sabato 28 febbraio 2015

II Domenica di Quaresima - Anno B

Nella seconda domenica di Quaresima la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù conduce con sé su un alto monte Pietro, Giacomo e Giovanni e viene trasfigurato davanti a loro. Appaiono con lui anche Elia e Mosè. Quindi da una nube che li avvolge esce una voce:
«Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
Se il deserto, il luogo della tentazione, è il punto di partenza della Quaresima, il suo punto di arrivo è la Trasfigurazione, è la Pasqua. E’ ciò che il Vangelo di questa domenica ci annuncia con gioia: esso ricapitola tutta la storia dell’umanità, come storia di salvezza. Dio ha creato l’uomo e lo ha rivestito delle sue vesti di bellezza, di gloria, di luce, di vita. Dio è l’amante dell’uomo, dell’uomo che vive in pienezza. Ma l’uomo non si è fidato della parola di Dio, si è lasciato traviare dall’accusatore, dal demonio, ed ha peccato. Ora Dio, nel rispetto della libertà dell’uomo, mette in atto un disegno di amore: la storia dell’uomo, con tutte le sue contraddizioni e limiti, diventa “storia di salvezza”. Ecco con Gesù, sul monte, Elia e Mosé, proprio i garanti della fedeltà di Dio al suo disegno d’amore: i quarant’anni del popolo d’Israele nel deserto sono riassunti in questi quaranta giorni di Gesù nel deserto, per prepararsi alla sua missione: liberare ogni uomo dalla schiavitù – dai nostri deserti, dalle nostre solitudini, dai nostri fallimenti e peccati – per introdurlo nella libertà eterna del Cielo. La Liturgia ci invita oggi ad alzare gli occhi al Cielo, per ritrovare il disegno d’amore che Dio ha pensato per noi, per accoglierlo con fiducia, per unirci a Cristo nel combattimento contro il principe di questo mondo. Ascoltando l’amato del Padre – come ci dice la voce che parla dalla nube – diveniamo anche noi una cosa sola con Cristo, partecipi della sua teofania: diventiamo “familiari di Dio” (Ef 2,19), sotto la stessa “tenda”, la stessa “capanna”. (Pasotti)
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Cristo trasfigurato appare sempre nella stoltezza dell'annuncio

