giovedì 23 luglio 2015

Esperienze di pre morte e catechismo della Chiesa cattolica



di Francesco Agnoli
… Ripetiamo le costanti delle Nde: l’esperienza è definita come ineffabile, fuori del corpo, segnata dalla luce, dalla conoscenza intuitiva e immediata e dall’amore (da un amore infinito e pervasivo). E cambia spesso la vita di chi la ha sperimentata, che si impronterà maggiormente all’amore e al servizio al prossimo.
E’ interessante a questo punto confrontare il contenuto delle Nde con il Catechismo ufficiale della Chiesa cattolica e il pensiero di una mistica come santa Teresa del Bambin Gesù.
1) Nelle Nde vi è una separazione tra anima e corpo, tra mente e corpo.
Vediamo la definizione di anima immortale del catechismo: “L’unità dell’anima e del corpo è così profonda che si deve considerare l’anima come la « forma » del corpo; ciò significa che grazie all’anima spirituale il corpo, composto
di materia, è un corpo umano e vivente; lo spirito e la materia, nell’uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro unione forma un’unica natura. La Chiesa insegna che ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio – non è « prodotta » dai genitori – ed è immortale: essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte, e di nuovo si unirà al corpo al momento della risurrezione finale” .
Vediamo invece S. Teresa: “Per chi serve Dio mi pare che morire debba essere facilissimo perché in un attimo si esce da questo corpo e si sale al riposo: uscire l’anima dal corpo ed entrare al possesso d’ogni bene non mi pare dissimile da quei voli di spirito o rapimenti (estatici) nei quali Dio ci svela tante ed estasiate meraviglie” .
2) Nelle Nde il morente affronta una specie di giudizio personale.
Nelle esperienze di pre morte compare di solito un esame retrospettivo della propria vita. Scrive Moody: “l’essere di luce dirige quasi immediatamente un pensiero al morente alla cui presenza è apparso. Le persone con le quali ho parlato cercano di tradurre il pensiero in una domanda. ‘Sei preparato alla morte?’, ‘Sei pronto a morire?’, ‘Che cosa hai fatto nella tua vita che tu possa mostrarmi?’…”. A ciò segue un esame del morente su tutta la propria vita: il ricordo dei fatti e delle azioni della propria vita è “istantaneo”, “con un unico sguardo mentale”, eppure “vivido e reale”. E al morente è chiaro di essere giudicato, o di essere aiutato a giudicarsi su quanto ha fatto, in bene o in male, su quanto ha saputo, o meno, amare. Ancora Moody: “Spesso appare ovvio che l’essere può vedere l’intera vita dell’individuo morente e non ha bisogno di alcuna informazione. Vuole soltanto provocare in lui una riflessione” (preliminare ad una vita diversa, dopo il ritorno?).
Ed ora la descrizione del catechismo di quello che la tradizione cristiana chiama da sempre il “giudizio particolare” post mortem: “La morte pone fine alla vita dell’uomo come tempo aperto all’accoglienza o al rifiuto della grazia divina apparsa in Cristo. Il Nuovo Testamento parla del giudizio principalmente nella prospettiva dell’incontro finale con Cristo alla sua seconda venuta, ma afferma anche, a più riprese, l’immediata retribuzione che, dopo la morte, sarà data a ciascuno in rapporto alle sue opere e alla sua fede. La parabola del povero Lazzaro e la parola detta da Cristo in croce al buon ladrone così come altri testi del Nuovo Testamento parlano di una sorte ultima dell’anima che può essere diversa per le une e per le altre…« Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore»… “.
Un giudizio analogo, non relativo al giudizio particolare finale, ma ad un giudizio personale esercitato su se stessi, come preludio a quello divino, è così descritto da S. Teresa: “Pretendere di entrare in cielo senza prima entrare in noi stessi per meglio conoscerci e senza prima considerare la nostra miseria, per vedere il molto che dobbiamo a Dio e il bisogno che abbiamo della sua misericordia, è una vera follia”; quanto al giudizio finale: “Al tribunale di Dio si vedranno le cose come sono, anche quelle che qui non possiamo giudicare senza offendere il Signore
3) Nelle esperienze di pre morte esiste quasi un assaggio di quella che la teologia cattolica chiama la visione beatifica. Si tratta di un bagno di luce, pace, amore, in cui l’individuo non scompare, ma vive in misura somma una pienezza personale. E conosce ed ama in modo immediato e intuitivo, in modo sovrabbondante, ma senza che ciò generi mai un esaurirsi della conoscenza stessa.
La visione beatifica cristiana è così sintetizzata nel Catechismo: “Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati, vivono per sempre con Cristo. Sono per sempre simili a Dio, perché lo vedono « così come egli è » (1 Gv 3,2), « a faccia a faccia » (1 Cor 13,12)… Questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità, con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati è chiamata « il cielo ». Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva (punti 1023-1024)…Questo mistero di comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di descrizione. La Scrittura ce ne parla con immagini: vita, luce, pace, banchetto di nozze, vino del Regno, casa del Padre, Gerusalemme celeste, paradiso: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano » (1 Cor 2,9). A motivo della sua trascendenza, Dio non può essere visto quale è se non quando egli stesso apre il suo mistero alla contemplazione immediata dell’uomo e gliene dona la capacità. Questa contemplazione di Dio nella sua gloria celeste è chiamata dalla Chiesa « la visione beatifica »”(punti 1027-1028).
4) Tra le esperienze di pre-morte non mancano i racconti di visioni infernali. Statisticamente sono meno numerosi delle visioni positive. Non è chiaro quale sia il motivo. Forse perché i “ritornati” temono spesso di essere giudicati “pazzi”, e per questo di solito tendono a non raccontare ciò che hanno visto? Chi ha visto “l’inferno” avrebbe certo ottimi motivi per tacere. Perché ha visto e vissuto non la luce, l’amore, la pace, ma l’oscurità, la paura, il terrore, l’incontro con creature sofferenti, e un senso profondo di disperazione e di solitudine totale. Ha scritto una “ritornata dall’inferno”: “Mi sentii irrimediabilmente sola. Una disperazione ed un dolore atroce si impadronirono di me. Di tutto quello che avevo amato non restò ben presto più nulla…Dunque tutto era vano. Non si poteva contare su niente. Dunque tutto era assurdo…
Il Catechismo definisce l’inferno anzitutto come un luogo di separazione, di privazione, di solitudine, di distacco da Dio (pena del danno) e da tutti; come un luogo di non comunione e non amore: “Non possiamo essere uniti a Dio se non scegliamo liberamente di amarlo. Ma non possiamo amare Dio se pecchiamo gravemente contro di lui, contro il nostro prossimo o contro noi stessi: «Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna » (1 Gv 3,14-15). Nostro Signore ci avverte che saremo separati da lui se non soccorriamo nei loro gravi bisogni i poveri e i piccoli che sono suoi fratelli. Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola « inferno »” (punto 1033) .
da: Francesco Agnoli, Sorella morte corporale