giovedì 26 novembre 2015

Visita di Papa Francesco all’United Nations Offices of Nairobi (UNON).



Visita di Papa Francesco all’United Nations Offices of Nairobi (UNON). "Fra pochi giorni inizierà a Parigi una riunione importante sul cambiamento climatico, in cui la comunità internazionale in quanto tale affronterà nuovamente questa problematica. Sarebbe triste e, oserei dire, perfino catastrofico che gli interessi privati prevalessero sul bene comune e arrivassero a manipolare le informazioni per proteggere i loro progetti"
Sala stampa della Santa Sede
[Text: Italiano, English, Español, Français, Portoghese]
Alle ore 17.30 di questo pomeriggio, il Santo Padre Francesco si reca in visita all’United Nations Offices of Nairobi (UNON), quartier generale dell’ONU in Africa, istituito dall’Assemblea Generale nel 1996. Al Suo arrivo è accolto all’ingresso dal Direttore Generale dell’UNON, Sig.ra Sahle-Work Zewde, dal Direttore Esecutivo dell’UNEP, Sig. Achim Steiner, e dal Direttore Esecutivo dell’UN-Habitat, Sig. Joan Clos. Dopo la firma sul Libro d’Oro, il Direttore Generale accompagna il Papa con una piccola vettura elettrica nel parco dove il Santo Padre pianta simbolicamente un albero prima di proseguire verso il nuovo edificio dell’UNEP (United Nations Environment Programme), fino alla Sala delle Conferenze. Qui, introdotto dal saluto del Direttore Generale dell’UNON e dei due Direttori Esecutivi, Papa Francesco pronuncia il discorso che riportiamo di seguito:

Discorso del Santo Padre
Desidero ringraziare per il gentile invito e le parole di benvenuto la Signora Sahle-Work Zewde, Direttore Generale dell’Ufficio delle Nazioni Unite a Nairobi, come pure il Signor Achim Steiner, Direttore Esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, e il Signor Joan Clos, Direttore Esecutivo di ONU-Habitat. Colgo l’occasione per salutare tutto il personale e tutti coloro che collaborano con le istituzioni qui presenti.

Mentre raggiungevo questa sala, sono stato invitato a piantare un albero nel parco del Centro delle Nazioni Unite. Ho voluto accettare questa gesto simbolico e semplice, pieno di significato in molte culture.
Piantare un albero è, in primo luogo, un invito a continuare a lottare contro fenomeni come la deforestazione e la desertificazione. Ci ricorda l’importanza di tutelare e gestire in modo responsabile quei «polmoni del pianeta colmi di biodiversità [come possiamo ben apprezzare in questo continente con] il bacino fluviale del Congo», luoghi essenziali «per l’insieme del pianeta e per il futuro dell’umanità». Per questo, è sempre apprezzato e incoraggiato «l’impegno di organismi internazionali e di organizzazioni della società civile che sensibilizzano le popolazioni e cooperano in modo critico, anche utilizzando legittimi meccanismi di pressione, affinché ogni governo adempia il proprio e non delegabile dovere di preservare l’ambiente e le risorse naturali del proprio Paese, senza vendersi a ambigui interessi locali o internazionali» (Enc. Laudato si’, 38).
A sua volta, piantare un albero ci provoca a continuare ad avere fiducia, a sperare e soprattutto a impegnarci concretamente per trasformare tutte le situazioni di ingiustizia e di degrado che oggi soffriamo.
Fra pochi giorni inizierà a Parigi una riunione importante sul cambiamento climatico, in cui la comunità internazionale in quanto tale affronterà nuovamente questa problematica. Sarebbe triste e, oserei dire, perfino catastrofico che gli interessi privati prevalessero sul bene comune e arrivassero a manipolare le informazioni per proteggere i loro progetti.
In questo contesto internazionale, nei quale si pone l’alternativa che non possiamo ignorare, se cioè migliorare o distruggere l’ambiente, ogni iniziativa intrapresa in tal senso, piccola o grande, individuale o collettiva, per prendersi cura del creato, indica la strada sicura per una «creatività generosa e dignitosa, che mostra il meglio dell’essere umano» (ibid., 211).
«Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti; […] i cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche, e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità» (ibid., 23-25) la cui risposta «deve integrare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei più svantaggiati» (ibid., 93). Dal momento che «l’abuso e la distruzione dell’ambiente, allo stesso tempo, sono associati ad un inarrestabile processo di esclusione» (Discorso all’ONU, 25 settembre 2015).
La COP21 è un passo importante nel processo di sviluppo di un nuovo sistema energetico che dipenda al minimo da combustibili fossili, punti all’efficienza energetica e si basi sull’uso di energia a basso o nullo contenuto di carbonio. Ci troviamo di fronte al grande impegno politico ed economico di reimpostare e correggere le disfunzioni e le distorsioni del modello di sviluppo attuale.
L’accordo di Parigi può dare un segnale chiaro in questa direzione, a condizione che, come ho avuto occasione di dire davanti all’Assemblea Generale dell’ONU, evitiamo «qualsiasi tentazione di cadere in un nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze. Dobbiamo aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci» (ibid.). Per questo spero che la COP21 porti a concludere un accordo globale e “trasformatore”, basato sui principi di solidarietà, giustizia, equità e partecipazione, e orienti al raggiungimento di tre obiettivi, complessi e al tempo stesso interdipendenti: la riduzione dell’impatto dei cambiamenti climatici, la lotta contro la povertà e il rispetto della dignità umana.
Nonostante molte difficoltà, si sta affermando «la tendenza a concepire il pianeta come patria e l’umanità come popolo che abita una casa comune» (Enc. Laudato si’, 164). Nessun paese «può agire al di fuori di una responsabilità comune. Se vogliamo davvero un cambiamento positivo, dobbiamo accettare umilmente la nostra interdipendenza, cioè la nostra sana interdipendenza» (Discorso ai movimenti popolari, 9 luglio 2015). Il problema sorge quando crediamo che l’interdipendenza sia sinonimo di imposizione o sottomissione di alcuni in funzione degli interessi degli altri. Del più debole in funzione del più forte.
È necessario un dialogo sincero e aperto, con la collaborazione responsabile di tutti: autorità politiche, comunità scientifica, imprese e società civile. Non mancano esempi positivi che ci mostrano come una vera collaborazione tra la politica, la scienza e l’economia è in grado di ottenere risultati importanti.
Siamo consapevoli, tuttavia, che «gli esseri umani, capaci di degradarsi fino all’estremo, possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi» (Enc. Laudato si’, 205). Questa presa di coscienza profonda ci porta a sperare che, se l’umanità del periodo post-industriale potrebbe essere ricordata come una delle più irresponsabili nella storia, «l’umanità degli inizi del XXI secolo possa essere ricordata per aver assunto con generosità le proprie gravi responsabilità» (ibid., 165).
A tale scopo è necessario mettere l’economia e la politica al servizio dei popoli dove «l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione affinché le capacità e le esigenze di ciascuno trovino espressione adeguata nella dimensione sociale» (Discorso ai movimenti popolari, 9 luglio 2015). Non è un’utopia o una fantasia, al contrario è una prospettiva realistica che pone la persona e la sua dignità come punto di partenza e verso cui tutto deve tendere.
Il cambio di rotta di cui abbiamo bisogno non è possibile realizzarlo senza un impegno sostanziale nell’istruzione e nella formazione. Nulla sarà possibile se le soluzioni politiche e tecniche non vengono accompagnate da un processo educativo che promuova nuovi stili di vita. Un nuovo stile culturale. Ciò richiede una formazione destinata a far crescere nei bambini e nelle bambine, nelle donne e negli uomini, nei giovani e negli adulti, l’assunzione di una cultura della cura: cura di sé, cura degli altri, cura dell’ambiente, al posto della cultura del degrado e dello scarto: scarto di sé, dell’altro, dell’ambiente. La promozione della «coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Emerge così una grande sfida culturale, spirituale e educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione» (Enc. Laudato si’, 202) che abbiamo il tempo di portare avanti.