Commento al Vangelo della II Domenica di Quaresima - Anno B


"Non sapeva quello che diceva": come i tre apostoli sul Monte Tabor all'entrare nella nube, anche noi restiamo sovente infilzati a uno stupore pieno di paura; essa ci attanaglia di fronte all'abisso della nostra debolezza, dell'assoluta inadeguatezza, quando la verità ci si spalanca dinanzi e ci lascia di sasso. Quando appare nitida la sproporzione tra quello che dovremmo essere e quello che realmente siamo.
Madri, padri, preti, assolutamente impreparati, infarciti di debolezze e peccati. Incoerenti e pieni di contraddizioni. La paura che ha intontito i tre discepoli alla vista del loro Maestro trasfigurato. Una luce improvvisa, mai vista, lo sfolgorare d'una vita inattesa, proprio lì, da dentro la carne del loro amico.
Uno squilibrio, un miracolo, s'era dato di nuovo il prodigio di quel giorno quando, sul Sinai, il Santo consegnò la Torah a Mosè. Il cielo era sceso sulla terra, avevano visto Dio, ed erano rimasti vivi. E allora, spontaneo, sorge in Pietro il desiderio di issare subito tre tende, per coagulare quel momento prodigioso e così bello nella precarietà della vita; proprio come nella festa di Succot, quando si preparano le capanne, le tende come segno della permanenza del popolo nel deserto.
Dalla stessa "nube" che aveva guidato gli israeliti durante i quarant'anni dell'Esodo, la voce del Padre ripete agli Apostoli quello che aveva annunciato nel deserto: "Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!". 
Tra una mormorazione e l'altra, tra le maglie di una debolezza infinita, ogni ebreo aveva fatto l'incomparabile esperienza di poter (e dover) vivere del solo cibo della Parola di Dio, capace di trasformare la roccia in acqua. E quel cibo ora risplendeva nella carne trasfigurata di Gesù.
Pietro, attento ai segni come ogni buon ebreo, aveva saputo riconoscere in quell'evento il compimento dell'Esodo del suo Popolo; su quel Monte Dio aveva di nuovo parlato, ed era di una "bellezza" mai contemplata. Era "bello" quel momento, era "bello" starci dentro, era "bella" anche la precarietà, l'infinita distanza tra l'uomo e Dio, perché in Gesù essa era colmata, e benedetta: per questo Pietro non sapeva e non poteva dire altro che di fare tre tende per estendere a tutta l'esistenza la "bellezza" di quel momento; tre tende per entrare ogni giorno nella precarietà strappata al timore, nella debolezza circonfusa di luce, nella carne redenta dall'incorruttibilità.
Sul Tabor era accaduto quello che appare nelle icone orientali, la cui luce si diffonde dal centro del dipinto, ti attira e ti mette immediatamente in comunione con il soggetto, facendoti suo interlocutore in virtù dello squarcio di luce che ti raggiunge. Non a caso il primo soggetto che devono dipingere gli iconografi è proprio la Trasfigurazione: "La contemplazione delle icone, e in genere dei capolavori dell'arte cristiana, c'introduce in un percorso interiore, che è la via del superamento, e in questa purificazione dello sguardo, che è purificazione del cuore, ci di svela la bellezza, o almeno qualche suo raggio. E la bellezza ci mette in relazione con la forza della verità" (Joseph Ratzinger, Ferito dal dardo della bellezza).
Il percorso che siamo chiamati a compiere è dunque quello della contemplazione, che si dà nell'ascolto e nella visione, nell'esperienza. Sperimentare il perdono, la riconciliazione, la possibilità di ricominciare come una persona nuova, è questa la bellezza che rivela la forza della verità. la forza di Cristo, amore puro, amore infinito, amore bello.
Nell'episodio della Trasfigurazione è svelato dunque, come una profezia, il miracolo più grande, immagine della vittoria sulla morte che di lì a poco Gesù avrebbe compiuto nell'esodo di cui discorreva con Mosè ed Elia. La Legge e i Profeti lo avevano annunziato in varie forme: la luce della Pasqua avrebbe brillato nelle tenebre del sepolcro.
Lo splendore della vita immortale, la bellezza di Cristo crocifisso e risorto si svelava così, già sul monte Tabor, attraverso la Parola annunciata e ascoltata dai Tre protagonisti di quell'evento unico: Cristo trasfigurato appare sempre nella stoltezza dell'annuncio. Proprio il Vangelo, infatti, è la Trasfigurazione, la Buona notizia che ha messo in cammino Abramo verso una terra che non conosceva, qualcosa di assolutamente nuovo, un pezzo di paradiso, la terra promessa qui sulla terra delle lacrime.
