mercoledì 28 ottobre 2015

Sguardi cristiani sull’islam



Per una comprensione del disegno salvifico di Dio.
 Sguardi cristiani sull’islam 

Pubblichiamo la lectio magistralis del padre Maurice Borrmans per la laurea honoris causa in Missiologia conferita dalla Pontificia università Urbaniana in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico. Nato nel 1925, francese, membro della Società dei missionari d’Africa, studioso di diritto islamico e spiritualità musulmana, padre Borrmans è stato a lungo docente presso l’Urbaniana e il Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica (Pisai) nonché consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. La lectio è stata preceduta dalla laudatio tenuta dal preside del Pisai, Valentino Cottini. La giornata d’inaugurazione si è aperta con la concelebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e Gran cancelliere dell’ateneo.

(Maurice Boormans) Di fronte all’emergenza della religione musulmana all’inizio del secolo vii e alla sua affermazione politica nel corso della storia, i credenti cristiani si sono sentiti sfidati nella loro fede e invitati a dare una valutazione teologica nei riguardi di questa nuova religione. Padre Jean-Marie Gaudeul, professore al Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica (Pisai) di Roma, ha riassunto la lunga storia di questi sguardi incrociati tra discepoli di Gesù e fedeli del Corano in due volumi dal titolo provocatorio, Disputes? ou Rencontres?, nel 1998, precisando come L’Islam et le christianisme au fil des siècles hanno visto sia i cristiani sia i musulmani valutare diversamente il loro confronto spirituale. Prima di lui, padre Youakim Moubarac, maronita libanese, aveva consacrato a Parigi le sueRecherches sur la pensée chrétienne et l’Islam studiandone, in un primo tempo, il contenuto Des origines à la prise de Constantinople e poi l’espressione dettagliata Dans les temps modernes et à l’époque contemporaine, seguendola secolo per secolo fino ai testi innovatori del concilio Vaticano ii. È proprio partendo dalle sue conclusioni che conviene tentare la presente riflessione teologica, dato che vi si parla successivamente di «lacune», di «acquisizioni» e di «nuova problematica».
Dopo aver riconosciuto alcune «lacune» del suo testo, Moubarac passa alle «acquisizioni» e ne precisa «le più significative»: «Appare oramai certo che sia la politica della Santa Sede sia la dotttrina della Chiesa cattolica sembrano chiare sui rapporti islamo-cristiani». Un certo consensus riunisce tutti i cristiani attorno a «due gruppi di dati». Il primo sta nell’«ampia concordanza della coscienza cristiana sull’islam in quanto “religione della natura”, che merita rispetto, a parte alcune debolezze sulla morale della famiglia o della società». Per quanto riguarda il secondo dato, «sembra che il giudizio cristiano sia più positivo sulla mistica musulmana. In breve, si può dire che il giudizio cristiano ha concesso alla mistica musulmana quello che ha rifiutato all’islam. Fatto significativo, dato che l’islam sedicente tradizionale ha rifiutato la propria mistica. Di qui il problema fondamentale: nel dare un suo giudizio sull’islam, il cristianesimo si vede costretto a fare una scelta: quale islam prendere in considerazione? Diciamolo allora: se il giudizio cristiano non si è ancora pronunciato nei riguardi dell’islam, è anche perché l’islam è sempre in tensione con se stesso, non ha ancora definito la sua vera natura».
Per quanto riguarda la «nuova problematica», Moubarac intende fare suo l’approccio spirituale di padre Jean de Menasce, domenicano, e del cardinale Charles Journet. Per il primo, appare chiaro che «l’islam deve essere collocato tra le eresie», per cui Moubarac può dire che «si ritorna così alla prima pagina del pensiero cristiano di fronte all’islam, quella proprio di san Giovanni Damasceno», come aveva già interpretato Charles Journet. Moubarac si riferisce «a un testo inedito del 1967» in cui il cardinale Journet esprimeva questo giudizio teologico: «Il messaggio di Maometto, tesoro supremo dell’islam, è la “rivelazione soprannaturale” del Dio unico e trascendente fatta ad Abramo, aperta (per Abramo) al mistero della Trinità e dell’Incarnazione redentrice, ma bloccata al momento dello sbaglio di Israele, e ricevuta da Maometto, in virtù di un errore involontario, come antitrinitaria e anticristiana; donde la terribile e duratura ambiguità di questo messaggio». Per il cardinale, Dio non potrebbe mai essere ritenuto responsabile di questo «tragico malinteso», tanto più che quasi subito egli aggiunge questa «preziosa osservazione»: «Basterà da parte di Dio mandare un raggio della sua luce per aprire, dare vita, far sbocciare la nozione del Dio unico e trascendente, mutilata nell’islam (e in Israele) nella nozione di un Dio d’amore che i sûfi (e i hassidim) hanno presentito, riscoperto e anche proclamato».
