venerdì 27 novembre 2015

La rinascita della giovane Chiesa nel Centrafrica dilaniato dalle guerre



di Federico Trinchero*
La terza e ultima tappa del primo viaggio apostolico di papa Francesco sul Continente africano prevede, da domenica, una sosta di due giorni a Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana. Si tratta di un Paese ai più sconosciuto, sebbene si trovi nel cuore dell’Africa e abbia una superficie pari a due volte quella dell’Italia (il più grande dei tre paesi visitati dal Papa), ma una popolazione di soltanto 4.600.000 abitanti. 
Ex-colonia francese (all’epoca si chiamava Oubangui-Chari),indipendente dal 1960, il Centrafrica è uno dei tre Paesi più poveri del pianeta. Ricco di acqua, terre coltivabili e fertili, legname, oro, diamanti, uranio e petrolio, il Paese arranca terribilmente sulla via dello sviluppo e, paradossalmente, sembra quasi regredire. Papa Francesco, inoltre, arriva in Centrafrica nel momento più drammatico della sua breve e tormentata storia segnata da continui colpi di Stato, guerre civili e missioni militari internazionali. Dal 2012, infatti, il Paese non trova né pace né sicurezza né sviluppo. Una coalizione eterogenea, a maggioranza musulmana, di ribelli centrafricani e mercenari di origine sudanese e ciadiana – nota con il nome di Seleka – ha cercato invano di prendere il potere sul Paese e le sue ricchezze. Dopo aver conquistato la parte nord-orientale, tale coalizione, guidata da Michel Djotodia, ha fatto il suo ingresso in capitale nel marzo del 2013, spodestando il presidente François Bozize, al potere dal 2003. 
Da quel momento il Paese non si è più rialzato e la situazione è soltanto peggiorata. Pochi mesi dopo il colpo di Stato la parte cristiana – o meglio: non musulmana – esasperata dalle violenze e dai saccheggi, si è organizzata per cercare di cacciare via la Seleka, dapprima nelle province, infine a Bangui, dove è entrata in azione nel dicembre del 2013. Tale reazione – i cui protagonisti vanno sotto il nome di Anti-balaka – ha dimostrato una violenza pari a quella dei Seleka e, sebbene sia riuscita nell’intento di spodestare l’autore del colpo di Stato, ha provocato un grande movimento di profughi (all’interno come verso l’esterno del Paese) e una generale insicurezza sull’intero territorio. Solo l’intervento dell’esercito francese ha evitato che gli scontri degenerassero in una carneficina. I vescovi hanno regolarmente preso le distanze e condannato con forza le azioni degli Anti-balaka – impropriamente definiti come milizie cristiane – in quanto in totale contraddizione con il Vangelo.
Il Centrafrica è quindi precipitato in un baratro di paura e di guerriglia continua da cui sembra impossibile uscire. E questo nonostante l’elezione di una nuova presidente, Catherine Samba Panza, e la presenza dell’esercito francese (operazione Sangaris) e della missione Onu (Minusca), forte di ben 12.000 uomini dislocati sull’intero territorio. La situazione è ancora più complessa – di fatto bloccata – perché lo scontro da politico è diventato etnico-religioso: la lotta per il potere è diventata una lotta tra musulmani e cristiani (quest’ultimi la maggioranza della popolazione). Tale contrapposizione ha avvelenato la vita del Paese, che prima era invece un esempio di coabitazione pacifica tra le diverse confessioni religiose. Ci vorranno anni per arrivare a una vera riconciliazione tra le due comunità. 
Negli ultimi due mesi inoltre, dopo circa un anno di calma apparente, la situazione è purtroppopeggiorata, soprattutto nella capitale: scontri, morti e feriti da entrambe le parti, case e chiese bruciate, barricate sulle strade, paure e gente in fuga che ha abbandonato le proprie abitazioni trovando rifugio nelle chiese situate nei quartieri più sicuri. Ovviamente, le elezioni presidenziali, attraverso le quali si sperava di dare una certa stabilità, ormai sotto la tutela della comunità internazionale, sono state ulteriormente rimandate. Questo clima di insicurezza ha messo addirittura in dubbio l’opportunità del viaggio del Papa. In un quadro così desolante, la Chiesa cattolica si è di fatto dimostrata l’unica autorità credibile e veramente vicina al popolo centrafricano, vittima innocente di uno scontro che, ancora una volta, ha tagliato le gambe allo sviluppo della nazione.
