lunedì 28 dicembre 2015

Per una volta mi indigno anch’io a Natale.

Ma per i cristiani perseguitati


di Rodolfo Casadei

L’altro giorno in metropolitana ho visto un manifesto della campagna dell’Unicef per i bambini profughi e migranti iniziata in novembre sotto il titolo “Indigniamoci!”. Propone una petizione al governo italiano. Per Natale il titolo dell’appello è diventato: “Il 25 dicembre è un buon giorno per indignarsi”. Messi da parte biglietti d’auguri e pigotte, l’Unicef ha scelto un approccio militante e accigliato al Natale, un po’ come fanno i Radicali con le loro periodiche marce per l’amnistia e la giustizia la mattina del 25 dicembre (ma quest’anno niente).
Siamo decisamente lontani dallo spirito natalizio, e non mi riferisco alla retorica dei buoni sentimenti: quella va benissimo toglierla di mezzo. Ma dimenticare che Natale è tempo dell’attesa di un bene che arriva da fuori di noi, che non è opera delle nostre mani, e che si scopre essere la nostra salvezza: ecco, questo è il senso del Natale che l’attivismo etico ed umanitario dell’Unicef ignora. Il fatto è, però, che anche il mio Natale coincide, in buona parte, con sentimenti di indignazione. Oltre che di tristezza e di nostalgia. La nostalgia si sposa bene con lo spirito natalizio (memoria di un bene passato e attesa di un bene che sta per prendere forma vanno d’accordo), ma indignazione e tristezza no. Allora perché mi sento tanto Unicef?
Un anno fa di questi tempi mi trovavo ad Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, per condividere il Natale degli sfollati cristiani e yazidi scacciati dalle loro case nella piana di Ninive dall’Isis nel corso di quella estate. Questo spiega bene la nostalgia: è intuitivo. Ho fatto una delle esperienze più commoventi della vita: essere accolto e ricevere benefici da persone materialmente più povere di me. Ho fruito della gratuità dei poveri. Sono stato ospite la notte di Natale in uno spartano monolocale prefabbricato identico a quelli che venivano riservati ai terremotati italiani degli anni Ottanta. Ho dormito spalla a spalla coi maschi della famiglia di Talal, un artigiano cristiano di Mosul fuggito nel mese di luglio con la moglie e i cinque figli quando la vita si è fatta troppo grama per loro. Trasformato il pavimento in un dormitorio collettivo di materassi incellofanati, io ero l’unico al quale era consentito pernottare in un letto sollevato da terra.
Notte fresca ma non gelida: le spesse coperte fecero il loro lavoro. La mattina dopo Eileen, la sposa di Talal, ci ha onorati di una delizia di colazione a base di tè, marmellate e formaggi, apparsi come per incanto sull’unico tavolo pieghevole a disposizione. Le capriole di Milad, il piccolo riccioluto della famiglia, la tredicenne Aideen che silenziosa pettinava ininterrottamente i lunghissimi capelli. Gli amici che si affacciavano sulla soglia a fare gli auguri. Fuori un cielo grigio ma senza pioggia, le donne che lanciavano secchiate d’acqua e sapone sulla gettata di cemento che reggeva le baracche e teneva lontano il fango ma non la polvere. Il tanfo delle latrine collettive, pulitissime ma spurgate troppo di rado. Talal che passava un braccio attorno alle spalle di Samir, un ragazzone obeso e triste, i piedi nudi infilati dentro a sandali incongrui per la stagione, e lo consolava sottovoce.



