mercoledì 24 giugno 2015

Acqua e segno della croce



Per un riconoscimento della realtà battesimale.

(Anne-Marie Pelletier) Annunciando un giubileo straordinario della misericordia Papa Francesco invita la Chiesa a fare ritorno al centro. Al centro di ciò che è e di ciò in cui crede, al centro del Vangelo che ha la missione di condividere con tutti. Se è così, è perché la misericordia è l’essere stesso di Dio. È Dio stesso, la cui rivelazione culmina e si apre sull’inaudito del mistero dell’Incarnazione e della Redenzione: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Giovanni, 3, 16). E questo dono scaturito dalla sua misericordia è, di fatto, una liberazione dal giogo del peccato e della morte, e il riferimento al giubileo della tradizione d’Israele dovrebbe permetterci di coglierlo nella nostra meditazione dei prossimi mesi: «Ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto» recita un inno in Colossesi, 1, 13.
Queste parole, forse riprese da una liturgia battesimale, ricordano che è proprio con il battesimo che questa opera di grazia e di liberazione si comunica e raggiunge l’umanità. Attraverso il rito così modesto dell’acqua e del segno della croce, un battezzato prende parte all’immensità di questa realtà: quella di una vita che, in Cristo e nella potenza dello Spirito, da quel momento si vive secondo l’economia della misericordia, essendo dedicata all’altro, a tutti gli altri, a cominciare dal più povero, senza lasciarsi vincere da nessuna forma del male. 
In questo stesso rito si manifesta molto chiaramente ciò che la misericordia divina implica come fecondità creatrice, poiché nel battesimo ricevuto individualmente in realtà a essere generato è un popolo, come esprime bene l’iscrizione del battistero del Laterano:Gens sacranda polis hic semine nascitur almo quam fecundatis Spiritus edit aquis. La Chiesa è, propriamente parlando, il frutto della misericordia, che sceglie uomini e donne per trasformarli in suoi testimoni a vantaggio di tutti, secondo la logica dell’elezione che vuole che si venga eletti non per il proprio beneficio personale ma per la salvezza di tutti. 
L’anno santo che si apre dinanzi a noi si presenta come un verokairos per approfondire, o meglio, per ritrovare e provare di nuovo, tali verità. Di fatto questa concezione propriamente mistica, dunque eminentemente realista, del battesimo, fa parte della più alta tradizione della Chiesa, anche se viene spesso edulcorata da ecclesiologie che accentuano la nota gerarchica e piramidale dell’istituzione ecclesiale. Ebbene, non è facoltativo ritrovare questa concezione, e oggi meno che mai, se vogliamo trovare le vie di una comunione ecclesiale autentica, fraterna, semplicemente evangelica. Se vogliamo, in particolare, affrontare in modo sereno e positivo l’esercizio dell’autorità, la condivisione di responsabilità, i rapporti tra sacerdoti e laici o ancora la situazione delle donne nella Chiesa. Potrebbe darsi che la via migliore sia qui di ripassare per un riconoscimento ampio e generoso della realtà battesimale, che ci riconduca alla fonte, alla Chiesa nata dall’acqua e dal sangue sgorgati dal fianco del Crocifisso. 
La Chiesa dei primi secoli seppe meditare con meraviglia il mistero della sua nascita. È importante che lo fece prima di tutto, e soprattutto, in catechesi battesimali, dunque per l’edificazione dei suoi catecumeni. Così, per esempio, questi imparavano che, attraverso il battesimo, s’inserivano nel dialogo di amore del Cantico dei cantici, entravano a far parte della Chiesa, popolo santificato («Bruna sono ma bella», 1, 5, fu commentato molte volte in tal senso in epoca patristica), popolo introdotto nell’intimità dell’amore trinitario. Vertiginosa realtà in grado di suscitare l’ammirazione degli angeli nelle catechesi di un sant’Ambrogio o di un san Giovanni Crisostomo. Insegnando queste cose il predicatore, naturalmente, si riconosceva lui stesso coinvolto in questo mistero di grazia. E la Chiesa, popolo santo perché ha ricevuto la grazia, nato dalla grazia, poteva riconoscersi come comunità di eguali, perché generata come comunità di figli nel Figlio, di fratelli nella persona di colui che, dice la Lettera agli Ebrei, «non si vergogna di chiamarli fratelli» (2, 11). 