In Centrafrica, però, la Chiesa è ancora molto giovane. Il Vangelo è arrivato poco più di un secolo fa, nel 1894, grazie al coraggio di un gruppo di giovani missionari Spiritani francesi, che, partendo da Brazzaville, hanno raggiunto questa terra nel cuore del Continente nero, risalendo in senso contrario il fiume Oubangui.Negli anni il Vangelo si è diffuso grazie anche all’apporto di altre congregazioni religiose come i cappuccini, i comboniani, la Società della Missioni Africane, i francescani minori, i carmelitani, i betharramiti, nonché il contributo di numerose congregazioni femminili. Attualmente il paese è diviso in nove diocesi che hanno però una superficie molto vasta, pari a due o tre regioni italiane. Il clero autoctono sta crescendo e, pian piano, prendendo in mano le redini della Chiesa locale. Cinque diocesi sono ormai guidate da un vescovo centrafricano e le vocazioni nei seminari, come nelle congregazioni religiose, non mancano. 
Tuttavia, non si può dimenticare che la Chiesa centrafricana ha vissuto una forte crisi di crescita negli anni dal 2008 al 2012. Tale crisi si è aperta nel momento in cui – grazie all’intervento diretto della Santa Sede – si è finalmente avuto il coraggio di affrontare nella verità e con una certa determinazione la situazione delicata di molto sacerdoti e religiosi che vivevano in situazioni chiaramente in contraddizione con gli impegni assunti al momento dell’ordinazione. Tale situazione ha provocato le dimissioni di ben due vescovi, l’allontanamento dal servizio diretto nelle parrocchie di diversi sacerdoti e la chiusura, per tre anni, del Seminario maggiore interdiocesano di Bangui. 
Nel 2012 la situazione è cambiata grazie alla nomina di ben quattro nuovi giovani vescovi – tra i quali monsignor Dieudonné Nzapalainga, l’attuale pastore dell’arcidiocesi di Bangui – e la riapertura del Seminario maggiore. Tale crisi è stata indubbiamente benefica in quanto ha permesso alla Chiesa centrafricana di diventare più umile, più esigente nei confronti dei suoi pastori, più attenta nella selezione e nella formazione dei candidati al sacerdozio e più in comunione con la Chiesa universale. Non è esagerato dire che tale momento abbia segnato un prima e un dopo nella storia della Chiesa del paese.
Ci sono però almeno due altri ambiti sui quali la Chiesa centrafricana è chiamata a lavorare neiprossimi anni. Se le assemblee domenicali sono affollate e gioiose, c’è ancora molto da fare nella lotta al sincretismo religioso. Come altri paesi africani anche il Centrafrica fatica a liberarsi dalla stregoneria, dalla superstizione e da paure e credenze ancestrali che a volte possono portare a pratiche contrarie alla fede cristiana e ad atti molti gravi (anche omicidi). Il secondo ambito è invece quello della pastorale famigliare. Le coppie che scelgono di unirsi nel sacramento del matrimonio sono ancora troppo rare e spesso dopo diversi anni di coabitazione e dopo aver avuto molti figli. Le convivenze, le libere unioni, le gravidanze precoci o da partner multipli e occasionali, l’assenza di paternità responsabile sono una vera piaga sociale dalle conseguenze devastanti per le nuove generazioni. L’educazione dei giovani alla castità è una vera urgenza pastorale: se le iniziative non mancano, c’è comunque ancora molto lavoro da fare.   
Papa Francesco troverà quindi una Chiesa giovane e fragile, ma con un grande potenziale umano eche in questi anni di guerra si è rivelata all’altezza della situazione, sia nei suoi pastori come nei suoi fedeli. Parrocchie, conventi e seminari hanno infatti aperto le loro porte per accogliere migliaia di profughi che hanno trovato rifugio e protezione nelle navate delle chiese, nelle aule scolastiche, nei refettori, nei garage… in ogni luogo dove è stato possibile accogliere e salvare uomini, donne e soprattutto bambini. Una Chiesa che quindi non si è trovata impreparata ma che, povera di mezzi e quasi senza accorgersene e senza farlo troppo sapere, si è trasformata in un grande ospedale da campo aperto per tutti. Va anche detto – e con una certa fierezza – che non sono stati pochi i sacerdoti autoctoni che hanno accolto e salvato la vita di centinaia di musulmani, spesso mettendo a rischio la loro stessa vita.
Papa Francesco, quasi inutile dirlo, è attesissimo come messaggero di pace e di riconciliazione, daun popolo che, se sembra quasi aver perso la speranza di uscire dalla guerra, non ha mai smesso di credere in Dio e nei suoi ministri.
padre missionario carmelitano scalzo a Bangui – Repubblica Centrafricana