mercoledì 26 agosto 2015

La povertà secondo Luciani. Un inedito del 1970



di Stefania Falasca

Sabato 26 agosto 1978, dopo sole ventisei ore di conclave, il cardinale protodiacono Pericle Felice annunciava l’elezione di Albino Luciani come successore di Paolo VI. Sbaragliando le tabelle dei valori stabiliti dai canali dell’informazione giornalistica e non, i cardinali avevano scelto quasi all’unanimità un padre e un pastore di note virtù che viveva nel gregge e per il gregge, esperto di umanità e delle ferite del mondo, delle esigenze dell’immensa moltitudine dei derelitti, un sacerdote di vasta e profonda sapienza che sapeva coniugare in felice e geniale sintesinova et vetera.
Avevano scelto un apostolo del Concilio, che aveva fatto del Concilio il suo noviziato episcopale, di cui spiegò con cristallina lucidità gli insegnamenti e ne tradusse rettamente e con coraggio in pratica le direttive. Anzi le incarnava. In primis la povertà che per Luciani costituiva la fibra del suo essere sacerdotale. 

È stato osservato che non si può ignorare l’humus sociale di quella storia di povertà rurale e operaia del Veneto dal quale proveniva. Tuttavia non è la povertà del populismo, non è la vicenda romantica e paternalistica del modesto prete di montagna, ma quella storica ed esistenziale che si assimila anche con l’educazione e che per Luciani, sacerdote di solida formazione teologica, affondava le radici nel mai dimenticato fondamento di una Chiesa antichissima, senza trionfi mondani, vicina agli insegnamenti dei Padri, sul modello di Cristo e della predilezione per i poveri, e senza la quale poco si capirebbe dello spirito di governo di Giovanni Paolo I. 

Luciani aveva sposato la povertà, ne aveva fatto la dote più importante, e da essa aveva tratto alimento anche la sua cura d’anime. Ed è proprio l’abito non usato come slogan, non ostentato e non occasionale della povertà che ha dato alla sua stessa parola il senso della concretezza e che ha conferito alla sua persona di vescovo credibilità e le qualità di indulgenza e severità, di comprensione umana e del saper attendere, unite alla fermezza nella custodia del depositum fidei. 

L'adesione di Luciani sia sul piano teologico che pastorale alle linee del magistero montiniano in materia sociale, espresse in particolare nella 
Populorum progressio, è totale e diviene per Giovanni Paolo I l’orientamento della Chiesa nello sguardo sul mondo. A questo richiama da Pontefice anche nell’ultima udienza generale riprendendo l’affermazione che «la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto» e «che i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza». Del motivo della Chiesa povera al servizio degli ultimi è intessuto il suo magistero. Nel 1966 scrivendo Il sacerdote diocesano alla luce del Vaticano II, 
affermava: «Qualcuno aveva detto: 'Se il Concilio di Trento di Trento è stato il Concilio della castità del clero, il Vaticano II sarà il Concilio della povertà del clero'. È forse un’esagerazione, ma è vero che su questo punto siamo sorvegliati: qui la gente ci aspetta oggi». 

Ed è proprio sul tema della povertà ecclesiale che s’incentrano anche le note autografe che qui riportiamo, titolate da Luciani «Chiesa povera». Sono pagine che appartengono alla documentazione inedita rinvenuta grazie alla ricerca sostenuta e allo studio intrapreso dalla Causa di canonizzazione di Giovanni Paolo I, la cui Positio – che raccoglie tutte le prove documentali e testamentali inerenti alla figura del Servo di Dio, tra le quali la testimonianza del papa emerito Benedetto XVI (un unicum nella storia della Chiesa per quanto concerne i processi di canonizzazione) – è ormai completata si avvia alla fase di giudizio conclusiva presso la Congregazione delle cause dei Santi. 
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Due pagine di un'agenda personale scritte a Venezia nell'estate 1970 con riflessioni dell'allora Patriarca di Venezia Albino Luciani sul tema "Chiesa povera"