Il Vangelo è la luce purissima nella carne votata alla morte. Tutto di noi ci parla di fine, di ineluttabilità, di morte. Prima o poi scenderà la saracinesca sul lavoro, sulla famiglia, sulla nostra stessa vita. E' la realtà alla quale tentiamo di sfuggire e che si ripresenta ad ogni angolo della nostra esistenza. La vita di ogni uomo, infatti, è un andare a Gerusalemme. 
Le tende che Pietro, a nome di tutta la Chiesa, voleva costruire, erano la profezia della Croce che lo Spirito Santo gli aveva ispirato. Esse ricordano il cammino che la comunità dei redenti ha da percorrere: non è il Tabor la meta, ma Gerusalemme. 
Ma è proprio nel cammino che ci conduce alla Croce che l'annunzio del Vangelo apre il cielo della Verità: ogni giorno la "nube" della presenza - shekinà di Dio ci attira e ci "copre con la sua ombra", come si è adagiaTa sulla Vergine Maria generando in Lei il Figlio di Dio, Colui che avrebbe vinto la morte.
Il Padre ci ha donato il seme della vita eterna, lo Spirito Santo effuso dal Signore risorto, la sua stessa vita che risplende nella Parola del Vangelo. Ogni giorno dalla nube che ci spaventa, il Padre ci indica "il suo Figlio eletto" e ci invita ad "ascoltarlo": "Shemà Israel, Ascolta Israele!". Ascoltare è amare l'unico Dio con tutta la mente, tutto il cuore e tutte le forze, l'unico cammino che conduce alla Vita eterna nella storia di ogni giorno, quando restiamo "soli con Gesù" come gli Apostoli al termine della Trasfigurazione.
Ascoltare per vivere nell'amore che ci fa cittadini del Cielo mentre dimoriamo sulla terra. La nostra vita trasfigurata, infatti, è una vita evangelizzata, illuminata dalla Buona notizia. Il Vangelo annunciato nel paradosso delle nostre debolezze e inadeguatezze. Il suo amore brilla esattamente nella nostra più totale debolezza, la luce della vita immortale risplende in noi dalla ferita più infamante, il suo perdono dov'è abbondato il peccato.
E' questa la notizia che aspetta ogni uomo, capace di trasfigurare in una luce di Pasqua anche l'esistenza più compromessa: la risposta a “che cosa significhi risorgere dai morti”! La notizia che strappa dalla morte e trasfigura il volto e il cuore del peccatore più incallito. Oggi, e ogni giorno, il Vangelo è la salvezza, è la Vita, è la bellezza. "E' bello stare con il Signore", proprio come diceva Pietro, e noi, nell'esperienza della Pasqua, possiamo ripeterlo e annunciarlo, perché stiamo imparando che la via alla Gloria deve passare per la Croce.
E' bello stare con Lui, dimorare nel suo amore, pellegrini e stranieri su questa terra, cercando e desiderando la Patria celeste, la tenda eterna, non fatta da mano d'uomo, la vita che non muore, trasfigurata eternamente.  
Comprendiamo così quale sia il cammino che ci indica la liturgia di questa domenica: quello di un pellegrino che compie l'esodo che lo conduce alla Terra promessa, la Vita eterna con Cristo. Un cammino impregnato di nostalgia, costellato di precarietà e debolezza, ma colmo di speranza, quella di coloro che hanno il cuore ferito dall'amato. 
E' vero che seguire il Signore è essere con Lui crocifissi. E' vero che ad ogni passo le stigmate del dolore ci trapassano il cuore. E' vero il male, è vero il peccato, è vera la morte. Ma è vera anche la Trasfigurazione di tutto, è vera la bellezza che supera e dà senso ad ogni cosa: "Nella passione di Cristo... l'esperienza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la "Bellezza in sé" si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine... Ma proprio in quel volto sfigurato appare l'autentica, estrema Bellezza dell' Amore che ama "sino alla fine", mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza. Soltanto chi sa cogliere questa bellezza comprende che proprio la verità, e non la menzogna, è l'estrema "affermazione" del mondo... Ma ad una condizione: che assieme a Lui ci lasciamo ferire, fidandoci di quell' Amore che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare proprio in questo modo la Verità della Bellezza" (Joseph Ratzinger). La bellezza crocifissa, la bellezza trasfigurata, la sua bellezza che è la nostra bellezza.

