mercoledì 23 settembre 2015

Giovedì della XXV settimana del Tempo Ordinario



Lo stupore per il dono che Dio ci ha fatto in Cristo 
imprime alla nostra esistenza un dinamismo nuovo 
impegnandoci ad essere testimoni del suo amore.
Diveniamo testimoni quando, 
attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, 
un Altro appare e si comunica. 
Si può dire che la testimonianza è il mezzo 
con cui la verità dell'amore di Dio raggiunge l'uomo nella storia, 
invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. 
Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, 
al rischio della libertà dell'uomo.

Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis

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Dal Vangelo secondo Luca 9,7-9.

Intanto il tetrarca Erode sentì parlare di tutti questi avvenimenti e non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: «Giovanni è risuscitato dai morti»,
altri: «E' apparso Elia», e altri ancora: «E' risorto uno degli antichi profeti».
Ma Erode diceva: «Giovanni l'ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire tali cose?». E cercava di vederlo.

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Il destino dell'apostolo: perdere la vita affinché sorga, nel cuore di ogni uomo, la domanda decisiva. Giovanni doveva diminuire, scomparire per preparare la strada all'avvento del Signore. La missione di ogni apostolo è annunciare la Verità, non sostituirsi ad essa. Per questo il suo destino non può che essere lo spossessamento di se stesso perché in lui e attraverso di lui appaia Cristo. Non vi è profezia senza martirio. Diversamente gli occhi degli uomini, di per sé inclini a creare eroi e miti da idolatrare, si fermerebbero irrimediabilmente sull'annunciatore, perdendo di vista l'Annunciato. Ma la storia della Chiesa ci insegna che Erode ha sempre decapitato Giovanni. Il potere, la carne ed il mondo, tentando di far tacere la Verità profetica, non ha mai smesso di uccidere i cristiani. E la persecuzione ha sempre ridestato l'interrogativo capace di sconvolgere la vita ed aprire alla salvezza: "Chi è costui del quale sento dire queste cose?". Proprio quando i suoi discepoli sono perseguitati e martirizzati, la fama del Signore si fa più viva; nei momenti più difficili, quando i cristiani sembrano lasciare la scena di questo mondo, Egli continua ad operare, ed è qualcosa che inquieta il cuore di chi "non sa cosa pensare" di un avvenimento che supera logiche e ragioni solo umane. Nella morte appare la vita, il cuore del cristianesimo, il paradosso che schianta ogni certezza. La testa di Giovanni, morte certa, visibile, incontrovertibile, invece di decretare la fine segna l'inizio di qualcosa di nuovo e sorprendente. Come è stato al principio, quando la Croce, la pietra e le guardie non sono state capaci di dare vittoria alla morte, così il mistero di una vita e di una Grazia che opera prodigi al di là del martirio, rompe l'indifferenza, interpella, desta lo stupore. Come scriveva Don Primo Mazzolari, “la testa del Battista grida molto di più quando è sul vassoio che non quando era sul collo”. La morte di Giovanni ha puntato la luce su Gesù, la sua testa recisa ha indicato l'Agnello sgozzato che ha redento il mondo. Così accade a ciascuno di noi, chiamati a partecipare della missione profetica della Chiesa. Perché Erode si spinga a cercare di vedere Gesù è necessario che sia dissipata ogni incertezza. Non è Giovanni il Messia, come non lo siamo noi. Per "cercare di vedere Gesù" Erode aveva bisogno della testa di Giovanni. E così nostra moglie, i figli, gli amici, i colleghi, tutti hanno bisogno della nostra testa per cominciare a interrogarsi e a credere. C'è molta confusione intorno alla figura di Gesù, oggi come duemila anni fa. E, al massimo, oggi come allora, la sapienza carnale riesce solo a riconoscerlo come uno dei profeti; la stessa parola tagliente, lo stesso discernimento, un identico potere. Ma Dio no eh, Dio in una carne umana non è credibile. Chi di noi, infatti, si è svegliato oggi benedicendo Dio per la propria debolezza, per i difetti e le ferite? Nessuno. Eppure lasciarsi tagliare la testa significa proprio questo: lasciare che Erode, immagine del mondo e di quella sua parte che appare in chi ci è accanto, apra il sipario sulla nostra realtà. Perdere la testa per il Signore significa consegnare a Lui il comando, la visibilità, la gloria che gli spetta. Senza testa un corpo non può vivere, è evidente. 