Il documento, risalente all’estate del 1970, primo anno del suo patriarcato a Venezia, è una riflessione per un intervento verosimilmente destinato a sacerdoti o religiosi, vergato su una delle numerose agende che egli usava come quaderni per annotare schemi di omelie, pronunciamenti, conferenze. E nel quale, riprendendo ancora una volta citazioni di Paolo VI e il decreto conciliare 
Presbyterorum ordinis, scrive: «Paolo VI: gli uomini – specie quelli che guardano la Chiesa dal di fuori – non la vogliono 'potenza economica, rivestita di apparenze agiate, dedita a speculazioni finanziarie, insensibile ai bisogni delle persone, delle categorie, delle nazioni dell’indigenza'. Ha aggiunto: per attuare tale istanza il Papa sta lavorando 'con graduali, ma non timide riforme'... 'con il rispetto dovuto a legittime situazioni di fatto, ma con la fiducia d’essere compresi e aiutati dal popolo fedele'. 

Criterio: la necessità dei 'mezzi' economici e materiali, con le conseguenze che essa comporta: di cercarli, di richiederli, di amministrarli, non soverchi mai il concetto dei 'fini' a cui essi devono servire». E ancora, richiamando il decreto conciliare sul ministero e la vita dei sacerdoti, al punto 17, risponde in merito ai fini: «Quali fini? 
Po 17: 'organizzazione del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, l’esercizio di opere di apostolato e di carità, specialmente a favore dei poveri'». Non manca qui anche un accenno alle «'finanze del Vaticano'. Non sono quelle che ci si immagina. Cfr. Or. Se – però – fosse possibile che l’amministrazione delle medesime diventasse 'una casa di vetro' ne verrebbe probabilmente un vantaggio. La bandiera della povertà ecclesiale. I. L’ha inalberata Cristo con tutti i veri riformatori (da san Francesco a Charles de Foucauld). II. Ma anche i falsi riformatori: richiamavano la Chiesa, ma senza amore per la Chiesa; richiamavano la Chiesa, con orgoglio, negando parecchie verità di fede spirituali... I 'poveri' del Vangelo sono una categoria in primo luogo religiosa e solo secondariamente sociologica», appunta Luciani. «Senza beni copiosi (o distaccati dai beni copiosi) si rivolgono al Signore: In Te la mia fiducia, non nei beni terreni, che lascio o da cui mi distacco!». E nel 'nota bene' a seguire chiarisce: «'Povertà' comporta una condizione modesta (mai miseria: questa è contraria al Vangelo. Condizione disumana non voluta da Dio) ma non si identifica con essa. Uno può essere di modesta condizione, ma se aspira alla ricchezza avidamente, invidia o odia i ricchi, non è povero evangelicamente». 

Poi scrive: «Essere sociologicamente povero ha valore o no? Non in se stesso, ma in quanto dispone naturalmente alla povertà evangelica-spirituale di cui sopra: chi è povero è più disposto a confidare in Dio, chi è ricco è portato a dimenticare Dio: per questo Cristo è duro con la ricchezza (non è che fosse risentito contro i ricchi per motivi populistici, ma per motivo religioso: la ricchezza vi impedisce di aprire il cuore al desiderio del Regno di Dio)». E così conclude riguardo alla povertà ecclesiale: «Dovere della povertà evangelica per tutti i cristiani... Più per i vescovi, preti, religiosi. La ragione: rappresentano – agli occhi del mondo – la Chiesa di più. Ad hoc 'convertirsi' interiormente ed esteriormente, passando dalla retorica della povertà alla povertà reale». 

Non si è chiuso con Giovanni Paolo I un breve capitolo di storia dei Papi. Non si torna indietro né si incomincia da capo. Ciò che la Chiesa sta rivivendo dal suo interno, da Giovanni XXIII, dal Concilio Vaticano II, da Paolo VI, non è una parentesi. Se il governo di Albino Luciani non si è potuto dispiegare nella storia, egli ha concorso decisamente a rafforzare il disegno di questa Chiesa del Concilio che, ricca «di Cristo povero», nella povertà evangelica, si fa prossima alle ferite delle realtà umane, al dolore delle genti e alla loro sete di carità, come indeclinabile testimonianza di ciò che è l’essenza, il fondamento autentico del vivere nella Chiesa e per la Chiesa.
Avvenire