Su questa linea Moubarac precisa la sua «nuova problematica», appoggiandosi su una frase conclusiva del cardinale: «Una sola certezza ci rimane nella nostra ignoranza: Dio sa quello che permette». Padre Moubarac ha esplicitato tutto questo, nel 1976, in un suo articolo La pensée chrétienne et l’islam. Principales acquisitions et problématique nouvelle della rivista Concilium alla quale affidava i suoi «interrogativi», sulle «esigenze e le difficoltà del dialogo». Distinguendo opportunatamente tra «approccio teologico e sensibilità religiosa», egli faceva osservare «la preminenza del contemplativo, che integra l’esistenziale e redime o compensa tanto il politico quanto il teologico». Ma confessava, sulle orme di Roger Arnaldez, che il dialogo islamo-cristiano si rivela difficile, eppure ineluttabile, e riconosceva che le idee di Louis Massignon e la loro apertura dovevano essere precisate. Nelle intuizioni profetiche di quest’ultimo, infatti, alcuni vorrebbero vedere un primo giudizio di stampo teologico.
Louis Massignon ha rinnovato lo sguardo dei cristiani sull’islam. Si potrebbe sintetizzare il suo ricco e articolato pensiero nello sguardo d’insieme che egli scrive in una lettera del 1958: «Nella storia dell’umanità, abbiamo tre periodi religiosi: lo stato di natura, ferita dal peccato di Adamo, corrispondente all’epoca patriarcale; lo stato legale, che comincia al Decalogo del Sinai; lo stato evangelico, che comincia con Cristo e alla Pentecoste. È assurdo discutere con un ebreo credente, come se fosse arrivato allo stato evangelico: è ancora sottomesso alla Legge del timore; similmente, è assurdo discutere con un musulmano come se fosse arrivato sia allo stato legale sia allo stato evangelico». Egli conclude così: «L’islam è ancora allo stato patriarcale, al tempo di Abramo». Secondo Massignon, dunque, l’islam sembrerebbe essere «una religione naturale ravvivata da una rivelazione profetica», in quanto prende in prestito dalla tradizione giudeo-cristiana la parte principale del suo vocabolario e alcuni elementi semplificati del suo insegnamento.
Alcuni hanno pensato possibile concludere da questo «abramismo» di Louis Massignon che l’islam sarebbe una via parallela di salvezza per i musulmani, data la sua origine dalla benedizione di Abramo a favore di Ismaele, che l’abiliterebbe a partecipare a un disegno divino positivo a tale scopo. Padre Georges Anawati, in una conferenza del 1985, distingue tre correnti cattoliche d’interpretazione teologica dell’islam: «Una “corrente minimalista”, soprattutto preconciliare, la quale vede nell’islam soltanto gli aspetti che contraddicono i dogmi cristiani. Questa corrente è diventata piuttosto anacronistica. Una “corrente massimalista”, la quale riconosce, in un modo o nell’altro, il profetismo di Muhammad e il carattere rivelato del Corano. Le basi di tale interpretazione sono fragili, tanto dal punto di vista storico quanto da quello esegetico e teologico. La maggioranza degli “islamizzanti” cattolici preferiscono seguire una “via media”. Pur dimostrando molta simpatia verso i musulmani e una grande apertura al dialogo, questa via tiene conto delle divergenze radicali che separano le due religioni». Così scrivendo, padre Anawati faceva sua la medesima domanda di padre Moubarac: «Quale islam il cristianesimo viene chiamato a riconoscere?». L’islam coranico e la sua pratica ortodossa, o l’islam della saggezza filosofica e dell’etica umanizzante, o l’islam del sufismo e della devozione delle confraternite? L’approccio teologico di questi tre tipi di islam deve essere differenziato, a meno che ci si accontenti di quanto essi hanno in comune per quanto riguarda il credo, i riti e la morale. Sembra che questo sia stato l’approccio globale della dichiarazione conciliareNostra aetate. Per chiarirne il contenuto è necessario fare riferimento ai documenti promulgati negli anni successivi dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, dalla Commissione teologica internazionale e dalla Congregazione per la dottrina della fede. Se l’insieme di questi documenti sembra rappresentare il patrimonio comune di coloro che sono oggi impegnati nel dialogo islamo-cristiano, qualunque sia la loro corrente di appartenenza, è anche vero che la posizione minimalista, massimalista o mediana, dipende in gran parte dalle premesse della scelta che i loro membri fanno tra le varie ipotesi scientifiche sulle origini dell’islam nelle sue dimensioni religiose, culturali e politiche.
