martedì 24 novembre 2015

Siamo ciò che mangiamo. E come lo mangiamo



di Enzo Bianchi

Il cibo è costituito da un insieme di alimenti e di creature volute e donateci da Dio ma, come abbiamo detto, il cibo è frutto non solo della terra, ma anche del lavoro dell’uomo. Per noi umani non c’è natura senza cultura: siamo consapevoli che dal III millennio a.C., prima ancora dell’invenzione della scrittura, gli umani hanno iniziato a praticare l’arte della cucina, cioè del preparare, del trasformare gli alimenti in cibo per la tavola. Attorno al fuoco, in una grotta, sotto un albero, su una pietra si è cominciato a mangiare insieme, a consumare cibo preparato da qualcuno: a poco a poco nasceva la cucina, l’arte del cucinare e, contemporaneamente, la festa, il banchetto, il simposio... Consumare lo stesso cibo e la stessa bevanda significa diventare insieme uno, stipulare un contratto, un’alleanza, riconoscere una prossimità, un’accoglienza reciproca, dare origine a una relazione o approfondirla, delineare un abbozzo di communitas.  

Cucinare è azione umana, solo umana, non conosciuta dagli altri viventi sulla terra. È, di fatto,umanesimo, perché chiama e richiama uomini e donne, convoca piante, animali e anche minerali (il sale) e canta il sapore del mondo. E tutto questo in un ritmo umano: non sempre si cucina allo stesso modo! C’è la cucina feriale, in cui ci si nutre con gioia ma nella sobrietà e nella frugalità; c’è il pasto, il banchetto che interrompe la ferialità dei giorni per dire l’insperabile, per celebrare ciò che accade poche volte e per grazia; c’è il pasto del bambino che abbisogna di cibi a lui adeguati; c’è il pasto per l’anziano, che richiede una misura e una leggerezza… Chi cucina ha anche l’arte di differenziare i pasti, perché c’è un pasto per ogni momento sotto il sole.  



FARE CUCINA

Cosa va messo in evidenza in quest’arte? Innanzitutto l’acqua: non solo essenziale come bevanda, ma indispensabile per la cucina, per lavare gli alimenti, per cuocerli. L’acqua ha assunto subito un ruolo purificatore e quindi si è imposta come indispensabile. Accanto all’acqua, il fuoco che fa passare l’alimento da crudo a cotto: tutti noi sappiamo come questo processo sia assolutamente determinante. Quello dal crudo al cotto è un passaggio che conferisce un nuovo assetto al cucinare: fare cucina cessa di essere solo preparare e condire un alimento, ma implica il trasformarlo profondamente, con esiti molto diversi a seconda della modalità di cottura e degli ingredienti utilizzati.  

Proprio la preparazione culinaria ha creato il pasto come pratica sociale che media il rapporto con il nutrimento. Senza la preparazione, ognuno potrebbe soddisfare da solo e a suo piacimento il bisogno di cibo. La preparazione del pasto, invece, richiede un investimento di tempo, di attenzione e di cura, che costituisce la misura empirica dell’amore di chi prepara il cibo nei confronti di quanti devono mangiarlo abitualmente o sono invitati per una circostanza particolare. Anche presentare un piatto richiede tempo e arte, quindi attenzione verso gli altri e volontà di procurare piacere. Presentare il cibo è la firma del cuoco o della cuoca, è un sorriso che esprime la gioia di offrire ciò che si è preparato per qualcuno. [...] 

Condivisione e scambio entrano dunque nella cultura della cucina, del pasto, degli alimenti, e la condivisione del cibo appare sempre segno della condivisione della vita, e così lo scambio. Per questo nella cultura del cibo la relazione ha il suo primato e il cibo è a servizio di questa relazione che può essere tra conoscenti, amici, coniugi, famiglia, vicini, entità territoriali... «L’uomo è ciò che mangia», diceva Ludwig Feuerbach, ma questa affermazione è riduttiva perché noi dipendiamo più dai criteri orientativi della nostra alimentazione e della nostra capacità di viverne lo spirito che non da quello che mangiamo: potremmo dire «siamo ciò che mangiamo e come lo mangiamo». Occorre infatti fare del pasto un’occasione di piacere, un rito creatore di senso e di esperienze, anche di esperienze spirituali in cui mangiare in comunione e conoscere Dio diventano la stessa cosa. 

CONDIVIDERE PER CONVIVERE 

Plutarco fa dire a un personaggio delle sue Dispute conviviali (II,10): «Noi uomini non ci nutriamo l’un l’altro semplicemente per mangiare e bere, ma per mangiare e bere insieme». Tale aspetto è decisivo: per questo il cibo per noi umani è evento culturale che sa soprattutto produrre convivio che, come dice la parola, è cum vivere, vivere insieme e quindi com-munitas, cioè mettere insieme i doni, ilmunus che ciascuno ha, oppure il debito (anch’esso munus) che ciascuno ha verso l’altro. Condividere per convivere!  

È proprio a causa di questa valenza del cibo che nella Bibbia la pienezza di vita è stata espressa dall’immagine del banchetto. Dal banchetto messianico promesso già dai profeti come banchetto del regno di Dio: «Il Signore dell’universo preparerà per tutti i popoli un banchetto di cibi abbondanti, un banchetto di vini raffinati, di cibi succulenti, di vini eccellenti» [Is 25,6] al banchetto promesso da Gesù: «Molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» [Mt 8,11; cfr. Lc 13,29], fino ai banchetti raccontati da Gesù nelle parabole come immagini, profezie del regno dei cieli. Dove c’è banchetto, infatti, non c’è solo nutrizione, ma c’è vita piena, condivisione, comunione fra tutti gli esseri umani e fra Dio e l’umanità. La tavola del regno dei cieli ha proprio il Signore Dio come ospite che invita, chiama, offre il banchetto a noi umani, ospiti, invitati, accolti per fare comunione con lui.

