sabato 19 dicembre 2015

Sulla contemplazione mistica.




Riproposte le riflessioni di Thomas Merton sulla contemplazione mistica. Quella terribile rivoluzione interna

(Antonella Lumini) «Cerca la solitudine quanto più ti è possibile, dimora nel silenzio della tua anima e fermatici nella luce semplice e semplificante che Dio infonde in te». Sono parole tratte dal libro Che cos’è la contemplazione? di Thomas Merton, pubblicato negli Stati Uniti nel 1948, poi in italiano dalla Morcelliana nel 1951 e ora nuovamente riproposto nella collana Pellicano rosso curata da Paolo De Benedetti (Brescia, 2015, pagine 49, euro 7,00).
Parole particolarmente controcorrente per il nostro mondo dominato da una società di massa e dal rumore, ma significative anche per ambienti religiosi non estranei all’azione frettolosa e alla mormorazione. Addirittura capita nei monasteri di sentire monaci o monache lamentarsi di non trovare abbastanza spazio per il silenzio e la solitudine, prova ne è (soprattutto in ambito femminile) l’esodo di alcuni di loro verso una scelta di vita eremitica, da poco reintrodotta dal diritto canonico. La «contemplazione è opera dello Spirito Santo, il quale infonde nelle nostre anime i suoi doni di sapienza», quindi la «luce semplice e semplificante» è la luce infusa nell’anima dallo Spirito Santo per purificarla e santificarla. Merton in questo breve, ma intenso libretto, parla della contemplazione mistica, o infusa, chiamata anche «passiva», per distinguerla dalla contemplazione «attiva» che invece riguarda le forme tradizionali, quelle pratiche relative alla vita interiore che esigono atti di volontà. Essa non implica «tutta una litania di fenomeni vaganti: estasi, ratti, stigmate e così via», cioè particolari «doni carismatici», ma è «un potente mezzo di santificazione», una «conoscenza profonda e intima di Dio tramite la comunione d’amore». Il rinvio esplicito è al testamento spirituale di Gesù esposto nei capitoli XIV-XVII del vangelo di Giovanni in cui sono gettate le «fondamenta di ogni teologia mistica» e in cui è definito il senso profondo della vita cristiana come intimo rapporto di comunione fra umanità e divinità. La comunione con il figlio conduce l’umanità a partecipare della vita del padre, ossia della vita eterna. Attraverso l’azione dello Spirito Santo ogni essere umano è attratto nell’intimità della dinamica trinitaria, introdotto in quella perfetta relazione d’amore che, pur nella distinzione delle persone, preserva l’unità. La contemplazione mistica è quindi possibile per tutti gli esseri umani, ma finché i «semi di questa vita perfetta» giacciono come addormentati, non crescono, non fioriscono, non illuminano le facoltà dell’anima. Questi semi si risvegliano attraverso il battesimo di fuoco. Gesù effonde lo Spirito Santo, il battesimo di Gesù immerge nella luce creatrice e santificante, attrae dentro la vita trinitaria. Partecipando di questa dinamica d’amore l’anima è pian piano portata a ritirare le proprie potenze. La contemplazione infusa o «passiva» riguarda quindi quello stato di annichilimento in cui l’anima si abbandona all’azione santificante dello Spirito. Ma cosa rende possibile questo stato? Innanzitutto il desiderio di conoscere Dio nell’intimo che si intensifica più si affievoliscono gli appetiti verso le cose mondane. Rifacendosi alla più alta tradizione mistica cristiana, Merton così definisce la contemplazione: «Conoscimento di Dio semplice e oscuro infuso da Dio nella sommità dell’anima». Allude chiaramente a un «conoscimento» non intellettuale, ma esperienziale, che investe la parte divina dell’anima. Il termine «sommità» — come del resto i termini «centro», «apice» o «fondo» introdotto da Meister Eckhart — non alludono all’alto o al basso spaziale, ma a quel punto di congiunzione dell’anima con lo Spirito, con l’essenza divina da cui essa scaturisce e da cui eternamente riceve vita. Il desiderio che attrae fortemente l’anima verso la luce la porta però insieme a conoscere la propria oscurità. «La contemplazione è la luce di Dio che batte direttamente sull’anima». Questa luce vivificante, troppo pura, sopraffà l’anima che, ammalata del proprio egoismo, «è urtata e ha repulsione per la purezza stessa di Dio». Sulle tracce di san Giovanni della Croce, Merton si sofferma a descrivere quella «terribile rivoluzione interna» che spinge l’anima a spogliarsi di tutti gli egoismi, gli attaccamenti mondani: «Il fuoco dell’amore infuso sferra un attacco spietato all’amor proprio dell’anima». Ma il passo più difficile che le è chiesto è di distaccarsi da ogni falsa immagine di Dio, da ogni dolcezza consolatoria, per restare lì, immobile, nella totale passività della volontà. Solo in questo stato di nudità e abbandono Dio opera profondamente. Lo Spirito Santo colma l’anima quando la trova vuota, ma l’asperità della prova a volte può fare retrocedere. L’intensità della divina luce rende gli occhi come ciechi, cosicché il raggio di quella luce è percepito come «raggio di oscurità». Alcuni non accettano di «restare nell’oscurità: vogliono invece vedere». Solo di fronte a un affidamento totalmente disarmato lo Spirito può compiere la sua opera trasformando l’annichilimento in azione creatrice. I contemplativi sono particolarmente attivi in quanto lasciano operare senza opporre ostacoli l’atto creativo. Le azioni scaturiscono in semplicità, senza distorcere né corrompere le perfette misure inscritte nella sapienza creatrice. Anche la mente e la volontà agiscono in perfetta armonia con Dio «come strumenti liberi del suo amore e della sua misericordia». Merton conclude mettendo bene in luce come l’amore di Dio penetri proprio attraverso quell’attesa oscura che piega la volontà in pura obbedienza: «Questa è la grande opera del suo amore destinata a rovesciare le potenze del mondo nell’attimo del loro trionfo apparente», opera che passa attraverso uomini e donne, religiosi e laici, deboli, nascosti, sconosciuti, disprezzati, sofferenti e considerati inutili. «In queste anime Cristo attizzerà negli ultimi giorni del mondo il fuoco di una grande carità per controbattere l’amore divenuto freddo nelle anime dei padroni della terra».
L'Osservatore Romano