Sono molti i volti, le storie, le conseguenze evidenti in migliaia di persone che la cultura del degrado e dello scarto ha portato a sacrificare agli idoli del profitto e del consumo. Dobbiamo stare attenti a un triste segno della «globalizzazione dell’indifferenza, che ci fa lentamente “abituare” alla sofferenza dell’altro, quasi fosse normale» (Messaggio per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2013, 16 ottobre 2013, 2), o peggio ancora, a rassegnarci alle forme estreme e scandalose di “scarto” e di esclusione sociale, come sono le nuove forme di schiavitù, il traffico delle persone, il lavoro forzato, la prostituzione, il traffico di organi. «E’ tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa» (Enc. Laudato si’, 25). Sono molte vite, molte storie, molti sogni che naufragano nel nostro presente. Non possiamo rimanere indifferenti davanti a questo. Non ne abbiamo il diritto.
Parallelamente al degrado dell’ambiente, da tempo siamo testimoni di un rapido processo di urbanizzazione, che purtroppo porta spesso a una «smisurata e disordinata crescita di molte città che sono diventate invivibili [e …] inefficienti» (ibid., 44). E sono anche luoghi dove si diffondono preoccupanti sintomi di una tragica rottura dei legami di integrazione e di comunione sociale, che porta all’«aumento della violenza e il sorgere di nuove forme di aggressività sociale, il narcotraffico e il consumo crescente di droghe fra i più giovani, la perdita di identità» (ibid., 46), lo sradicamento e l’anonimato sociale (cfr ibid., 149).
Voglio esprimere il mio incoraggiamento a quanti, a livello locale e internazionale, lavorano per assicurare che il processo di urbanizzazione si converta in uno strumento efficace per lo sviluppo e l’integrazione, al fine di assicurare a tutti, specialmente a coloro che vivono in quartieri marginali, condizioni di vita dignitose, garantendo i diritti fondamentali alla terra, alla casa e al lavoro. E’ necessario promuovere iniziative di pianificazione urbana e cura degli spazi pubblici che vadano in questa direzione e prevedano la partecipazione della gente del luogo, cercando di contrastare le numerose disuguaglianze e le sacche di povertà urbana, non solo economiche, ma anche e soprattutto sociali e ambientali. La prossima Conferenza Habitat-III, in programma a Quito nel mese di ottobre 2016, potrebbe essere un momento importante per individuare modi di affrontare queste problematiche.
Fra pochi giorni, questa città di Nairobi ospiterà la 10ª Conferenza Ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Nel 1967, di fronte ad un mondo sempre più interdipendente, e anticipando di anni la realtà attuale della globalizzazione, il mio predecessore Paolo VI rifletteva su come le relazioni commerciali tra gli Stati potrebbero essere un elemento fondamentale per lo sviluppo dei popoli o, al contrario, causa di miseria e di esclusione (cfr Enc. Populorum progressio, 56-62). Pur riconoscendo il molto lavoro fatto in questo settore, sembra che non si sia ancora raggiunto un sistema commerciale internazionale equo e completamente al servizio della lotta contro la povertà e l’esclusione. Le relazioni commerciali tra gli Stati, parte essenziale delle relazioni tra i popoli, possono servire sia a danneggiare l’ambiente sia a recuperarlo e assicurarlo alle generazioni future.
Esprimo il mio auspicio che le decisioni della prossima Conferenza di Nairobi non siano un mero equilibrio di interessi contrapposti, ma un vero servizio alla cura della casa comune e allo sviluppo integrale delle persone, soprattutto dei più abbandonati. In particolare, voglio unirmi alle preoccupazioni di molte realtà impegnate nella cooperazione allo sviluppo e nell’assistenza sanitaria - tra cui le congregazioni religiose che assistono i più poveri e gli esclusi -, circa gli accordi sulla proprietà intellettuale e l’accesso ai farmaci e all’assistenza sanitaria di base. I Trattati regionali di libero scambio in materia di protezione della proprietà intellettuale, in particolare nel settore farmaceutico e delle biotecnologie, non solo non devono limitare i poteri già conferiti agli
Stati da accordi multilaterali, ma, al contrario, dovrebbero essere uno strumento per garantire un minimo di cura e di accesso alle cure essenziali per tutti. Le discussioni multilaterali, a loro volta, devono dare ai Paesi più poveri il tempo, l’elasticità e le eccezioni necessarie ad un adeguamento ordinato e non traumatico alle regole commerciali. L’interdipendenza e l’integrazione delle economie non devono comportare il minimo danno ai sistemi sanitari e di protezione sociale esistenti; al contrario, devono favorire la loro creazione e il funzionamento. Alcuni temi sanitari, come l’eliminazione della malaria e della tubercolosi, la cura delle cosiddette malattie “orfane” e i settori trascurati della medicina tropicale, richiedono un’attenzione politica prioritaria, al di sopra di qualsiasi altro interesse commerciale o politico.
L’Africa offre al mondo una bellezza e una ricchezza naturale che ci porta a lodare il Creatore. Questo patrimonio africano e di tutta l’umanità subisce un costante rischio di distruzione causato da egoismi umani di ogni tipo e dall’abuso di situazioni di povertà e di esclusione. Nel contesto delle relazioni economiche tra gli Stati e i popoli non si può omettere di parlare dei traffici illeciti che crescono in un contesto di povertà e che, a loro volta, alimentano la povertà e l’esclusione. Il commercio illegale di diamanti e pietre preziose, di metalli rari o di alto valore strategico, di legname e materiale biologico, e di prodotti di origine animale, come il caso del traffico di avorio e il conseguente sterminio di elefanti, alimenta l’instabilità politica, la criminalità organizzata e il terrorismo. Anche questa situazione è un grido degli uomini e della terra che dev’essere ascoltato da parte della comunità internazionale.
Nella mia recente visita alla sede dell’ONU a New York, ho potuto esprimere l’auspicio e la speranza che l’opera delle Nazioni Unite e di tutti i processi multilaterali possa essere «pegno di un futuro sicuro e felice per le generazioni future. Lo sarà se i rappresentanti degli Stati sapranno mettere da parte interessi settoriali e ideologie e cercare sinceramente il servizio del bene comune» (Discorso all’ONU, 25 settembre 2015).
Rinnovo ancora una volta l’impegno della Comunità Cattolica e il mio di continuare a pregare e collaborare perché i frutti della cooperazione regionale che si esprimono oggi in seno all’Unione Africana e nei molti accordi africani di commercio, di cooperazione e di sviluppo, siano vissuti con vigore e tenendo sempre conto del bene comune dei figli di questa terra.
La benedizione dell’Altissimo sia su tutti e ciascuno di voi e sui vostri popoli. Grazie.
Spagnolo
Deseo agradecer la amable invitación y las palabras de acogida de la Señora Sahle-Work Zewde, Directora General de la Oficina de las Naciones Unidas en Nairobi, como también del Señor Achim Steiner, Director Ejecutivo del Programa de las Naciones Unidas para el Medio Ambiente, y del Señor Joan Clos, Director Ejecutivo del Programa ONU–Hábitat. Aprovecho la ocasión para saludar a todo el personal y a todos los que colaboran con las instituciones aquí presentes.
De camino hacia esta sala me han invitado a plantar un árbol en el parque del Centro de las Naciones Unidas. Quise aceptar este gesto simbólico y sencillo, cargado de significado en tantas culturas.
Plantar un árbol es, en primera instancia, una invitación a seguir luchando contra fenómenos como la deforestación y la desertificación. Nos recuerda la importancia de tutelar y administrar responsablemente aquellos «pulmones del planeta repletos de biodiversidad [como bien lo podemos apreciar en este continente con] la cuenca fluvial del Congo», lugar esencial «para la totalidad del planeta y para el futuro de la humanidad». Por eso, es siempre apreciada y alentada «la tarea de organismos internacionales y de organizaciones de la sociedad civil que sensibilizan a las poblaciones y cooperan críticamente, también utilizando legítimos mecanismos de presión, para que cada gobierno cumpla con su propio e indelegable deber de preservar el ambiente y los recursos naturales de su país, sin venderse a intereses espurios locales o internacionales» (Carta enc. Laudato si’, 38).
A su vez, plantar un árbol nos provoca a seguir confiando, esperando y especialmente comprometiendo nuestras manos para revertir todas las situaciones de injusticia y deterioro que hoy padecemos.