Alcuni, che possiamo annoverare nella schiera dei “minimalisti”, contestano l’esistenza stessa della dichiarazione conciliare Nostra aetate o alcune delle sue affermazioni ritenute troppo avanzate e compromettenti, contestando la presunta vicinanza dei valori e mettendo in guardia i cristiani “sprovveduti” da affermazioni ambigue, dato che le medesime parole hanno significati diversi nel cristianesimo e nell’islam. Sulla stessa linea viene messa in dubbio l’affermazione di Lumen gentium 16, dove si dice che i musulmani adorano «con noi» l’unico Dio. Con differenze più o meno accentuate fanno dunque parte di questa corrente Alain Besançon, Edouard-Marie Gallez, François Jourdan, Dominique e Marie-Thérèse Urvoy e Annie Laurent.
Al contrario dei “minimalisti”, alcuni pensatori impegnati nel dialogo in corso, intendono concludere dai testi del magistero cattolico, interpretati univocamente e letteralmente, che tutte le religioni storiche appartengono allo stesso disegno di salvezza e che l’islam si rivela molto vicino al cristianesimo per tanti aspetti. Essi, che possiamo classificare come “massimalisti”, sono propensi a considerare le credenze e le esperienze dei cristiani e dei musulmani come simili, finendo per riconoscere la missione profetica di Muhammad e il carattere rivelato del Corano. Tra questi, sempre con le dovute sfumature di pensiero e di tendenza, potremmo annoverare padre Paolo Dall’Oglio, Charles Ledit, Denise Masson, padre Giulio Basetti-Sani e, in particolare per Lumen gentium 16, Gerhard Gäde.
Potrebbe essere in parte annoverato in questa tendenza anche il Gruppo di ricerche islamo-cristiano (Gric), benché esso partecipi a pieno titolo anche della “via media”. In uno dei libri pubblicati da questo gruppo, il padre Robert Caspar, che fu professore presso il Pisai, insiste sul criterio della «fecondità del messaggio proposto agli uomini: “Si valuta l’albero dai suoi frutti”, ciò che potremmo chiamare i suoi frutti di santità». Orbene, la fecondità del messaggio coranico si manifesta nel passare di molti popoli dal politeismo al monoteismo e nelle avventure metafisiche o sovrannaturali dei mistici e dei santi dell’islam. Per tutti questi motivi, si stima che il cristiano «può legittimamente riconoscere nel Corano una Scrittura che esprime una Parola di Dio», ma «rendendo conto di questo fenomeno a partire dalla propria fede».
Padre Caspar riassume le sue riflessioni specificando quali sono i tre approcci all’islam possibili per i discepoli di Gesù Cristo. C’è l’approccio “esistenziale”: «Esso consiste nel vivere concretamente la contraddizione, senza potere, per il momento, superarla, in una visione più allargata». C’è l’approccio “classico” che si attiene alla distinzione fatta dalla teologia scolastica tra «due tipi di rivelazioni o profezie: quella che fa “conoscere la verità divina” e quella che ha soltanto per fine di “dirigere gli atti umani”». C’è in terzo luogo un “allargamento della rivelazione come storia e come significato”, allargamento che può prendere due forme: quello del ricordare la nostra Rivelazione e quello del riconoscere un’altra espressione della Parola di Dio. Nel primo caso, il cristiano potrebbe dire con padre Claude Geffré che «l’islam è per me un richiamo profetico alla confessione della fede iniziale d’Israele: “Adorerai un solo Dio”. La rivelazione coranica mi invita a rileggere la rivelazione biblica che trova il suo compimento in Gesù Cristo sottolineando l’assolutezza del Dio unico e preservandomi da ogni peccato di idolatria. Non dico che il Corano sia “la” Parola di Dio, ma accetto di dire che nel Corano ci sia “una” confessione di fede nel Dio che mi riguarda come cristiano e che mi invita quindi a considerare Muhammad come un autentico testimone del Dio in cui io credo. Nel secondo caso, si tratta di riconoscere nel Corano un’altra espressione della Parola di Dio». Ma come? Le spiegazioni proposte da padre Caspar non sono del tutto soddisfacenti perché anche se offrono prospettive utili, riaffermano comunque le divergenze fondamentali tra cristianesimo e islam sul mistero di Dio e sul suo atto creatore.