Ebbene, anche oggi siamo chiamati a lasciarci tagliare la testa, ovvero che gli altri contestino i nostri criteri, le idee, e i progetti; che la moglie smascheri i pensieri stolti che millantiamo come molto sapienti; che i figli svelino errati i nostri calcoli; che la storia demolisca la nostra presunta abilità. Che ci sia tagliata la testa con cui cerchiamo di governare la nostra vita. A lasciare la plancia a Gesù, perché chiunque ci è accanto, al vedere il nostro corpo - cioè le nostre parole, i nostri gesti e i nostri atteggiamenti - possano chiedersi "chi è costui" che prima non poteva perdonare e ora perdona, prima non sapeva essere casto e ora custodisce il suo corpo in santità, prima mentiva per difendersi e ora vive nella verità. E così, al vedere il nostro corpo vivere una vita nuova, possano cominciare a "cercare di vedere Gesù", perché è Impossibile che noi si possa vivere una vita celeste essendo solo povera e debole carne, come tutti. Non è possibile che, nonostante ci abbiano tagliato la testa, la nostra vita continui, e molto meglio di prima: libera, seria, umile e per questo piena di un amore e di una dedizione che non è di questo mondo. Solo la nostra testa tagliata rimanda alla testa di Cristo, alla sua sapienza, al suo sguardo di misericordia, alla sua vita più forte della morte e della debolezza. Per questo agli apostoli, a noi, è dato l'ultimo posto. Per questo le difficoltà, i fallimenti, le debolezze, la morte, l'insignificanza, l'insuccesso nel mondo; i nemici ci nascondono agli occhi del mondo perché questi siano puntati su Cristo, e sorga nel cuore la domanda decisiva che schiuda alla salvezza. La Croce alla quale la storia ci inchioda ogni giorno è il dardo d'amore con il quale Dio desidera scuotere il cuore distratto e perduto del mondo: secondo la tradizione ebraica infatti, "il martire è come il legno profumato del sandalo, profuma anche l'ascia che lo colpisce e lo taglia". E' l'onore più grande, il vanto di San Paolo: nelle nostre debolezze si manifesta la potenza di Dio. Nei peccati brilla la misericordia di Dio capace di creare una vita talmente nuova e senza limiti da poter essere offerta; la consegna di se stesso che si realizza in un uomo  sino ad allora capace solo di difendersi e rubare la vita altrui: "Quando la luce... cresce in colui che viene illuminato, costui diminuisce in se stesso quando viene abolito in lui ciò che era senza Dio. Infatti l’uomo, senza Dio, non può nulla se non peccare, e la sua potenza umana diminuisce quando trionfa la grazia divina, distruttrice del peccato. La debolezza della creatura cede alla potenza del Creatore e la vanità delle nostre passioni egoiste crolla davanti all’amore, mentre Giovanni il Battista dal fondo della nostra miseria, ci grida la misericordia di Gesù Cristo: Egli deve crescere e io invece diminuire" (S. Agostino). Dalla rinascita nella misericordia scaturiscono la forza e la gioia del martirio, il dissolversi dell'uomo vecchio e l'apparire dell'uomo nuovo, la presenza viva del Signore: "Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma è vivo in me Cristo" (Gal. 2,20). Nel nostro morire agli occhi del mondo brilla il volto di Cristo, il mistero deposto in vasi di creta su cui si infrangono le certezze della carne perché trovi posto la fede nell'unica certezza, l'amore infinito ed eterno di Dio, quello che ogni Erode cerca di vedere, anche quando si trova immerso nei propri peccati.