venerdì 23 ottobre 2015

Non più due

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di Luisella Saro    CulturaCattolica.it
Mentre i media riportano, arruffate, le news dal Sinodo e fanno a gara a chi la spara più grossa, io la tivù ho deciso di spegnerla: di lasciar perdere ipotesi e congetture, e guardarmi attorno. Guardare a chi, in merito alla famiglia, più che qualcosa da dire ha qualcosa da dare.
Si chiama testimonianza. Che nel mare delle chiacchiere frou frou di questi tempi e del “famolo strano, tanto tutte le famiglie per noi pari son”, credetemi: è l’unica cosa a fare, davvero, la differenza.Un esempio di testimonianza? Questa. L’ultima fatica diAndrea Torquato Giovanoli“Non più due”. Una lunga lettera che l’autore scrive alla figlia bambina, immaginando quando sarà “in età da marito”, in cui ripercorre la propria esperienza di marito e di padre con il desiderio di illustrare, a volte anche in modo simpaticamente ironico, la bellezza e la responsabilità del matrimonio cristiano. 
Leggo e vorrei essere io quella bambina lì, e vorrei augurare padri così alle mie alunne del liceo. Padri con questo sguardo attento e pre-occupato del destino, della vocazione, della felicità – e cioè la realizzazione piena – delle proprie figlie.
«Tu che di donna sei bocciolo», le scrive teneramente a pagina 46. Dentro questa metafora, lo stupore di un padre che nella più piccola di casa già comincia a scorgere le peculiarità delle femmine. E non si parla dello studio di Tizio o di Caio, o delle ultime ricerche socio-psico-antropo(il)logiche che oggi van tanto di moda. No. La differenza tra maschi e femmine, tra la sua bambina e gli altri maschi di casa emerge, nettissima, dall’osservazione, dalla spicciola quotidianità. Come quel giorno, all’ora della pappa, quando non c’era verso di convincerla a mandar giù neanche un boccone. «In quel preciso istante ho capito, come una sporta di illuminazione, perché tu, bambina mia, eri figlia femmina, a te non bastava (come per i pirlotti dei tuoi fratelli) darti in mano un giochino per condirti via nello sfamarti, tu esigevi di metterti in relazione, e nello specifico pretendevi l’attenzione del tuo uomo… Eri già donna, non c’era nulla da fare».
Da maschio, Giovanoli racconta alla sua bambina come sono fatti i maschi, e le dice cosa gli anni e l’esperienza gli hanno insegnato rispetto al mondo femminile. Ad esempio il fatto che, mentre le donne stanno «nell’iperuranio delle ambizioni», gli uomini hanno «il piombo nei piedi» e per quanto possano sforzarsi di saltare, non raggiungeranno mai l’altezza delle attese femminili. Perché maschi e femmine sono diversi, e gli esempi si trovano quasi a ogni pagina. Così scrive alla sua bambina: «Per quanto sbalorditiva, ti garantisco che questa è la realtà dei fatti, e sempre secondo legge di natura proprio a causa di quella X o di quella Y presenti nei cromosomi di ogni persona, in proporzioni diverse, ma comunque inevitabilmente uomini e donne si ritrovano addosso differenze non solo nella forma, ma anche nella sostanza, poiché non è solo una questione di apparati od ormoni, è che proprio ginogeo ed androgeo pensano, sentono, desiderano, vivono in maniera diversa». Alla faccia delle teoriegender (che teorie, appunto, sono e resteranno, mentre la realtà – questa – è sotto gli occhi di tutti). .
Ma diverso è anche, all’interno della famiglia, il ruolo della mamma e del papà. «Se la mamma è colei che dà la vita per i suoi figli, per la quale, davanti a una richiesta… è quasi impossibile dire di no, ebbene il papà… deve saper imporre il giusto limite alle tendenze d’eccesso, amministrando la mortificazione laddove essa risulti d’utilità nell’incisione, col bisturi della rinuncia, di quella pustola del peccato originale da cui ogni generazione d’uomo è contrassegnata e che è la presunzione di essere onnipotenti».
La prima scuola è dunque in famiglia, nella diversità complementare tra mamma e papà, imparando giorno dopo giorno cos’è il vincolo matrimoniale: non una prigione, ma un legame che rende tutti più forti, ed è dentro questa “rete” che i figli prendono consapevolezza di cosa significhi amare: «mettere il bene (quello vero) dell’altro davanti al proprio, e nel sacrificio di sé, letteralmente, “fare sacra” la relazione».
Avrete capito che in queste cento pagine non si illustrano teorie ma si racconta la vita, e così, nel capitolo “Amare all’imperfetto” Giovanoli non manca di mettere in guardia la figlia dalla tentazione di riplasmare l’altro ad immagine dell’ideale di marito che è solo un’«utopia del cuore, anch’esso ferito nella sua natura dal peccato originale». Consapevole della propria e altrui imperfezione, la esorta a «maturare la capacità di essere contenta anche per quelle peculiarità del consorte che saranno pungolo a perfezionarsi». (Che sia la vera sfida?)