La “via media” sembra finora essere quella scelta da Giovanni xxiii, Paolo vi, Giovanni Paolo ii, Benedetto xvi e Francesco nel loro insegnamento solenne e nel loro ministero pastorale. Ed è anche quella di molte persone impegnate istituzionalmente nel dialogo islamo-cristiano. Basta rileggere le encicliche, i discorsi e i messaggi dei primi e le pubblicazioni, le riviste e le dichiarazioni dei secondi. È proprio secondo questa “via media” che furono fatte le prime ricerche del Segretariato per i non cristiani e quindi redatti i suoi primiOrientamenti per un dialogo tra cristiani e musulmani nel 1969 prima che questi ultimi fossero aggiornati nel 1981. Che si tratti dei responsabili o dei loro collaboratori, tutti riconoscono realisticamente le differenze profonde, quasi abissali, tra cristianesimo e islam, sia che si parli dello «scontro delle teologie», come spiega padre Emilio Platti, sia che si vada a esplorare quanto concludono le scienze delle religioni sul carattere irrimediabilmente diverso, nell’islam e nel cristianesimo, della teologia, dell’antropologia e della sociologia.
Si ritorna quindi ai primi due approcci proposti da padre Caspar stesso: l’esistenziale e il classico, in uno spirito di apertura comprensiva nei riguardi del Corano, considerato come viatico di valori spirituali per i musulmani. Non rappresenta forse per loro un ricco patrimonio religioso per rispondere alle domande esistenziali che ogni uomo si pone sul suo destino personale? L’islam nella sua triplice dimensione di legge, di sapienza e di mistica non ha finito di sfidare la riflessione cristiana, la quale non può accontentarsi di rispondervi con affermazioni dogmatiche o valutazioni storiche. I “profeti” del dialogo e i loro attori attuali si interrogano ancora sulla validità dell’islam per i suoi seguaci. È stato il caso di Massignon e di Moubarac come quello di Caspar e di Anawati, e di tanti altri. Roger Arnaldez, consapevole del ricco apporto umanistico dell’islam classico e della sua anchilosi interpretativa alle soglie del mondo moderno, prendeva atto delle «divergenze profonde tra islam e cristianesimo», poiché il Dio dell’islam si presenta come «trascendenza di comandamenti» e il Dio dei cristiani come «trascendenza di amore». Padre Jean-Muhammed Abd-al-Jalil riconosceva che «l’islam (è) la religione che, su alcuni punti, sembra vicina al cristianesimo più dell’ebraismo ma in realtà è anche la più opposta ai misteri cristiani». Di Louis Gardet, filosofo cristiano delle culture, Arnaldez diceva che «i suoi giudizi sull’islam avevano un carattere dialettico: volontariamente favorevoli e senza restrizione alcuna quando si trattava di opporsi a opinioni false o parziali sulla religione di Muhammad, ma critici, nel senso filosofico della parola, ogni volta che si doveva mettere in evidenza la sua grande differenza dal cristianesimo». Infine, padre Jacques Jomier concludeva i suoi lavori dicendo: «La differenza proviene dall’insegnamento dei rispettivi testi sacri. Mentre l’islam vuole essere il restauro della religione patriarcale, sempre valida e rifiuta ogni tipo di monoteismo diverso dal suo, il cristianesimo insegna che c’è stato un progresso nella rivelazione, movimento spirituale che raggiungerà il suo vertice con Cristo. Non sarebbe forse più giusto dire che Dio, nel Corano, è fondamentalmente il Dio della teologia naturale? Per misericordia, egli ha preso l’iniziativa di guidare l’uomo nella sua debolezza, e di mostrargli come controllare le sue passioni per compiere il bene ed evitare il male. Il Corano non accetta che Dio abbia chiamato l’uomo a un livello superiore a quello della teologia naturale». Si potrebbe osservare che esiste, paradossalmente, una strana sintonia tra le opinioni della “via media” e quanto è stato detto dai 38 «rappresentanti dell’islam» dell’Accademia di Amman nella loroLettera aperta a Benedetto xvi, il 16 ottobre 2006. Essi, infatti, specificano che «non si deve rimproverare a Muhammad di non aver apportato “niente di fondamentalmente nuovo” poiché la sua missione era soltanto di ripetere e ricordare il messaggio primordiale del patto adamico». Tale autopresentazione dell’islam come religione primordiale corrisponde abbastanza bene alla comprensione che i cristiani della “via media” si fanno della religione dei musulmani.