Dentro de pocos días comenzará en París un importante encuentro sobre el cambio climático, donde la comunidad internacional como tal, se enfrentará de nuevo a esta problemática. Sería triste y me atrevo a decir, hasta catastrófico, que los intereses particulares prevalezcan sobre el bien común y lleven a manipular la información para proteger sus proyectos.
En este contexto internacional, donde se nos plantea la disyuntiva que no podemos ignorar de mejorar o destruir el ambiente, cada iniciativa tomada en este sentido, pequeña o grande, individual o colectiva, para cuidar la creación indica el camino seguro para esa «generosa y digna creatividad, que muestra lo mejor del ser humano» (ibíd., 211).
«El clima es un bien común, de todos y para todos; […] el cambio climático es un problema global con graves dimensiones ambientales, sociales, económicas, distributivas y políticas, y plantea uno de los principales desafíos actuales para la humanidad» (ibíd., 23-25) cuya respuesta «debe incorporar una perspectiva social que tenga en cuenta los derechos fundamentales de los más postergados» (ibíd., 93). Ya que «el abuso y la destrucción del ambiente, al mismo tiempo, va acompañado por un imparable proceso de exclusión» (Discurso a la ONU, 25 septiembre 2015).
La COP21 es un paso importante en el proceso de desarrollo de un nuevo sistema energético, que dependa al mínimo de los combustibles fósiles, busque la eficiencia energética y se estructure con el uso de energía con bajo o nulo contenido de carbono. Estamos ante el gran compromiso político y económico de replantear y corregir las disfunciones y distorsiones del actual modelo de desarrollo.
El Acuerdo de París puede dar una señal clara en esta dirección, siempre que, como ya tuve ocasión de decir ante la Asamblea General de la ONU, evitemos «toda tentación de caer en un nominalismo declaracionista con efecto tranquilizador en las conciencias. Debemos cuidar que nuestras instituciones sean realmente efectivas» (ibíd.). Por eso, espero que la COP21 lleve a concluir un acuerdo global y «transformador» basado en los principios de solidaridad, justicia, equidad y participación, y orientando a la consecución de tres objetivos, a la vez complejos e interdependientes: el alivio del impacto del cambio climático, la lucha contra la pobreza y el respeto de la dignidad humana.
A pesar de muchas dificultades, se está afirmando la «tendencia a concebir el planeta como patria y la humanidad como pueblo que habita una casa de todos» (Carta enc. Laudato si’, 164). Ningún país «puede actuar al margen de una responsabilidad común. Si realmente queremos un cambio positivo, tenemos que asumir humildemente nuestra interdependencia» (Discurso a los movimientos populares, 9 julio 2015). El problema surge cuando creemos que interdependencia es sinónimo de imposición o sumisión de unos en función de los intereses de los otros. Del más débil en función del más fuerte.
Es necesario un diálogo sincero y abierto, con la cooperación responsable de todos: autoridades políticas, comunidad científica, empresas y sociedad civil. No faltan ejemplos positivos que nos demuestran cómo una verdadera colaboración entre la política, la ciencia y la economía es capaz de lograr importantes resultados.
Somos conscientes, sin embargo, de que los «seres humanos, capaces de degradarse hasta el extremo, también pueden sobreponerse, volver a optar por el bien y regenerarse» (Carta enc. Laudato si’, 205). Esta toma de conciencia profunda nos lleva a esperar que, si la humanidad del período post-industrial podría ser recordada como una de las más irresponsables de la historia, «la humanidad de comienzos del siglo XXI [sea] recordada por haber asumido con generosidad sus graves responsabilidades» (ibíd., 165).
Para eso es necesario poner la economía y la política al servicio de los pueblos donde «el ser humano, en armonía con la naturaleza, estructura todo el sistema de producción y distribución para que las capacidades y las necesidades de cada uno encuentren un cauce adecuado en el ser social» (Discurso a los movimientos populares, 9 julio 2015). No se trata de una utopía fantástica, por el contrario, una perspectiva realista que pone la persona y su dignidad como punto de partida y hacia donde todo tiene que fluir.
El cambio de rumbo que necesitamos no es posible realizarlo sin un compromiso sustancial por la educación y la formación. Nada será posible si las soluciones políticas y técnicas no van acompañadas de un proceso de educación que promueva nuevos estilos de vida. Un nuevo estilo cultural. Esto exige una formación destinada a fomentar en niños y niñas, mujeres y hombres, jóvenes y adultos, la asunción de una cultura del cuidado; cuidado de sí, cuidado del otro, cuidado del ambiente; en lugar de la cultura de la degradación y del descarte. Descarte de sí, del otro, del ambiente. La promoción de la «conciencia de un origen común, de una pertenencia mutua y de un futuro compartido por todos [nos] permitiría el desarrollo de nuevas convicciones, actitudes y formas de vida. [Es] un gran desafío cultural, espiritual y educativo que supondrá largos procesos de regeneración» (Carta enc. Laudato si’, 202), que estamos a tiempo de impulsar.
Son muchos los rostros, las historias, las consecuencias evidentes en miles de personas que la cultura del degrado y del descarte ha llevado a sacrificar bajo los ídolos de las ganancias y del consumo. Debemos cuidarnos de un triste signo de la «globalización de la indiferencia, que nos va “acostumbrando” lentamente al sufrimiento de los otros, como si fuera algo normal» (Mensaje para la Jornada Mundial de la Alimentación 2013, 16 octubre 2013, 2), o peor aún, a resignarnos ante las formas extremas y escandalosas de “descarte” y de exclusión social, como son las nuevas formas de esclavitud, el tráfico de personas, el trabajo forzado, la prostitución, el tráfico de órganos. «Es trágico el aumento de los migrantes huyendo de la miseria empeorada por la degradación ambiental, que no son reconocidos como refugiados en las convenciones internacionales y llevan el peso de sus vidas abandonadas sin protección normativa alguna» (Carta enc. Laudato si’, 25). Son muchas vidas, son muchas historias, son muchos sueños que naufragan en nuestro presente. No podemos permanecer indiferentes ante esto. No tenemos derecho.
En paralelo al descuido del ambiente, desde hace tiempo somos testigos de un rápido proceso de urbanización, que por desgracia conduce con frecuencia a un «crecimiento desmedido y desordenado de muchas ciudades que se han hecho insalubres [e …] ineficientes» (ibíd., 44). Y son también lugares donde se difunden síntomas preocupantes de una trágica rotura de los vínculos de integración y de comunión social, que lleva al «crecimiento de la violencia y [al] surgimiento de nuevas formas de agresividad social, [al] narcotráfico y [al] consumo creciente de drogas entre los más jóvenes, [a] la pérdida de identidad» (ibíd., 46), al desarraigo y al anonimato social (cf. ibíd, 149).
Quiero expresar mi aliento a cuantos, a nivel local e internacional, trabajan para asegurar que el proceso de urbanización se convierta en un instrumento eficaz para el desarrollo y la integración, a fin de garantizar a todos, y en especial a las personas que viven en barrios marginales, condiciones de vida dignas, garantizando los derechos básicos a la tierra, al techo y al trabajo. Es necesario fomentar iniciativas de planificación urbana y del cuidado de los espacios públicos que vayan en esta dirección y contemplen la participación de la gente del lugar, tratando de contrarrestar las muchas desigualdades y los bolsones de pobreza urbana, no sólo económicos, sino también y sobre todo sociales y ambientales. La futura Conferencia Hábitat-III, prevista en Quito para octubre de 2016, podría ser un momento importante para identificar maneras de responder a estas problemáticas.
Dentro de pocos días, esta ciudad de Nairobi, será sede de la 10ª Conferencia Ministerial de la Organización Mundial del Comercio. En 1967, frente a un mundo cada vez más interdependiente, y anticipándose en años a la presente realidad de la globalización, mi predecesor Pablo VI reflexionaba sobre cómo las relaciones comerciales entre los Estados podrían ser un elemento fundamental para el desarrollo de los pueblos o, por el contrario, causa de miseria y de exclusión (cf. Carta enc. Populorum progressio, 56-62). Aun reconociendo lo mucho que se ha trabajado en esta materia, parece que no se ha llegado todavía a un sistema comercial internacional equitativo y totalmente al servicio de la lucha contra la pobreza y la exclusión. Las relaciones comerciales entre los Estados, parte indispensable de las relaciones entre los pueblos, pueden servir tanto para dañar el ambiente como para recuperarlo y asegurarlo para las generaciones futuras.
