stesso tempo – lo si dimentica spesso – per propagandare un feroce anti-cattolicesimo sulla base del mito dell’America «bianca, anglosassone e protestante». Molti film ci hanno presentato il Ku Klux Klan come un’organizzazione maschile. Gli storici – a partire dall’opera fondamentale di Kathleen Blee Women of the Klan – hanno fatto notare che nel Ku Klux Klan «storico», quello dell’epoca fra le due guerre mondiali, le donne avevano in realtà un ruolo essenziale.

Ku Klux Klan

Margaret Sanger collaborò con il Ku Klux Klan, perfezionò le sue idee su razza e gender in dialogo con le donne del Klan e parlò spesso a pubblici entusiasti di attiviste dell’organizzazione razzista incappucciate e plaudenti. Alcune fotografie reperibili in Internet che rappresentano la Sanger che parla al Klan sono dei falsi confezionati con Photoshop. Le riunioni del Klan erano segrete e le fotografie rare. Ma per avere conferma dei legami fra la Sanger e il Klan, conferenze a donne incappucciate comprese, non occorre rivolgersi ai critici suoi e della teoria del gender. Lo racconta lei stessa nella sua autobiografia, minimizzando e giustificando, certo, ma ammettendo la relazione e parlando di «dozzine» di inviti da parte del Ku Klux Klan.
Qualcuno potrebbe obiettare citando atteggiamenti molto ostili agli omosessuali da parte del Ku Klux Klan. Altri replicherebbero citando i nomi di un certo numero di dirigenti del Klan e di organizzazioni collegate che erano omosessuali o bisessuali. Ma questo dibattito non porterebbe lontano. Il tema di questo articolo, infatti, è un altro. Ho voluto mostrare come la formulazione archetipica della teoria del gender, quella di Margaret Sanger, nasce da un’interpretazione – deviata e non condivisa dalla stragrande maggioranza dei teosofi – di idee sulle razze della Società Teosofica, e nasce in dialogo con il razzismo americano rappresentato dal Ku Klux Klan. L’idea centrale è che quella dove si può scegliere se essere donna o uomo è una nuova umanità, una «razza nuova» che potrà nascere solo tra le élite illuminate «bianche, anglosassoni e protestanti» e non fra i non bianchi, gli «europei del Sud» e i cattolici, «intellettualmente inferiori» e destinati a essere estirpati come le erbacce. Queste idee razziste sono sparite tra i sostenitori del gender? A guardare il senso di superiorità con cui attaccano manifestazioni come quella di Piazza San Giovanni come «medioevali» mi permetterei di non esserne tanto sicuro.