L’approccio cristiano all’islam che abbiamo tentato di presentare nella varietà degli accostamenti che vanno dai minimalisti ai massimalisti, esprime l’aspetto migliore di quanto hanno prodotto i pensatori e i teologi impegnati nel dialogo islamo-cristiano. Molti di loro si riconoscerebbero volentieri nella “via media” seguita da padre Anawati e da coloro che furono, dopo di lui, gli attori di questo dialogo. Si distinguono in particolare coloro le cui testimonianze sono raggruppate in un libro dal titolo significativo Christian Lives Given to the Study of Islam, pubblicato nel 2012. Tutti, con Massignon e Moubarac, vedono nell’islam una “religione naturale”, che corrisponde alla virtù morale naturale di giustizia, la quale prende il nome di religione quando tratta dei rapporti di giustizia tra la creatura e il Creatore. Per di più, si tratta di un monoteismo che riprende, in modo diverso, il messaggio essenziale del Dio unico e trascendente della tradizione giudeo-cristiana. La meditazione del cardinale Journet permette di apprezzarne tutto il valore e nello stesso tempo i limiti, come ostacoli alla piena rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Se questa «religione naturale» viene detta «ravvivata da una rivelazione profetica», come diceva Massignon, ciò non significa che l’islam sia parte integrante della «rivelazione biblica».
Ma cosa pensare allora di Muhammad e del Corano? Gli storici si pongono tuttora molti interrogativi sul Profeta dell’islam, la sua personalità, la sua sincerità e la sua autenticità, e alcuni teologi accetterebbero di attribuirgli un certo carisma, intellettuale o pratico. D’altra parte il Corano si esprime in un linguaggio biblico che sembra farne una parafrasi dei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, soprattutto nella loro parte sapienziale. Di conseguenza, un certo patrimonio di vita spirituale viene offerto per esser trasmesso, così “ravvivato”, a coloro che vi aderiscono in buona fede e con cuore sincero. Ed ecco qui aprirsi lo spazio offerto ai teologi per pronunciarsi in modo più o meno positivo sulle chances che l’islam offre ai musulmani di tutte le sensibilità, di rispondere alle sollecitazioni interiori dello Spirito Santo in vista della salvezza, che viene loro assicurata in e da Gesù Cristo. Si tratta di un approccio che non potrebbe essere accusato o sospettato di sincretismo o di relativismo. Padre Moubarac stesso lo confessava in un’intervista del 26 novembre 1971: «Non credo che, nell’ottica di qualsiasi religione, si possa parlare di “due” rivelazioni; la rivelazione, se c’è rivelazione, non può che essere unica, come il disegno di Dio sul mondo è unico. Da cui la pretesa di tutte le grandi religioni all’universalità e quindi la missione cattolica della Chiesa per radunare l’umanità nell’obbedienza al Vangelo». È proprio in questa prospettiva che bisogna rileggere i testi del Vaticano ii (Lumen gentium, 16 e Nostra aetate, 3) e quelli del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, aggiungendovi il discorso di Giovanni Paolo ii a Casablanca, del 19 agosto 1985. Tra l’altro egli diceva: «Noi, cristiani e musulmani, dobbiamo riconoscere con gioia i valori religiosi che abbiamo in comune e renderne grazie a Dio. Cristiani e musulmani, generalmente, ci siamo malcompresi, e qualche volta, in passato, ci siamo opposti e anche persi in polemiche e in guerre. Io credo che Dio c’inviti oggi, a cambiare le nostre vecchie abitudini. Dobbiamo rispettarci e anche stimolarci gli uni gli altri nelle opere di bene sul cammino di Dio».
L'Osservatore Romano