Expreso mi deseo de que las deliberaciones de la próxima Conferencia de Nairobi no sean un simple equilibrio de intereses contrapuestos, sino un verdadero servicio al cuidado de la casa común y al desarrollo integral de las personas, especialmente de los más postergados. En particular, quiero unirme a las preocupaciones tantas realidades comprometidas en la cooperación al desarrollo y en la asistencia sanitaria –entre ellos las congregaciones religiosas que asisten a los más pobres y excluidos–, acerca de los acuerdos sobre la propiedad intelectual y el acceso a las medicinas y cuidados esenciales de la salud. Los Tratados de libre comercio regionales sobre la protección de la propiedad intelectual, en particular en materia farmacéutica y de biotecnología, no sólo no deben limitar las facultades ya otorgadas a los Estados por los acuerdos multilaterales, sino que, al contrario, deberían ser un instrumento para asegurar un mínimo de atención sanitaria y de acceso a los remedios básicos para todos. Las discusiones multilaterales, a su vez, deben dar a los países más pobres el tiempo, la elasticidad y las excepciones necesarias para una adecuación ordenada y no traumática a las normas comerciales. La interdependencia y la integración de las economías no debe suponer el más mínimo detrimento de los sistemas de salud y de protección social existentes; al contrario, deben favorecer su creación y funcionamiento. Algunos temas sanitarios, como la eliminación de la malaria y la tuberculosis, la cura de las llamadas enfermedades «huérfanas» y los sectores de la medicina tropical desatendidos, reclaman una atención política primaria, por encima de cualquier otro interés comercial o político.
África ofrece al mundo una belleza y una riqueza natural que nos lleva a alabar al Creador. Este patrimonio africano y de toda la humanidad sufre un constante riesgo de destrucción, causado por egoísmos humanos de todo tipo y por el abuso de situaciones de pobreza y exclusión. En el contexto de las relaciones económicas entre los Estados y los pueblos no se puede dejar de hablar
de los tráficos ilegales que crecen en un ambiente de pobreza y que, a su vez alimentan la pobreza y la exclusión. El comercio ilegal de diamantes y piedras preciosas, de metales raros o de alto valor estratégico, de maderas y material biológico, y de productos animales, como el caso del tráfico de marfil y la consecuente matanza de elefantes, alimenta la inestabilidad política, el crimen organizado y el terrorismo. También esta situación es un grito de los hombres y de la tierra que tiene que ser escuchado por la Comunidad Internacional.
En mi reciente visita a la sede de la ONU en Nueva York, pude expresar el deseo y la esperanza de que la obra de las Naciones Unidas y de todos los desarrollos multilaterales pueda ser «prenda de un futuro seguro y feliz para las generaciones futuras. Lo será si los representantes de los Estados sabrán dejar de lado los intereses sectoriales e ideologías, y buscar sinceramente el servicio al bien común» (Discurso a la ONU, 25 septiembre 2015).
Renuevo una vez más el apoyo de la Comunidad Católica, y el mío de seguir rezando y colaborando para que los frutos de la cooperación regional que se expresan hoy en la Unión Africana y en los muchos acuerdos africanos de comercio, cooperación y desarrollo sean vividos con vigor y teniendo siempre en cuenta el bien común de los hijos de esta tierra.
La bendición del Altísimo sea con todos y cada uno de ustedes y sus pueblos. Gracias.
Inglese
I would like to thank Madame Sahle-Work Zewde, Director-General of the United Nations Office at Nairobi, for her kind invitation and words of welcome, as well as Mr Achim Steiner, Executive Director of the United Nations Environment Programme, and Mr. Joan Clos, Executive Director of UN-Habitat. I take this occasion to greet the personnel and all those associated with the institutions who are here present.
On my way to this hall, I was asked to plant a tree in the park of the United Nations Centre. I was happy to carry out this simple symbolic act, which is so meaningful in many cultures.
Planting a tree is first and foremost an invitation to continue the battle against phenomena like deforestation and desertification. It reminds us of the importance of safeguarding and responsibly administering those “richly biodiverse lungs of our planet”, which include, on this continent, “the Congo basins”, a place essential “for the entire earth and for the future of humanity”. It also points to the need to appreciate and encourage “the commitment of international agencies and civil society organizations which draw public attention to these issues and offer critical cooperation, employing legitimate means of pressure, to ensure that each government carries out its proper and inalienable responsibility to preserve its country’s environment and natural resources, without capitulating to spurious local or international interests” (Laudato Si’, 38).
Planting a tree is also an incentive to keep trusting, hoping, and above all working in practice to reverse all those situations of injustice and deterioration which we currently experience.
In a few days an important meeting on climate change will be held in Paris, where the international community as such will once again confront these issues. It would be sad, and I dare say even catastrophic, were particular interests to prevail over the common good and lead to manipulating information in order to protect their own plans and projects.
In this international context, we are confronted with a choice which cannot be ignored: either to improve or to destroy the environment. Every step we take, whether large or small, individual or collective, in caring for creation opens a sure path for that “generous and worthy creativity which brings out the best in human beings” (ibid., 211).
“The climate is a common good, belonging to all and meant for all”; “climate change is a global problem with grave implications: environmental, social, economic, political and for the distribution of goods; it represents one of the principal challenges facing humanity in our day” (ibid., 23 and 25). Our response to this challenge “needs to incorporate a social perspective which takes into account the fundamental rights of the poor and the underprivileged” (ibid., 93). For “the misuse and destruction of the environment are also accompanied by a relentless process of exclusion” (Address to the United Nations, 25 September 2015).
COP21 represents an important stage in the process of developing a new energy system which depends on a minimal use of fossil fuels, aims at energy efficiency and makes use of energy sources with little or no carbon content. We are faced with a great political and economic obligation to rethink and correct the dysfunctions and distortions of the current model of development.
The Paris Agreement can give a clear signal in this direction, provided that, as I stated before the UN General Assembly, we avoid “every temptation to fall into a declarationist nominalism which would assuage our consciences. We need to ensure that our institutions are truly effective” (ibid.). For this reason, I express my hope that COP21 will achieve a global and “transformational” agreement based on the principles of solidarity, justice, equality and participation; an agreement which targets three complex and interdependent goals: lessening the impact of climate change, fighting poverty and ensuring respect for human dignity.
For all the difficulties involved, there is a growing “conviction that our planet is a homeland and that humanity is one people living in a common home” (Laudato Si’, 164). No country “can act independently of a common responsibility. If we truly desire positive change, we have to humbly accept our interdependence” (Address to Popular Movements, 9 July 2015). The problem arises whenever we think of interdependence as a synonym for domination, or the subjection of some to the interests of others, of the powerless to the powerful.
What is needed is sincere and open dialogue, with responsible cooperation on the part of all: political authorities, the scientific community, the business world and civil society. Positive examples are not lacking; they demonstrate that a genuine cooperation between politics, science and business can achieve significant results.
At the same time we believe that “human beings, while capable of the worst, are also capable of rising above themselves, choosing again what is good and making a new start” (Laudato Si’, 205). This conviction leads us to hope that, whereas the post-industrial period may well be remembered as one of the most irresponsible in history, “humanity at the dawn of the twenty-first century will be remembered for having generously shouldered its grave responsibilities” (ibid., 165). If this is to happen, the economy and politics need to be placed at the service of peoples, with the result that “human beings, in harmony with nature, structure the entire system of production and distribution in such a way that the abilities and needs of each individual find suitable expression in social life”. Far from an idealistic utopia, this is a realistic prospect which makes the human person and human dignity the point of departure and the goal of everything (cf. Address to Popular Movements, 9 July 2015).
This much-needed change of course cannot take place without a substantial commitment to education and training. Nothing will happen unless political and technical solutions are accompanied by a process of education which proposes new ways of living. A new culture. This calls for an educational process which fosters in boys and girls, women and men, young people and adults, the adoption of a culture of care – care for oneself, care for others, care for the environment – in place of a culture of waste, a “throw-away culture” where people use and discard themselves, others and the environment. By promoting an “awareness of our common origin, of our mutual belonging, and of the future to be shared with everyone”, we will favour the development of new convictions, attitudes and lifestyles. “A great cultural, spiritual and educational challenge stands before us, and it will demand that we set out on the long path of renewal” (Laudato Si’, 202). We still have time.
