lunedì 23 novembre 2015

Schiave, spose, bombe umane

jihadisteSchiave, spose, bombe umane: le donne del jihadismo
di Valentina Colombo


Nel gennaio 2004 per la prima volta una madre palestinese di appena 21 anni si fece esplodere uccidendo quattro israeliani e lasciando due figli, l’uno di 18 mesi e l’altro di tre anni. L'attentato, consumatosi a Gaza, rappresentò un grave salto qualitativo nella strategia dell’estremismo islamico. L'identikit dell'aspirante “martire” era progressivamente mutato. Si era passati dal maschio giovane motivato dalla disperazione economica o dalla sete di vendetta nei confronti del “nemico sionista”, all'adulto di entrambi i sessi spinto da una scelta ideologica indipendente dallo status socio-economico-religioso e ispirata da una crisi di identità, come avevano dimostrato gli attentatori dell’11 settembre. Il caso della giovane Reem Reyashi, benestante e sostanzialmente laica, ampliava spaventosamente le possibilità di arruolamento dell'esercito della morte coinvolgendo le madri, ovvero le persone che più di altre dovrebbero avere a cuore la salvaguardia della vita propria e dei propri figli. 
D’altronde il 9 novembre 2005 la belga Muriel Degauque, 38 anni, convertita all’islam, si fece esplodere a bordo di un'auto imbottita di esplosivo sulla strada per Baquba, sessanta chilometri a nord di Bagdad. 
Nel febbraio 2008 la fabbrica del terrore fece un altro atroce e disumano balzo in avanti poiché si ebbe l’abbietta strumentalizzazione della vita di due ragazze disabili, trasformate in bombe umane e fatte esplodere da Al Qaeda in due mercati di Bagdad, provocando il massacro di oltre 70 persone. Questa tendenza è stata tristemente confermata da un reportage sulle donne kamikaze trasmesso dalla televisione Al Jadid/New TV il 19 agosto 2008. Agghiacciante fu la testimonianza di una giovane donna che si fa chiamare “Amante di Gerusalemme”: “Questa è la cintura che portiamo intorno alla vita, così che possiamo farci esplodere premendo un bottone. E’ un bottone di sicurezza. Non esplodiamo se non lo schiacciamo. Solo quando Dio instilla il desiderio nel nostro cuore… la nostra forza non è nel corpo, ma nel cuore”. 
Se è difficile comprendere come si possa giustificare e autorizzare un attentato suicida da parte di un uomo, lo è ancora di più qualora si tratti di una donna. Sembrerebbe un controsenso. Invece l’estremismo islamico, che ritiene che la donna debba coprirsi, vivere una vita riservata, muta parere qualora possa diventare uno strumento utile per ottenere un fine, ovvero uno strumento di resistenza. E’ sufficiente leggere una fatwa emessa dallo shaikh Yusuf al-Qaradawi sulle donne kamikaze per comprendere il ragionamento che sottende all’autorizzazione: “L’operazione di martirio è la più alta forma di jihad sulla via di Dio […]una donna ha il diritto di parteciparvi accanto agli uomini” poiché “possono talvolta fare ciò che è impossibile per gli uomini”. Ma la parte più interessante riguarda la questione del velo, di cui al-Qaradawi è sempre stato un estremo fautore: “Per quanto riguarda il velo, una donna può indossare un cappello o qualsiasi altra cosa per coprirsi il capo. Qualora necessario può togliere il velo per portare a compimento l’operazione perché morirà per la causa di Dio e non vuole esibire la sua bellezza o i suoi capelli. Quindi non vedo alcun problema nel togliere il velo in questa occasione”.
E’ evidente come la donna venga automaticamente esentata dai doveri che dovrebbe assolvere per essere una buona musulmana come si legge nell’articolo 18 dello statuto di Hamas: “La donna, nella casa e nella famiglia dei combattenti, si tratti di una madre o di una sorella, ha il suo ruolo più importante nell’occuparsi della casa e nell’allevare i figli secondo i concetti e i valori islamici, e nell’educare i figli a osservare i precetti religiosi preparandosi al dovere del jihad che li aspetta. Pertanto è necessario prestare attenzione alle scuole e ai programmi per le ragazze musulmane, così che si preparino a diventare buone madri, consapevoli del loro ruolo nella guerra di liberazione. Le donne debbono avere la consapevolezza e le conoscenze necessarie per gestire la loro casa. La frugalità e la capacità di evitare gli sprechi nelle spese domestiche sono requisiti necessari perché ci sia possibile continuare la lotta nelle difficili circostanze in cui ci troviamo. Le donne dovranno sempre ricordare che il denaro equivale al sangue, che non deve scorrere se non nelle vene per assicurare la continuità della vita sia dei giovani sia dei vecchi”. 
Con lo Stato Islamico si è aperta una nuova era in cui si assiste all’apoteosi della strumentalizzazione della donna in quanto madre, moglie, ma anche e soprattutto come corpo al servizio dei combattenti. 