Una simile ecclesiologia si accorda bene con il progetto divino che si esplicita in tutto l’Antico Testamento: quello di far levare un intero popolo consacrato (cfr. Deuteronomio, 7, 6; 14, 2; 26, 19), un intero «regno di sacerdoti» (Esodo, 19, 6), che accolga e viva la santità dell’Altissimo come santità propria (cfr. Levitico, 11, 45). Essa si sviluppa quindi al di qua dalle diverse categorie di cristiani che compongono il corpo ecclesiale, e la cui considerazione avrebbe prevalso nel corso dei secoli seguenti, e per lungo tempo. 
È proprio a questa ecclesiologia della grande tradizione antica che si è ricollegato il concilio Vaticano II, dopo una lunga parentesi. È nota, in tal senso, l’audacia della costituzione Lumen gentium che designa la Chiesa come «corpo mistico di Cristo», come «mistero» che si può pensare solo a partire da Cristo, il quale compie la volontà del Padre che vuole che «tutti gli uomini siano salvati» (1 Timoteo, 2, 4). Ritornano allora le definizioni scritturali di «popolo messianico», «stirpe eletta, sacerdozio regale» (1 Pietro, 2, 9), al cui servizio sono istituiti i membri della gerarchia. È nota l’insistenza di questa costituzione conciliare sull’onorare il sacerdozio battesimale e, a partire da esso, sul ricordare l’unità fondamentale che lega tutti i membri del Corpo, sul proclamare l’appello universale alla santità e, ancora, sull’esigenza della missione che riguarda tutti e ognuno. Si è così giunti a una concezione ampia, dilatata dell’identità cristiana, effettivamente in sintonia con la generosità della misericordia ricordata sopra, e portatrice di un dinamismo di testimonianza che accetta di dare fiducia e credito all’altro, anche quando i tempi possono non sembrare i migliori.
Stando così le cose, il problema è far sì che ciò che in tal modo si recupera nella teologia contemporanea raggiunga il cuore di tutti e riesca a informare la vita ecclesiale nel concreto delle relazioni e dei giorni. Ebbene, non si può negare che le strettezze e le rigidità di una ecclesiologia fondata in modo troppo esclusivo sul funzionamento dell’istituzione continuino a ossessionare le menti e a regolare le pratiche, rendendo impossibile proprio qualsiasi progresso istituzionale. 
È inutile nasconderlo, molti discorsi sulla condizione e sulla vocazione dei laici mantengono questi ultimi in una posizione secondaria e subalterna, che tende ad attenuare la grandezza superlativa del sacerdozio regale. Si osserva così la tendenza a menzionare il battesimo e il “sacerdozio comune” — che, grazie a Dio, sappiamo di nuovo associargli — essenzialmente in riferimento alla vita laica. 
Così facendo, la condizione battesimale rischia di scivolare furtivamente nella banalità e, in ogni caso, in un’accettazione debole. Essa tende ad apparire come un primo gradino della vita cristiana, che i più ferventi o i più esigenti supererebbero con la pratica dei consigli evangelici o, per gli uomini, accogliendo la chiamata al sacerdozio ministeriale. Certo, noi facciamo fatica a concepire una gerarchia che non annulli l’uguaglianza, a vivere differenze che non siano immediatamente reinterpretate su una scala di perfezione, in cui gli uni supererebbero o sovrasterebbero gli altri, destinati a una versione ridotta, di fatto svalutata, della santità. 