La Stampa

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A tavola! Per essere più umani.

di Enzo Bianchi

La tavola, questo mobile sacro che un tempo regnava al centro delle grandi cucine, la tavola di legno massiccio capace di accogliere una decina di commensali (non un tavolino, confinato in un angolo di un cuocivivande!) era eloquente di ciò che si voleva vivere insieme come famiglia o come amici. La tavola, alla quale 'passiamo', non da soli ma con altri, va abitata. A tavola si dovrebbe convergere per mangiare da uomini, non da animali. Per questo la tavola e sempre stata percepita come l’emblema dell’umanizzazione, il luogo per eccellenza in cui ci si umanizza lungo tutta la vita, da quando da piccoli si e ammessi alla tavola ancora sul seggiolone, fino alla vecchiaia. 


Anche in queste due fasi estreme della vita stiamo a tavola, magari aiutati da altri, ma stiamo pur sempre a tavola. Il nostro stare a tavola dice la nostra libertà: libertà di figli in famiglia, libertà di amici che si invitano, libertà di chi serve e qualità «signoriale » di chi è servito. Ma a tavola si sperimenta anche l’uguaglianza, un’uguaglianza ordinata: tutti sono chiamati a mangiare con gli stessi diritti, vecchi e bambini, adulti e giovani; tutti possono prendere la parola, domandare e rispondere. A tavola si impara a parlare oltre che a mangiare, si impara ad ascoltare e a intervenire nella convivialità. 


La tavola ha un magistero decisivo per noi e per ogni essere umano che viene al mondo: ne siamo consapevoli? Sì, la tavola richiede a ciascuno di noi di esserci con tutta la propria persona, con il corpo ma anche con lo spirito. Sappiamo quanto sia spiacevole per i commensali qualcuno che sta fisicamente a tavola, ma in realtà è altrove. Appena ieri si stava a tavola con il giornale aperto accanto al piatto o la televisione accesa davanti a noi, oggi ciascuno guarda il proprio tablet o lo smartphone: come siamo imbarbariti... La tavola, luogo di comunione, del faccia a faccia, dello scambio della parola, in alcuni casi è diventata il luogo della massima estraneità. 


È vero che normalmente si mangia con gli stessi commensali; è vero che in una famiglia, oggi ridotta a due o al massimo a tre persone, sembra che non ci siano parole da scambiare: ma allora è meglio il silenzio che l’assordante televisione che cattura i nostri sguardi, la nostra attenzione, e a poco a poco ci rende non più desiderosi dell’ascolto di chi ci sta davanti. Stare a tavola, abitarla, è un’arte ma è innanzitutto il quotidiano volto contro volto dell’amato/a, del fratello/sorella, dell’amico/ a, dell’altro/a che mangiando con me vive un’azione di comunione straordinaria. Si vive dello stesso cibo, ci si nutre nutrendo le relazioni. La condivisione del cibo è inerente alla nostra condizione di ospiti sulla terra. Omnia sunt communia:le cose e soprattutto i frutti della terra sono di tutti. 


E la tavola, luogo dove gli uomini e le donne non si pascono ma mangiano, non può che essere il luogo della condivisione. Certo, si tratta di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, perché questa è la responsabilità di ogni persona verso chi non ha né pane né acqua per vivere; ma si tratta anche di avere a tavola l’urgenza, il sentimento di «fare comunione » di ciò che si ha davanti. Qui si mostra l’ethos eucaristico di cui ciascuno è capace: basta infatti tendere la mano e prendere la mela più grande e bella, lasciando le meno belle agli altri, per dichiarare la propria non volontà di condivisione. 


Ognuno può consumare ciò che gli spetta, dopo aver condiviso ciò che vi è sulla tavola, altrimenti toglie agli altri, in qualità o quantità, ciò che è destinato a tutti. Non è un caso che i primi cristiani «spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Solo se c’è condivisione, ci possono essere banchetto e festa; solo se la tavola non è chiusa ma aperta a chi bussa, allo straniero, al pellegrino, al povero, è una tavola veramente umana. Si può anche mangiare poco, anche solo pane e vino, ma se lo si condivide è grande festa, è vera comunione! Infine, proprio perché la tavola è fonte di piacere, il mangiare e il bere procurano gioia, allegria. 


Quando vogliamo rallegrarci, fare festa, sentiamo il bisogno di celebrare la vita con un pasto, invitando altri alla nostra tavola. Per la nascita di un figlio o di una figlia, per segnare le tappe del loro crescere, per festeggiare un traguardo da loro raggiunto, per celebrare l’amore, per rallegrarsi con un amico ritrovato, si imbandisce la tavola e si fa un banchetto. E più si vuole festeggiare, più il banchetto è abbondante. Anche Gesú, quando voleva consegnare un’immagine eloquente della vita del regno di Dio, dove non ci saranno più la morte né il lutto né il pianto, ricorreva all’immagine della tavola e del banchetto. 


Un tempo, per gente che pativa la fame, la tavola era un sogno; oggi, che si può mangiare con abbondanza, dentro di noi non vi è spazio per un’immagine più evocativa del banchetto, per esprimere una vita bella, buona, felice, una vita piena. La tavola è l’anticamera dell’amore, un luogo e un momento che non assomiglia a nessun altro, una realtà affettiva e simbolica antica come l’umanità, la possibilità di una comunicazione privilegiata e di una trasfigurazione del quotidiano. Certo, ci vuole sapienza per vivere la tavola, ma la tavola e il cibo hanno la capacità magisteriale di insegnarcela. Mettiamoci alla loro scuola.

Avvenire