Nel numero 7 della rivista Dabiq compare un’intervista a Umm Basir al-Muhajirah (Madre di Basir l’emigrata) ovvero la moglie di Amedy Coulibaly, uno degli attentatori di Charlie Hebdo. Qui la moglie del “martire” invita le “sorelle” ad aiutare e sostenere “i mariti, i fratelli, i padri e i figli”, a “essere forti e coraggiose” nel sostenere gli uomini della loro famiglia nel loro sforzo verso Allah. Da questo momento la rivista dello Stato Islamico dedica una rubrica alle donne gestita da Umm Sumayyah al-Muhajirah (madre di Sumayyah l’Emigrata). Al pari di Umm Basir ha compiuto l’egira verso lo Stato islamico ed è non solo un modello per le altre musulmane, ma diventa altresì un mentore. Rammenta l’obbligo dell’egira per uomini e donne e narra le storie delle donne che sono migrate abbandonando la “miscredenza” (kufr) in cui vivevano. “Tutte le storie iniziano con la sorella che decide di partire per la causa del suo Signore. Il primo ostacolo che la muhājirah deve affrontare è la famiglia. E chissà che cosa è la famiglia! Nella maggior parte dei casi, le famiglie sono composte da musulmani laici, ai quali proporre l’egira è come sbattere la testa contro una roccia. E’ vero che la loro la sorella è il loro onore ed è loro diritto temere per lei, ma perché e non temono per il loro onore, quando la sorella si vuole recare a Parigi o Londra per una specializzazione”.
Umm Sumayyah ricorda il caso di una “sorella che è partita accompagnata dal marito e fu fermata dai soldati del tiranno (taghut) all’aeroporto dopo che i suoi genitori avevano avvisato la polizia” e si stupisce del fatto che nonostante fosse accompagnata dal suo “guardiano” la polizia l’abbia fermata. Le parole di Umm Sumayya mirano a coinvolgere, a convincere altre donne a migrare e a non avere paura dello Stato islamico che invece garantisce loro i veri diritti in quanto musulmane. Tra questi diritti indubbiamente spicca la poligamia. Umm Salamah, nell’ultimo numero di Dabiq, illustra alle donne che sono migrate e che hanno assorbito valori occidentali che non devono essere gelose, che devono accettare che il proprio marito sposi altre donne: “ogni sorella dovrebbe sapere che quando suo marito vuole sposare un’altra donna, non è obbligato a chiederle il consenso, né chiederle l’autorizzazione, né cercare di accondiscendere alle sue richieste. Se lui attuerà questa scelta sarà per generosità.” 
Non si può tacere il fenomeno del “jihad del matrimonio” poiché se gli uomini che aderiscono allo Stato Islamico abbracciano un’ideologia jihadista, al contempo abbracciano una visione machista del mondo nella quale la donna può essere strumento di attacco e combattente, ma laddove la visione della donna come corpo al servizio dei combattenti non viene esclusa anzi viene esaltata. Se tutte le ideologie dell’islam radicale considerano la donna come corpo, come sedizione, ma in prima istanza come oggetto e strumento di piacere dell’uomo, l’ideologia dell’ISIS può essere considerata l’apoteosi di questa visione. Inoltre al pari del suicidio femminile in nome di Allah, come si è osservato soprattutto nella Fratellanza musulmana, il “jihad al-nikah”, il jihad del matrimonio, viene considerato un modo per purificare il proprio corpo unendosi, anche con matrimonio temporaneo, chi combatte il vero jihad, quello con le armi. Ancora una volta la sottomissione totale ad Allah corrisponde per la donna alla sottomissione all’uomo che svolge un ruolo in prima linea nella vita, nel jihad e nella sharia.
Per concludere, studi recenti evidenziano che alla radice della migrazione femminile verso lo Stato Islamico si trova, come nel caso di quella maschile, anche la ricerca di identità come conseguenza di una mancata integrazione, di carenze affettive e di disagio psico-sociale. Lo stesso disagio, la stessa predisposizione alla manipolazione si riscontra anche nelle donne che aderiscono all’ideologia dell’Isis senza migrare. E’ il caso di Hasna Aït Boulahcen, la donna che è rimasta vittima – o forse si è fatta esplodere – durante il recente blitz a Saint-Denis dopo gli attentati parigini. Hasna, 26 anni, dopo un’infanzia in cui è stata maltrattata da genitori che si sono ben presto separati, è stata data in affido tra gli 8 e i 15 anni a un’altra famiglia. A 15 anni ha abbandona la famiglia che l’ha accolta e ha avviato una vita marcata da droga e alcool. Nell’ultimo anno il cambiamento: niqab e avvicinamento all’islam radicale. Il resto è storia nota.
E’ evidente che la donna, in quanto madre e moglie, potrebbe rappresentare la chiave di volta per arginare la radicalizzazione, ed è per questo motivo che ogni processo di de-radicalizzazione dovrebbe passare attraverso un maggiore monitoraggio e una maggiore integrazione delle musulmane nelle nostre società. Basterebbe passeggiare per le vie di Moelenbeek o di Saint-Denis per comprendere quanto le donne siano la punta dell’iceberg di una ghettizzazione che vede nel loro velo – talvolta integrale – un microcosmo simbolico di un velo ben più spesso che separa certe realtà e quartieri dall’ambiente circostante che viene visto e sentito come ostile.