E sentite qui come l’autore descrive la sua famiglia: «Considerando la nostra famiglia come un equipaggio imbarcato per una meravigliosa avventura ad esplorare le misteriose acque della vita, con semiserio intento abbiamo iniziato a definire i ruoli di ogni singolo componente…: a me, in quanto papà, ovviamente è spettato il grado di Capitano, poiché il capofamiglia non è solo colui che comanda, ma innanzitutto e sopra ogni cosa è proprio colui che, proprio come su una nave, porta su di sé la responsabilità di ogni altro componente dell’equipaggio, ed il modo con cui egli tiene ben salda la rotta dell’intera imbarcazione famigliare è e deve essere orientato proprio a questo fine, il sommo bene di tutti». E la mamma? «Naturalmente, è il Primo Ufficiale: corresponsabile della famiglia col papà, con il quale condivide gli intenti, ma con un ruolo più propenso alla mediazione dei rapporti tra i vari membri dell’equipaggio». Gli altri, i figli, rispettivamente sono Guardiamarina, Marinaio, Mozzo, leggerete per quale ragione: non voglio togliervi la sorpresa.
Ed ecco, subito dopo, una delle pagine più belle di questa lunga lettera: «Ti esorto, figlia mia, se e quando sarai a tua volta moglie e madre, a guardare al tuo sposo come al tuo capitano, ad aiutarlo nella conduzione della rotta come il suo fidatissimo nostromo, rimanendo entrambi solidali nell’amorevole servizio al vostro equipaggio, senza mai sentirti mortificata nel tuo essere “sottoposta”, ma anzi gioendone poiché chi sta posto sotto è proprio colui che regge gli altri, e senza alcuna distinzione d’importanza, bensì in un’unità di amorevole cura reciproca, come la roccia che compone la base della montagna è essenziale tanto quella che ne forma la vetta».
Già mi immagino i dardi delle femministe, quelle stesse che – perlopiù senza aver letto il libro – in Italia e all’estero hanno violentemente attaccato “Sposati e sii sottomessa” di Costanza Miriano, solo per l’orticaria provocata dall’aggettivo sottomessa, che poi era preso a prestito da San Paolo. E’ proprio vero. Sinodo o non Sinodo, oggi come oggi bisogna avere un bel coraggio a ripetere ad alta voce le parole dei santi, e – Don Abbondio docet – «Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare».
Ma non finisce qui. Volutamente ho lasciato alla fine la chicca, anzi il chicco (sì, il chicco di grano che se non muore non può dare frutto…). Insomma, avete capito. Dalla copertina (bellissima!) all’ultima pagina, c’è una Presenza (lettera maiuscola, a buon intenditor) che accompagna l’autore a ogni passo. «Un uomo è solo un uomo, ed il suo amore, proprio per il suo essere mera creatura (con l’aggravante di essere pure maschio) è un amore finito, che, per quanto in alcune circostanze si esprima anche a discreto livello, soltanto riverbera l’amore di cui l’animo femminile ha sete insaziabile. L’Amore di Dio». O ancora: «Sappi che è solo per grazia di quei Sacramenti che cerco di frequentare più spesso che posso e di una preghiera perseverante… che riesco a tenere in catene l’homo neanderthalianensis dentro le spoglie del sapiens-sapiens». Oppure: «Sapevamo che la nostra vita insieme non avrebbe potuto dipendere soltanto da noi, dal vino scarseggiante della nostra umanità, ma avrebbe dovuto rimanere unito a Cristo e preferibilmente attraverso quel canale di potente intercessione presso di Lui che è la Sua Santissima Madre». Insomma: in due non gliela si fa. Si fa fatica a stare insieme più di pochi giri di stagione, più di quando il cuore batte forte per l’innamoramento. Occorre la presenza, la guida, la compagnia di Chi dall’eternità ci ha pensati proprio dentro questo progetto di amore.«E mi conforta assai il sapere che anche tu, figlia mia, rientri in questo progetto, e mi fosti affidata da quello che in fin dei conti è ed è sempre stato il tuo vero Padre, perché, nel mio amorevole addestramento di padre indirizzassi le tue strade ad incontrare le Sue, come un gioiello alla cui lavorazione per amore fui chiamato a partecipare, lasciandomi a mia volta maneggiare come strumento sempre più adatto».
Sapete una cosa? A me capita sempre così. Arrivo all’ultima pagina dei libri di Andrea Torquato Giovanoli e mi sento leggera. Famiglia di sei figli (di cui tre nell’abbraccio del Padre), marito e moglie si barcamenano in un «loculo di tre metri quadri», come ironicamente l’autore chiama casa sua, tra avventure e disavventure quotidiane, in una relazione che, come in ogni famiglia che si rispetti, non è sempre rose e fiori. Eppure nelle sue parole non leggi mai lamentele, rivendicazioni, rabbia, diritti esigiti. Io l’ho capito, il perché. Ad Andrea piace costruire castelli: di Lego d’inverno e di sabbia d’estate. Qualcuna delle sue creazioni l’ho vista, nei social: bellissima perché è anche orafo e puoi solo immaginare che manualità ha, e che cura del dettaglio… Così nella quotidianità della vita. Lavora, si impegna, fonde, modella, sgrossa, cesella… ma nel fondo del cuore sa bene che l’Orefice è un Altro.