Many are the faces, the stories and the evident effects on the lives of thousands of persons whom the culture of deterioration and waste has allowed to be sacrificed before the idols of profits and consumption. We need to be alert to one sad sign of the “globalization of indifference”: the fact that we are gradually growing accustomed to the suffering of others, as if it were something normal (cf. Message for World Food Day, 16 October 2013, 2), or even worse, becoming resigned to such extreme and scandalous kinds of “using and discarding” and social exclusion as new forms of slavery, human trafficking, forced labour, prostitution and trafficking in organs. “There has been a tragic rise in the number of migrants seeking to flee from the growing poverty aggravated by environmental degradation. They are not recognized by international conventions as refugees; they bear the loss of the lives they have left behind without enjoying any legal protection whatsoever” (Laudato Si’, 25). Many lives, many stories, many dreams have been shipwrecked in our day. We cannot remain indifferent in the face of this. We have no right.
Together with neglect of the environment, we have witnessed for some time now a rapid process of urbanization, which in many cases has unfortunately led to a “disproportionate and unruly growth of many cities which have become unhealthy to live in [and] inefficient” (ibid., 44). There we increasingly see the troubling symptoms of a social breakdown which spawns “increased violence and a rise in new forms of social aggression, drug trafficking, growing drug use by young people, loss of identity” (ibid., 46), a lack of rootedness and social anonymity (cf. ibid., 149).
Here I would offer a word of encouragement to all those working on the local and international levels to ensure that the process of urbanization becomes an effective means for development and integration. This means working to guarantee for everyone, especially those living in outlying neighbourhoods, the basic rights to dignified living conditions and to land, lodging and labour. There is a need to promote projects of city planning and maintenance of public areas which move in this direction and take into consideration the views of local residents; this will help to eliminate the many instances of inequality and pockets of urban poverty which are not simply economic but also, and above all, social and environmental. The forthcoming Habitat-III Conference, planned for Quito in October 2016, could be a significant occasion for identifying ways of responding to these issues.
In a few days, Nairobi will host the 10th Ministerial Conference of the World Trade Organization. In 1967, my predecessor Pope Paul VI, contemplating an increasingly interdependent world and foreseeing the current reality of globalization, reflected on how commercial relationships between States could prove a fundamental element for the development of peoples or, on the other hand, a cause of extreme poverty and exclusion (Populorum Progressio, 56-62). While recognizing that much has been done in this area, it seems that we have yet to attain an international system of commerce which is equitable and completely at the service of the battle against poverty and exclusion. Commercial relationships between States, as an indispensable part of relations between peoples, can do as much to harm the environment as to renew it and preserve it for future generations.
It is my hope that the deliberations of the forthcoming Nairobi Conference will not be a simple balancing of conflicting interests, but a genuine service to care of our common home and the integral development of persons, especially those in greatest need. I would especially like to echo the concern of all those groups engaged in projects of development and health care – including those religious congregations which serve the poor and those most excluded – with regard to agreements on intellectual property and access to medicines and essential health care. Regional free trade treaties dealing with the protection of intellectual property, particularly in the areas of pharmaceutics and biotechnology, should not only maintain intact the powers already granted to States by multilateral agreements, but should also be a means for ensuring a minimum of health care and access to basic treatment for all. Multilateral discussions, for their part, should allow poorer countries the time, the flexibility and the exceptions needed for them to comply with trade regulations in an orderly and relatively smooth manner. Interdependence and the integration of economies should not bear the least detriment to existing systems of health care and social security; instead, they should promote their creation and good functioning. Certain health issues, like the elimination of malaria and tuberculosis, treatment of so-called orphan diseases, and neglected sectors of tropical medicine, require urgent political attention, above and beyond all other commercial or political interests.
Africa offers the world a beauty and natural richness which inspire praise of the Creator. This patrimony of Africa and of all mankind is constantly exposed to the risk of destruction caused by human selfishness of every type and by the abuse of situations of poverty and exclusion. In the context of economic relationships between States and between peoples, we cannot be silent about forms of illegal trafficking which arise in situations of poverty and in turn lead to greater poverty and exclusion. Illegal trade in diamonds and precious stones, rare metals or those of great strategic value, wood, biological material and animal products, such as ivory trafficking and the relative killing of elephants, fuels political instability, organized crime and terrorism. This situation too is a cry rising up from humanity and the earth itself, one which needs to be heard by the international community.
In my recent visit to the United Nations Headquarters in New York, I expressed the desire and hope that the work of the United Nations and of all its multilateral activities may be “the pledge of a secure and happy future for future generations. And so it will, if the representatives of the States can set aside partisan and ideological interests, and sincerely strive to serve the common good” (Address to the UN, 25 September 2015).
Once again I express the support of the Catholic community, and my own, to continue to pray and work that the fruits of regional cooperation, expressed today in the African Union and the many African agreements on commerce, cooperation and development, may be vigorously pursued and always take into account the common good of the sons and daughters of this land.
May the blessing of the Most High be with each of you and your peoples. Thank you.
Francese
Je voudrais remercier pour l’aimable invitation et pour les paroles de bienvenue de Madame Sahle-Work Zewde, Directrice Générale de l’Office des Nations Unies à Nairobi, ainsi que de Monsieur Achim Steiner, Directeur Exécutif du programme des Nations pour l’Environnement, et de Monsieur Joan Clos, Directeur Exécutif du Programme ONU – Habitat. Je profite de l’occasion pour saluer tout le personnel et tous ceux qui collaborent avec les institutions ici présentes.
En route vers cette salle, j’ai été invité à planter un arbre dans le parc du Centre des Nations Unies. J’ai accepté d’accomplir ce geste symbolique et simple, chargé de sens dans beaucoup de cultures.
Planter un arbre, c’est d’abord une invitation à continuer de lutter contre des phénomènes tels que la déforestation et la désertification. Cela nous rappelle l’importance de protéger et d’administrer de façon responsable ces « poumons de la planète pleins de biodiversité [comme nous pouvons bien l’apprécier dans ce continent avec] le bassin du fleuve Congo », lieu important « pour toute la planète et pour l’avenir de l’humanité ». C’est pourquoi, elle est toujours appréciée et encouragée, « la tâche des organismes internationaux et des organisations de la société civile qui sensibilisent les populations et coopèrent de façon critique, en utilisant aussi des mécanismes de pression légitimes, pour que chaque gouvernement accomplisse son propre et intransférable devoir de préserver l’environnement ainsi que les ressources naturelles de son pays, sans se vendre à des intérêts illégitimes locaux ou internationaux » (Laudato Si’, n. 38).
En outre, planter un arbre nous invite à continuer d’avoir confiance, d’espérer et surtout de consentir à des efforts pour inverser toutes les situations d’injustice et de détérioration dont nous souffrons aujourd’hui.
Dans quelques jours, commencera à Paris une importante rencontre sur le changement climatique, où la communauté internationale, en tant que telle, se confrontera de nouveau à cette problématique. Ce serait triste et j’ose le dire, catastrophique, que les intérêts particuliers l’emportent sur le bien commun et conduisent à manipuler l’information pour protéger leurs projets.
Dans ce contexte international, où nous sommes devant une alternative que nous ne pouvons pas ignorer – améliorer ou détruire l’environnement –, chaque initiative, petite ou grande, individuelle ou collective, prise pour sauvegarder la création indique le chemin sûr de cette « créa-tivité généreuse et digne, qui révèle le meilleur de l’être humain » (Ibid., n. 211).
«Le climat est un bien commun, de tous et pour tous ; […] le changement climatique est un problème global aux graves répercussions environnementales, sociales, économiques, distributives ainsi que politiques, et constitue l’un des principaux défis actuels pour l’humanité » (Ibid., nn. 23-25), dont la réponse « doit incorporer une perspective sociale qui prenne en compte les droits fondamentaux des plus défavorisés » (Ibid., n. 93). Car « l’abus et la destruction de l’environnement sont en même temps accompagnés par un processus implacable d’exclusion » (Discours à l’ONU, 25 septembre 2015).