In questo campo, dovremmo probabilmente praticare di più il riserbo che si impara da Cristo, il quale chiaramente non giudica la santità così come la giudichiamo noi. Allo stesso modo dovremmo ammettere che ogni vocazione è, in assoluto, eccellente in quanto risposta alla chiamata che si riceve da Dio. 
In questa preoccupazione per la verità di un’ecclesiologia autenticamente evangelica si vede dunque la necessità di riscoprire il battesimo come realtà insuperabile, pienezza del dono di Dio, dignità assoluta, che non ha bisogno di altre definizioni per essere riconosciuta come sovreminente. È a partire da lì, e solo da lì, che appare possibile pensare in modo armonioso le relazioni e la missione degli uni e degli altri, in seno alla Chiesa. Pertanto, se è vero che la condizione e la vocazione battesimali sono un bene insuperabile che tutti hanno in comune, dal più grande al più umile, ne consegue che non è giusto esaltare il sacerdozio ministeriale, come troppo spesso è accaduto nei secoli passati, facendone una via di santità personale superiore e incomparabile. 
A rigor di termini, è auspicabile avere santi sacerdoti a condizione che questi ultimi abbiano il compito di far vivere un popolo santo, che è realmente la gloria di Dio. Senza che la sua grandezza ne venga condizionata, anzi al contrario, il sacerdozio presbiterale appare prima di tutto come servizio al sacerdozio battesimale che lo ingloba, essendone la fonte, in virtù della comunicazione sacramentale che gli fa della vita di Cristo, ed essendo anche semplicemente il ricordo vitale del decentramento fondatore in Cristo, che è la condizione di verità della Chiesa, al di là delle tentazioni di auto-fondazione sempre incombenti nei suoi membri. In altre parole, si tratta d’inscrivere il ministero sacerdotale nell’economia del “per l’altro” che è la caratteristica fondamentale della sequela Christi, qualunque sia il modo particolare di viverla nel tempo presente.
Aggiungiamo che una modalità particolare di questo “per l’altro” può essere riconosciuta nella vita consacrata, includendo la sua radicalità monastica. Essendo interamente volta a Dio, dedita a vivere il dono battesimale, essa è il segno dell’unico necessario, del bene senza eguale, tanto grande da riempire un’esistenza. È annuncio e primizia della vita eterna alla quale tutti sono chiamati. D’altro canto, e simultaneamente, una vita cristiana vissuta in seno al mondo, come si dice, può essere a sua volta segno per gli altri cristiani della carità concretamente vissuta, testimoniando, secondo le proprie vie, l’amore di Dio e l’amore per l’altro. Ci si ricorderà così di quegli apoftegmi in cui i Padri del deserto raccontano, da rudi asceti quali erano, come hanno potuto edificare e insegnare attraverso vie di fedeltà nascoste nel modesto quotidiano del mondo. Così, di fatto, nella Chiesa, «nessuno (...) vive per se stesso e nessuno muore per se stesso» (Romani, 14, 7). Tutti sono stati immersi nella morte e nella risurrezione di Cristo, e ognuno è costituito, nel proprio posto, con la propria vocazione, secondo i propri carismi, in un “per l’altro” in cui si compie la sua configurazione a Cristo. 
Entrare in questa visione permette di rinnovare a fondo i nostri rapporti ecclesiali, trasformando differenze troppo spesso vissute in modo altero ed escludente in un riconoscimento reciproco, meravigliato di sperimentare i modi tanto molteplici di fedeltà alla vocazione cristiana. È un’utopia, o piuttosto semplicemente il realismo del Vangelo, tendere a una Chiesa-comunione in cui ognuno possa rendere grazie per la vocazione dell’altro? Dovrebbe essere certamente una fonte della «gioia del Vangelo» alla quale invita Papa Francesco e una spinta potente per vivere la relazione della Chiesa con il mondo, testimoniando umilmente e sacramentalmente la potenza di riconciliazione costituita dal Vangelo.
L'Osservatore Romano