Era Natale e lui non aveva ricevuto nemmeno un regalo, per questo si copriva il volto – che immaginavo rigato di lacrime – con la mano sinistra. Cosa gli diceva Talal per rincuorarlo? Forse che sarebbero venuti giorni migliori; senz’altro che il suo destino era identico a quello di tutti i bambini e ragazzi del campo. Io non ho visto neanche un giocattolo passare di mano quel mattino di Natale, i bambini ridevano facendosi trasportare di qua e di là su carrettini di legno dagli adulti, ma le loro mani erano tutte identicamente vuote come quelle grassocce di Samir. Solo qualche banconota da pochi dinari appariva quando tornavano alla loro baracca dopo aver visitato quella di uno zio. Il pranzo fu suntuoso nella sua semplicità: riso bollito, fagioli in salsa di pomodoro, uova sode e patate lesse, cetrioli bolliti in salsa rossa, verdure e pane arabo. E quella frase con cui Talal rispose alla mia domanda su dove sperava di celebrare il Natale del 2015, una di quelle che restano incise per sempre nell’anima: «Non lo so. So solo una cosa: io e la mia famiglia siamo nel cuore di Dio».
Cos’è allora che mi indigna, cos’è che rattrista il mio Natale? Il pensiero che un anno dopo Talal e la sua famiglia sono ancora lì, allo Sport Center di Erbil trasformato in campo profughi. E che quando infine giungerà la notizia che non vivono più nella baracca cinque metri per tre, sarà probabilmente perché sono emigrati all’estero come molti loro parenti. In America o in Australia, da dove non torneranno più. Come decine di migliaia di altri cristiani che, in un flusso non impetuoso ma costante e apparentemente inarrestabile, stanno abbandonando l’Iraq perché non sperano più di tornare padroni delle case che sono stati costretti a lasciare e di viverci con dignità e in condizioni di sicurezza. I loro vescovi e patriarchi hanno invocato, fin dall’agosto 2014, un intervento di polizia internazionale sotto egida Onu per far rispettare il loro buon diritto alla proprietà e alla sicurezza, che lo Stato iracheno si è dimostrato incapace di assicurare. Invano.
Nessuno li ha ascoltati e le Chiese occidentali non si sono fatte megafono del loro appello. Queste ultime hanno raccolto e inviato aiuti umanitari, promosso programmi di cooperazione, organizzato occasionalmente giornate di preghiera, ma sul fronte politico non hanno mosso un dito. Niente manifestazioni pubbliche a sostegno dei diritti umani dei cristiani iracheni e siriani, nessun incoraggiamento all’uso legittimo della forza su rigorose basi di diritto internazionale in Iraq, nessuna battaglia per l’abrogazione almeno parziale delle sanzioni imposte alla Siria dai paesi occidentali. Il risultato di questo approccio è che per un po’ i cristiani resistono, vivono ammucchiati in bilocali affittati a peso d’oro nelle città del Kurdistan o a Baghdad coi soldi degli aiuti delle Chiese, consumano cibo e medicine della stessa origine nei prefabbricati dei campi profughi e dentro ai supermercati in costruzione. Poi imboccano la strada senza ritorno dell’emigrazione. E la stessa cosa fanno i cristiani siriani, vittime di rapimenti e sequestri di massa e di bombardamenti mirati delle loro chiese, motivati da odio confessionale.
Mi rattrista e mi indigna, da parte delle nostre comunità cristiane, la rimozione di tutta questa sofferenza, l’ignoranza delle conseguenze umane e religiose della disgregazione e della diaspora delle comunità caldee, siriache, melkite, ecc., l’insensibilità e l’indifferenza verso il persistere di una grande ingiustizia alla quale nessuno pone rimedio. Sì, la Chiesa italiana nelle sue articolazioni – parrocchie, associazioni, movimenti – sta aiutando generosamente i fratelli nella fede sofferenti del Vicino Oriente e gli altri esseri umani vittime della violenza della guerra e del terrorismo. Ma a quando una riflessione e una presa di coscienza relativamente alle cause di quello che è accaduto e che continua ad accadere? A quando iniziative pubbliche di pressione e sollecitazione del potere politico, nazionale e internazionale? E che fine ha fatto la rivolta morale che al tempo dell’occupazione anglo-americana dell’Iraq aveva rivestito i seminari diocesani e gli edifici parrocchiali di bandiere coi colori della pace? Mi rattrista e mi indigna la facilità con cui le nostre comunità rimuovono il senso di colpa per le condizioni in cui si trovano a vivere i nostri fratelli nella fede e depotenziano la compassione.


Ci commuoviamo di fronte ai filmati delle bambine cristiane irachene che perdonano gli aguzzini dell’Isis, o per i collegamenti in skype coi sacerdoti che resistono sotto i bombardamenti in Siria, ma senza provare dolore per i loro patimenti e per le innumerevoli tentazioni alle quali il disagio materiale e psicologico espongono le persone, senza che dentro ribolla la ribellione per l’ingiustizia che si squaderna sotto i nostri occhi. La testimonianza dei cristiani perseguitati (perdono dei nemici, solidarietà verso i bisognosi, sopportazione delle avversità, accettazione della volontà di Dio) ci rassicura e ci consola, il fatto di lodarla e propagandarla e di raccogliere per loro un po’ di aiuti ci fa sentire a posto e ci fa sentire buoni. Scusate se vi disturbo, ma vorrei farvi presente che la notte di Natale di un anno fa in un campo profughi cristiano di Ankawa (Erbil) certamente io sono stato accolto meglio di quanto sia stato accolto Gesù bambino a Betlemme; però quella notte sentivo anche i canti sguaiati degli ubriachi, giovanotti cristiani disperati che quella sera erano andati in città a bere grappa per attutire la disperazione; mi faceva compagnia un giovane professore di inglese che fumava compulsivamente e diceva: «Questo paese ti porta via tutto, prima le proprietà e poi la dignità, da qui voglio andarmene»; e due giorni dopo a Baqofa, sulla linea del fronte con l’Isis, ho videoripreso giovani e padri di famiglia cristiani armati fino ai denti auto-organizzati in una milizia chiamata Dwekh Nawsha, che avevano trascorso il Natale di pattuglia in un lembo della pianura anziché a casa con le famiglie. Perché quando lo Stato di diritto muore e le istituzioni si disgregano, hai soltanto tre possibilità: o ti sottometti all’aggressore, o emigri, o ti organizzi per difenderti da solo. Con tutte le conseguenze sociali, morali e psicologiche del caso.
Ma cosa pretendi, mi direte, noi non siamo nelle condizioni di andare a combattere l’Isis armi alla mano, giusto o sbagliato che sia, o di esercitare una pressione efficace e decisiva sulle scelte di politica estera nazionale e su quelle delle grandi potenze. Lo so, lo capisco. Capisco persino che il governo italiano che non ha mandato i nostri soldati a riconquistare la piana di Ninive rubata ai cristiani e agli yazidi dai razziatori jihadisti, adesso li mandi nella stessissima zona a morire per proteggere la diga i cui lavori sono stati appaltati a una ditta italiana (ma a voi nemmeno questo vi scandalizza?). Quel che chiedo, è semplicemente di non ridurre il dramma dei cristiani perseguitati a una narrazione rassicurante. Di non soffocare completamente il senso di colpa che io proverò più del solito durante la settimana di Natale, e che vorrei condividere con altri. Faccio a tutti gli auguri, ma li faccio con le parole del sacerdote di Desio: «Io auguro a me e a voi di non stare mai tranquilli, mai più tranquilli» (don Luigi Giussani, Rimini 1985).

Foto Rodolfo Casadei


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