La COP21 est un pas important dans le processus de développement d’un nouveau système énergétique, qui dépende le moins possible des combustions fossiles, vise l’efficacité énergétique et se structure grâce à l’utilisation d’énergie au contenu en carbone réduit ou nul. Nous sommes face au grand engagement politique et économique qui consiste à reconsidérer et à corriger les dysfonctionnements et les distorsions du modèle de développement actuel.
L’Accord de Paris peut envoyer un signal clair dans cette direction, à condition que, comme j’ai déjà eu l’occasion de le dire à l’Assemblée Générale de l’ONU, nous évitions la « tentation de tomber dans un nominalisme de déclarations à effet tranquillisant sur les consciences. Nous devons veiller à ce que nos institutions soient réellement efficaces » (Ibid.). C’est pourquoi j’espère que la COP21 débouchera sur la conclusion d’un accord global et ‘‘transformateur’’ fondé sur les principes de solidarité, de justice, d’équité et de participation, et qui oriente vers la réalisation de trois objectifs, à la fois complexes et interdépendants : l’allègement de l’impact du changement climatique, la lutte contre la pauvreté et le respect de la dignité humaine.
Malgré de nombreuses difficultés, s’affirme la « tendance à concevoir la planète comme une patrie, et l’humanité comme un peuple qui habite une maison commune » (Laudato Si’, n. 164). Aucun pays « ne peut agir en marge d'une responsabilité commune. Si nous voulons réellement un changement positif, nous devons humblement assumer notre interdépendance» (Discours aux mouvements populaires, 9 juillet 2015). Le problème naît lorsque nous croyons qu’interdépendance
est synonyme d’imposition ou de soumission de quelques-uns aux intérêts des autres. Du plus faible au plus fort.
Un dialogue sincère et ouvert est nécessaire, avec la coopération responsable de tous : autorités politiques, communauté scientifique, entreprises et société civile. Les exemples positifs ne manquent pas qui nous démontrent comment une vraie collaboration entre la politique, la science et l’économie est capable d’obtenir d’importants résultats.
Nous sommes conscients, cependant, que les « êtres humains, capables de se dégrader à l’extrême, peuvent aussi se surmonter, opter de nouveau pour le bien et se régénérer » (Laudato Si’, n. 205). Cette profonde prise de conscience nous conduit à espérer que, si l’humanité de la période post-industrielle pourrait laisser le souvenir de l’une des plus irresponsables de l’histoire, « l’huma-nité du début du XXIème siècle pourra rester dans les mémoires pour avoir assumé avec générosité ses graves responsabilités » (Ibid., n. 165). Pour cela, il est nécessaire de mettre au service des peuples l’économie et la politique où « l'être humain, en harmonie avec la nature, structure tout le système de production et de distribution pour que les capacités et les nécessités de chacun trouvent une place appropriée dans l'être social » (Discours aux mouvements populaires, 9 juin 2015). Il ne s’agit pas d’une utopie chimérique, au contraire, il s’agit d’une perspective réaliste qui place la personne humaine et sa dignité comme point de départ et vers laquelle tout doit confluer (cf. Ibid.)
Le changement de direction dont nous avons besoin, il n’est pas possible de le réaliser sans un engagement substantiel à travers l’éducation et la formation. Rien ne sera possible si les solutions politiques et techniques ne sont accompagnées d’un processus d’éducation qui promeuve de nouveaux styles de vie. Un nouveau type de culture. Cela exige une formation destinée à susciter chez les enfants, les femmes et les hommes, les jeunes et les adultes, l’assimilation d’une culture de protection ; la protection de soi-même, la protection de l’autre, la protection de l’environnement ; en lieu et place de la culture de détérioration et de rejet. Le rejet de soi, de l’autre, de l’environnement. La promotion de la « conscience d’une origine commune, d’une appartenance mutuelle et d’un avenir partagé par tous […] permettrait le développement de nouvelles convictions, attitudes et formes de vie. [C’est] un grand défi culturel, spirituel et éducatif, qui supposera de longs processus de régénération » (Laudato Si’, n. 202), qu’il est encore temps de promouvoir.
Ils sont nombreux les visages, les histoires, les conséquences évidentes chez des milliers de personnes que la culture de la détérioration et du rejet a conduit à sacrifier aux idoles du gain et de la consommation. Nous devons nous protéger d’un triste signe de la « ‘‘mondialisation de l’indifférence’’, qui nous fait lentement nous ‘‘habituer’’ à la souffrance de l’autre, comme si elle était normale» ( Message pour la Journée Mondiale de l’Alimentation, 16 octobre 2013), ou pire encore, qui nous conduit à la résignation face aux formes extrêmes et scandaleuses de ‘‘rejet’’ et d’exclusion sociale, comme sont les nouvelles formes d’esclavage, le trafic des personnes, le travail forcé, la prostitution, le trafic d’organes. « L’augmentation du nombre de migrants fuyant la misère, accrue par la dégradation environnementale, est tragique ; ces migrants ne sont pas reconnus comme réfugiés par les conventions internationales et ils portent le poids de leurs vies à la dérive, sans aucune protection légale » ( Laudato Si’, n. 25 ). Ce sont de nombreuses vies, de nombreuses histoires, de nombreux rêves qui se noient dans notre présent. Nous ne pouvons pas rester indifférents face à cela. Nous n’en avons pas le droit.
Parallèlement à la négligence de l’environnement, depuis un certain temps, nous sommes témoins d’un rapide processus d’urbanisation qui, malheureusement, conduit souvent à une «croissance démesurée et désordonnée de beaucoup de villes qui sont devenues insalubres [et] inefficaces » (Ibid., n. 44). Et ce sont aussi des endroits où se répandent des symptômes préoccupants d’une tragique rupture des liens d’intégration et de communion sociale, qui conduit à l’ « augmentation de la violence et [à] l’émergence de nouvelles formes d’agressivité sociale, [au] narcotrafic et [à] la consommation croissante de drogues chez les plus jeunes, [à] la perte d’identité » (ibid. n. 46), au déracinement et à l’anonymat social (cf. ibid. n. 149).
Je voudrais exprimer mon encouragement à tous ceux qui, au niveau local et international, travaillent pour que le processus d’urbanisation devienne un instrument efficace en vue du développement et de l’intégration, afin de garantir pour tous, et surtout aux personnes qui vivent dans les quartiers marginaux, des conditions de vie dignes, garantissant les droits fondamentaux à une terre, à un toit et au travail. Il est nécessaire de promouvoir des initiatives de planification urbaine et de protection des espaces publics qui aillent dans ce sens et prévoient la participation des habitants, essayant de combattre les nombreuses inégalités et les poches de pauvreté urbaine, non seulement économiques, mais aussi et surtout sociales et environnementales. La prochaine Conférence Habitat-III, prévue à Quito en octobre 2016, pourrait être un moment important pour identifier les façons de répondre à ces problématiques.
Dans quelques jours, cette ville de Nairobi, abritera la 10ème Conférence Ministérielle de l’Organisation Mondiale du Commerce. En 1971, face à un monde toujours plus interdépendant, et anticipant de quelques années la présente réalité de la globalisation, mon prédécesseur Paul VI réfléchissait sur la manière dont les relations commerciales entre les Etats pourraient être un élément fondamental pour le développement des peuples ou, au contraire, cause de misère et d’exclusion ( Cf. Paul VI, Populorum progressio, nn. 56-62). Même en reconnaissant tout l’effort réalisé dans ce domaine, il semble qu’on ne soit pas encore arrivé à un système commercial international équitable et totalement au service de la lutte contre la pauvreté et l’exclusion. Les relations commerciales entre les Etats, une part indispensable des relations entre les peuples, peuvent tant servir à porter préjudice à l’environnement qu’à l’assainir et le rendre sûr pour les générations futures.
Je forme le voeu que les délibérations de la prochaine Conférence de Nairobi ne soient pas un simple équilibre des intérêts en conflit, mais un vrai service à la sauvegarde de la maison commune et au développement intégral des personnes, surtout des plus défavorisées. En particulier, je veux m’unir aux préoccupations de nombreuses réalités engagées dans la coopération au développement et dans l’assistance sanitaire – dont les congrégations religieuses qui aident les plus pauvres et exclus – préoccupations qui concernent les accords sur la propriété intellectuelle et l’accès aux médicaments ainsi qu’aux soins essentiels de santé. Les Traités de libre commerce régionaux sur la protection de la propriété intellectuelle, en particulier dans le domaine pharmaceutique et biotechnologique, non seulement ne doivent pas limiter les facultés déjà accordées aux Etats par les accords multilatéraux, mais, au contraire, devraient être un instrument pour assurer un minimum d’assistance sanitaire et d’accès aux traitements de base pour tous. Les discussions multilatérales, à leur tour, doivent donner aux pays les plus pauvres le temps, la flexibilité et les exceptions nécessaires à une adaptation ordonnée, et non traumatisante, aux normes commerciales. L’interdépendance et l’intégration des économies ne doivent pas provoquer le moindre préjudice aux systèmes de santé et de protection sociale existants ; au contraire, elles doivent favoriser leur création et leur fonctionnement. Certaines questions de santé, telles que l’élimination du paludisme et de la tuberculose, le traitement des maladies dites ‘‘orphelines’’ et les domaines négligés de la médecine tropicale, réclament une attention politique prioritaire, avant tout autre intérêt commercial ou politique.
L’Afrique offre au monde une beauté et une richesse naturelle qui nous conduisent à louer le Créateur. Ce patrimoine africain et de toute l’humanité est constamment menacé par un risque de destruction, en raison d’égoïsmes humains en tout genre et de l’abus de situations de pauvreté et d’exclusion. Dans le contexte des relations économiques entre les Etats et les peuples, on ne peut cesser de parler des trafics illégaux qui croissent dans un environnement de pauvreté, et qui, à leur tour, alimentent la pauvreté et l’exclusion. Le commerce illégal de diamants et de pierres précieuses, de métaux rares ou de valeur stratégique, du bois et de matériel biologique, ainsi que de produits d’origine animale, comme dans le cas du trafic d’ivoire et le massacre des éléphants qui lui est relatif, alimente l’instabilité politique, le crime organisé et le terrorisme. Cette situation est aussi un cri des hommes et de la terre qui doit être entendu par la Communauté internationale.
Lors de ma récente visite au siège de l’ONU à New York, j’ai pu exprimer le souhait et l’espérance que le travail des Nations Unies et de tous les développements multilatéraux puissent être le « gage d’un avenir sûr et heureux pour les futures générations. Et [il] le sera si les représentants des Etats savent laisser de côté des intérêts sectoriels et idéologiques, et chercher sincèrement le service du bien commun » (Discours à l’ONU, 25 septembre 2015).
Je renouvelle, un fois encore, le soutien de la communauté catholique, et le mien, consistant à continuer de prier et de collaborer pour que les résultats de la coopération régionale qui s’exprime aujourd’hui dans l’Union Africaine et par les nombreux accords africains de commerce, de coopération et de développement, soient mis en oeuvre avec vigueur et en tenant toujours compte du bien commun des enfants de cette terre.
La bénédiction au Très-Haut soit avec tous et chacun d’entre vous ainsi qu’avec vos peuples. Merci!
Portoghese
Desejo agradecer o amável convite e as palavras de boas-vindas da Senhora Sahle-Work Zewde, Directora-Geral do Gabinete das Nações Unidas em Nairobi, bem como do Senhor Achim Steiner, Director Executivo do Programa das Nações Unidas para o Meio Ambiente e do Senhor Joan Clos, Director Executivo da ONU-Hábitat. Aproveito esta oportunidade para saudar todos os funcionários e quantos colaboram com as instituições aqui presentes.
Quando me dirigia para esta sala, convidaram-me a plantar uma árvore no parque do Centro das Nações Unidas. De boa vontade aceitei cumprir este gesto simbólico e simples, cheio de significado em muitas culturas.
Plantar uma árvore é, em primeiro lugar, um convite a perseverar na luta contra fenómenos como a desflorestação e a desertificação. Lembra-nos a importância de proteger e administrar responsavelmente aqueles «pulmões do planeta repletos de biodiversidade [como bem podemos apreciar neste continente com] a bacia fluvial do Congo», lugares essenciais «para o conjunto do planeta e para o futuro da humanidade». Por isso, é sempre digna de apreço e encorajamento «a tarefa de organismos internacionais e organizações da sociedade civil que sensibilizam as populações e colaboram de forma crítica, inclusive utilizando legítimos mecanismos de pressão, para que cada governo cumpra o dever próprio e não-delegável de preservar o meio ambiente e os recursos naturais do seu país, sem se vender a espúrios interesses locais ou internacionais» (Laudato si’, 38).
Por outro lado, plantar uma árvore incita-nos a continuar confiando, esperando e sobretudo dando-nos as mãos para inverter todas as situações de injustiça e deterioração que sofremos hoje.
Dentro de poucos dias, começará em Paris uma reunião importante sobre as alterações climáticas, onde a comunidade internacional como tal se confrontará mais uma vez sobre esta problemática. Seria triste e – atrevo-me a dizer – até catastrófico se os interesses particulares prevalecessem sobre o bem comum e chegassem a manipular as informações para proteger os seus projectos.
Neste contexto internacional em que se põe o dilema – que não podemos ignorar – de melhorar ou destruir o meio ambiente, cada iniciativa, pequena ou grande, individual ou colectiva, tomada para cuidar da criação, indica o caminho seguro para aquela «criatividade generosa e dignificante, que põe a descoberto o melhor do ser humano» (ibid., 211).
«O clima é um bem comum, um bem de todos e para todos. (…) As mudanças climáticas são um problema global com graves implicações ambientais, sociais, económicas, distributivas e políticas, constituindo actualmente um dos principais desafios para a humanidade» (ibid., 23 e 25), cuja resposta «deve integrar uma perspectiva social que tenha em conta os direitos fundamentais dos mais desfavorecidos» (ibid., 93). Pois «o abuso e a destruição do meio ambiente aparecem associados, simultaneamente, com um processo ininterrupto de exclusão» (Discurso à ONU, 25 de Setembro de 2015).
A COP21 é um passo importante no processo de desenvolvimento dum novo sistema energético que dependa o mínimo possível dos combustíveis fósseis, busque a eficiência energética e se estruture sobre o uso de energia com baixo ou nulo conteúdo de carbono. Estamos perante o grande compromisso político e económico de reconsiderar e corrigir as falhas e distorções no modelo actual de desenvolvimento.
O Acordo de Paris pode dar um sinal claro nesta direcção, desde que se evite, como já tive ocasião de dizer diante da Assembleia Geral das Nações Unidas, «a tentação de cair num nominalismo declamatório com efeito tranquilizador sobre as consciências. Devemos ter cuidado com as nossas instituições para que sejam realmente eficazes» (ibidem). Por isso, espero que a
COP21 leve à conclusão dum acordo global e «transformador», baseado nos princípios de solidariedade, justiça, equidade e participação, e vise a consecução de três objectivos complexos e, ao mesmo tempo, interdependentes: a redução do impacto das alterações climáticas, a luta contra a pobreza e o respeito pela dignidade humana.
Apesar de tantas dificuldades, vai-se afirmando a «tendência de conceber o planeta como pátria e a humanidade como povo que habita uma casa comum» (Laudato si’, 164). Nenhum país «pode actuar à margem duma responsabilidade comum. Se queremos realmente uma mudança positiva, devemos aceitar humildemente a nossa interdependência, isto é, a nossa sã interdependência» (Discurso aos movimentos populares, 9 de Julho de 2015). O problema surge quando pensamos que a interdependência é sinónimo de imposição ou submissão de uns em função dos interesses dos outros. Do mais fraco em função do mais forte.
É necessário um diálogo sincero e franco, com a colaboração responsável de todos: autoridades políticas, comunidade científica, empresas e sociedade civil. Não faltam exemplos positivos que nos mostram como uma verdadeira colaboração entre a política, a ciência e a economia é capaz de obter importantes resultados.
Estamos cientes, porém, de que «os seres humanos, capazes de tocar o fundo da degradação, podem também superar-se, voltar a escolher o bem e regenerar-se» (Laudato si’, 205). Esta tomada de consciência profunda leva-nos a esperar que, se a humanidade do período pós-industrial poderia ser recordada como uma das mais irresponsáveis da história, «a humanidade dos inícios do século XXI [seja] lembrada por ter assumido com generosidade as suas graves responsabilidades» (ibid., 165). Para isso é necessário colocar a economia e a política ao serviço de povoações onde o «ser humano, em harmonia com a natureza, estrutura todo o sistema de produção e distribuição de tal modo que as capacidades e necessidades de cada um encontrem um apoio adequado no ser social» (Discurso aos movimentos populares, 9 de Julho de 2015). Não se trata duma utopia fantasista, antes pelo contrário é uma perspectiva realista que coloca a pessoa e a sua dignidade como ponto de partida e para a qual tudo deve confluir.
A mudança de rumo que precisamos não é possível realizá-la sem um compromisso substancial para com a educação e a formação. Nada será possível, se as soluções políticas e técnicas não forem acompanhadas por um processo educativo que promova novos estilos de vida. Um novo estilo cultural. Isto requer uma formação destinada a fazer crescer em meninos e meninas, mulheres e homens, jovens e adultos a adopção duma cultura do cuidado (cuidado de si próprio, cuidado do outro, cuidado do meio ambiente) em vez da cultura da degradação e do descarte (descarte de si mesmo, do outro, do meio ambiente). A promoção da «consciência duma origem comum, duma recíproca pertença e dum futuro partilhado por todos [permitir-nos-á] o desenvolvimento de novas convicções, atitudes e estilos de vida. [É] um grande desafio cultural, espiritual e educativo que implicará longos processos de regeneração» (Laudato si’, 202), que estamos a tempo de impulsionar.
Muitos são os rostos, as histórias, as consequências evidentes em milhares de pessoas que a cultura da degradação e do descarte levou a sacrificar aos ídolos do lucro e do consumo. Devemos ter cuidado com um sinal triste da «globalização da indiferença»: habituarmo-nos lentamente ao sofrimento dos outros, como se fosse uma coisa normal (cf. Mensagem para o Dia Mundial da Alimentação, 16 de Outubro de 2013), ou, pior ainda, resignarmo-nos perante formas extremas e escandalosas de «descarte» e de exclusão social, como são as novas formas de escravidão, o tráfico de pessoas, o trabalho forçado, a prostituição, o tráfico de órgãos. «É trágico o aumento de emigrantes em fuga da miséria agravada pela degradação ambiental, que, não sendo reconhecidos como refugiados nas convenções internacionais, carregam o peso da sua vida abandonada sem qualquer tutela normativa» (Laudato si’, 25). São muitas vidas, muitas histórias, muitos sonhos que naufragam nos nossos dias. Não podemos ficar indiferentes perante isto. Não temos o direito.
Há tempos que, a par da degradação do ambiente, temos sido testemunhas dum rápido processo de urbanização que com frequência, infelizmente, leva a um «crescimento desmedido e
descontrolado de muitas cidades que se tornaram pouco saudáveis (…) e que não funcionam» (
ibid., 44). E constituem também lugares onde se difundem preocupantes sintomas duma trágica ruptura dos vínculos de integração e comunhão social, que leva ao «aumento da violência e [ao] aparecimento de novas formas de agressividade social, [ao] narcotráfico e [ao] consumo crescente de drogas entre os mais jovens, [à] perda de identidade» (ibid., 46), ao desenraizamento e ao anonimato social (cf. ibid., 149).
Quero manifestar o meu encorajamento a quantos trabalham, a nível local e internacional, por garantir que o processo de urbanização se torne um instrumento eficaz para o desenvolvimento e a integração, a fim de assegurar a todos, especialmente às pessoas que vivem em bairros marginalizados, condições de vida dignas, garantindo os direitos básicos à terra, ao tecto e ao trabalho. É preciso promover iniciativas de planificação urbana e cuidado dos espaços públicos, que apontem nesta direcção e prevejam a participação dos moradores locais, procurando contrariar as numerosas disparidades e as áreas de pobreza urbana, não só económicas mas também e sobretudo sociais e ambientais. A próxima Conferência Habitat-III, prevista em Quito no mês de Outubro de 2016, poderia ser um momento importante para identificar formas de responder a estas problemáticas.
Dentro de poucos dias, esta cidade de Nairobi acolherá a X Conferência Ministerial da Organização Mundial do Comércio. Em 1967 o meu predecessor Paulo VI, face a um mundo cada vez mais interdependente e antecipando-se de alguns anos à presente realidade da globalização, reflectiu sobre o modo como as relações comerciais entre os Estados poderiam ser um elemento fundamental para o desenvolvimento dos povos ou, pelo contrário, causa de miséria e exclusão (cf. Populorum progressio, 56-62). Embora reconhecendo que muito se tem trabalhado neste sector, parece todavia que ainda não se chegou a um sistema de comércio internacional equitativo e totalmente ao serviço da luta contra a pobreza e a exclusão. As relações comerciais entre os Estados, parte essencial das relações entre os povos, podem servir tanto para danificar o ambiente como para o recuperar e preservar para as gerações futuras.
Espero que as decisões da próxima Conferência de Nairobi não sejam um mero equilíbrio de interesses contrapostos, mas um verdadeiro serviço ao cuidado da casa comum e ao desenvolvimento integral das pessoas, sobretudo das mais abandonadas. Em particular, quero associar-me às preocupações de tantas realidades empenhadas na cooperação para o desenvolvimento e na assistência sanitária – incluindo as congregações religiosas que dão assistência aos mais pobres e excluídos –, a respeito dos acordos sobre a propriedade intelectual e o acesso aos medicamentos e à assistência sanitária de base. Os tratados de livre comércio regionais sobre a protecção da propriedade intelectual, particularmente no sector farmacêutico e das biotecnologias, não só não devem limitar os poderes já concedidos aos Estados pelos acordos multilaterais, mas, antes, deveriam ser um instrumento para garantir um mínimo de atenção sanitária e de acesso aos tratamentos essenciais para todos. Os debates multilaterais devem, por sua vez, dar aos países mais pobres o tempo, a elasticidade e as excepções necessárias para uma adequação ordenada e não traumática às normas comerciais. A interdependência e a integração das economias não devem comportar o mínimo dano aos sistemas sanitários e de protecção social existentes; pelo contrário, devem favorecer a sua criação e funcionamento. Alguns temas sanitários, como a eliminação da malária e da tuberculose, a cura das chamadas doenças «órfãs» e os sectores desfavorecidos da medicina tropical reclamam uma atenção política primária, acima de qualquer outro interesse comercial ou político.
A África oferece ao mundo uma beleza e uma riqueza natural que nos levam a louvar o Criador. Este património africano e de toda a humanidade enfrenta um risco constante de destruição, causado por egoísmos humanos de todos os tipos e pelo abuso de situações de pobreza e exclusão. Ao nível das relações económicas entre os Estados e os povos, não se pode deixar de falar dos tráficos ilegais que crescem num contexto de pobreza e que, por sua vez, alimentam a pobreza e a exclusão. O comércio ilegal de diamantes e pedras preciosas, de metais raros ou de alto valor
estratégico, de madeiras e material biológico, e de produtos animais, como no caso do tráfico de marfim e o consequente extermínio de elefantes, alimenta a instabilidade política, a criminalidade organizada e o terrorismo. Também esta situação é um grito dos homens e da terra que deve ser escutado pela comunidade internacional.
Na minha recente visita à sede da ONU em Nova Iorque, formulei o desejo e a esperança de que a obra das Nações Unidas e de todos os processos multilaterais possa ser «penhor dum futuro seguro e feliz para as gerações futuras. Sê-lo-á se os representantes dos Estados souberem pôr de lado interesses sectoriais e ideologias e procurarem sinceramente o serviço do bem comum» (Discurso à ONU, 25 de Setembro de 2015).
Asseguro uma vez mais o apoio da Comunidade Católica e o meu de continuar a rezar e colaborar para que os frutos da cooperação regional, que se expressam hoje na União Africana e nos múltiplos acordos africanos de comércio, cooperação e desenvolvimento, sejam vividos com vigor e tendo sempre em conta o bem comum dos filhos desta terra.
A bênção do Altíssimo esteja com todos e cada um de vós e dos vossos povos. Obrigado.
Al termine del discorso, dopo la presentazione al Papa di alcune personalità presenti, il Santo Padre rientra in auto alla Nunziatura Apostolica.