Discorso di Papa Francesco ai pellegrini membri della Confederazione Cooperative Italiane.


Discorso di Papa Francesco ai pellegrini membri della Confederazione Cooperative Italiane. "Il 'denaro è lo sterco del diavolo!' Quando il denaro diventa un idolo, comanda le scelte dell’uomo. E allora rovina l’uomo e lo condanna. Lo rende un servo".
Sala stampa della Santa Sede 


- Il segno (...) indica frasi aggiunte dal Santo Padre e pronunciate a braccio.
- "Si corre il rischio di illudersi di fare del bene mentre, purtroppo, si continua soltanto a fare marketing, senza uscire dal circuito fatale dell’egoismo delle persone e delle aziende."
- "Vi dico che fate bene – e vi dico anche di farlo sempre più – a contrastare e combattere le false cooperative, quelle che prostituiscono il proprio nome di cooperativa, cioè di una realtà assai buona, per ingannare la gente con scopi di lucro contrari a quelli della vera e autentica cooperazione."
Fratelli e sorelle, buongiorno!
(...) Grazie per questo incontro con voi e con la realtà che voi rappresentate, quella della cooperazione. (...) Voi siete innanzitutto la memoria viva di un grande tesoro della Chiesa italiana. Infatti, sappiamo che all’origine del movimento cooperativistico italiano, molte cooperative agricole e di credito, già nell’Ottocento, furono saggiamente fondate e promosse da sacerdoti e da parroci. (...)Tuttora, in diverse diocesi italiane, si ricorre ancora alla cooperazione come rimedio efficace al problema della disoccupazione e alle diverse forme di disagio sociale. (...) 
Tutto questo è assai noto. La Chiesa ha sempre riconosciuto, apprezzato e incoraggiato l’esperienza cooperativa. Lo leggiamo nei documenti del Magistero. Ricordiamo il grido lanciato nel 1891, con l’Enciclica Rerum Novarum, da Papa Leone XIII: “tutti proprietari e non tutti proletari”. E vi sono certamente note anche le pagine dell’Enciclica Caritas in Veritate, dove Benedetto XVI si esprime a favore della cooperazione nel credito e nel consumo (cfr nn. 65-66), sottolineando l’importanza dell’economia di comunione e del settore non profit (cfr n. 41), per affermare che il dio-profitto non è affatto una divinità, ma è solo una bussola e un metro di valutazione dell’attività imprenditoriale. Ci ha spiegato, sempre Papa Benedetto, come il nostro mondo abbia bisogno di un’economia del dono (cfr nn. 34-39), cioè di un’economia capace di dar vita a imprese ispirate al principio della solidarietà e capaci di “creare socialità”. Risuona, quindi, attraverso di voi, l’esclamazione che Leone XIII pronunciò, benedicendo gli inizi del movimento cooperativo cattolico italiano, quando disse che, per fare questo, «il Cristianesimo ha ricchezza di forza meravigliosa» (Enc. Rerum novarum, 15).
Queste, e molte altre affermazioni di riconoscimento e di incoraggiamento rivolte ai cooperatori da parte della Chiesa sono valide e attuali. Penso anche allo straordinario magistero sociale del beato Paolo VI. Tali affermazioni le possiamo confermare e rafforzare. Non è necessario perciò ripeterle o richiamarle per esteso.
Oggi, vorrei che il nostro dialogo non guardi solo al passato, ma si rivolga soprattutto in avanti: alle nuove prospettive, alle nuove responsabilità, alle nuove forme di iniziativa delle imprese cooperative. E’ una vera missione che ci chiede fantasia creativa per trovare forme, metodi, atteggiamenti e strumenti, per combattere la “cultura dello scarto” (...) coltivata dai poteri che reggono le politiche economico-finanziarie del mondo globalizzato. (...) 
Globalizzare la solidarietà, oggi, significa pensare all’aumento vertiginoso dei disoccupati, alle lacrime incessanti dei poveri, alla necessità di riprendere uno sviluppo che sia un vero progresso integrale della persona che ha bisogno certamente di reddito, ma non soltanto del reddito! Pensiamo ai bisogni della salute, che i sistemi di welfare tradizionale non riescono più a soddisfare; alle esigenze pressanti della solidarietà, ponendo di nuovo, al centro dell’economia mondiale, la dignità della persona umana. (...) Come direbbe ancora oggi il Papa Leone XIII: per globalizzare la solidarietà “il Cristianesimo ha ricchezza di forza meravigliosa!”.
Quindi non fermatevi a guardare soltanto quello che avete saputo realizzare. Continuate a perfezionare, a rafforzare e ad aggiornare le buone e solide realtà che avete già costruito. Però abbiate anche il coraggio di uscire da esse, carichi di esperienza e di buoni metodi, per portare la cooperazione sulle nuove frontiere del cambiamento, fino alle periferie esistenziali dove la speranza ha bisogno di emergere e dove, purtroppo, il sistema socio-politico attuale sembra invece fatalmente destinato a soffocare la speranza (...) incrementando rischi e minacce. 
Questo grande balzo in avanti che ci proponiamo di far compiere alla cooperazione, vi darà conferma che tutto quello che già avete fatto non solo è positivo e vitale, ma continua anche ad essere profetico. Per questo dovete continuare a inventare (...) nuove forme di cooperazione, perché anche per le cooperative vale il monito: quando l’albero mette nuovi rami, le radici sono vive e il tronco è forte!
Qui, oggi, voi rappresentate valide esperienze in molteplici settori: dalla valorizzazione dell’agricoltura, alla promozione dell’edilizia di nuove case per chi non ha casa, dalle cooperative sociali fino al credito cooperativo, qui largamente rappresentato, dalla pesca all’industria, alle imprese, alle comunità, al consumo, alla distribuzione e a molti altri tipi di servizio. So bene che questo elenco è incompleto, ma è abbastanza utile per comprendere quanto sia prezioso il metodo cooperativo. (...) Si è rivelato tale di fronte a molte sfide. E lo sarà ancora! Ogni apprezzamento e ogni incoraggiamento rischiano però di rimanere generici. Voglio offrirvi, invece, alcuni incoraggiamenti concreti.
Il primo è questo: le cooperative devono continuare ad essere il motore che solleva e sviluppa la parte più debole delle nostre comunità locali e della società civile. (...) Per questo occorre mettere al primo posto la fondazione di nuove imprese cooperative, insieme allo sviluppo ulteriore di quelle esistenti, in modo da creare soprattutto nuove possibilità di lavoro che oggi non ci sono.
Il pensiero corre innanzitutto ai giovani, perché sappiamo che la disoccupazione giovanile,  drammaticamente elevata, (...) distrugge in loro la speranza. Ma pensiamo anche alle tante donne che hanno bisogno e volontà di inserirsi nel mondo del lavoro. Non trascuriamo gli adulti che spesso rimangono prematuramente senza lavoro. (...)Oltre alle nuove imprese, guardiamo anche alle aziende che sono in difficoltà, a quelle che ai vecchi padroni conviene lasciar morire e che invece possono rivivere con le iniziative che voi chiamate “Workers buy out” (“empresas recuperadas”), aziende salvate. (...) 
Un secondo incoraggiamento - non per importanza - è quello di attivarvi come protagonisti per realizzare nuove soluzioni di Welfare, in particolare nel campo della sanità, un campo delicato dove tanta gente povera non trova più risposte adeguate ai propri bisogni. Conosco che cosa fate da anni con cuore e con passione, nelle periferie delle città e della nostra società, per le famiglie, i bambini, gli anziani, i malati e le persone svantaggiate e in difficoltà per ragioni diverse, portando nelle case cuore e assistenza. La carità è un dono! Non è un semplice gesto per tranquillizzare il cuore! (...) Un dono senza il quale non si può entrare nella casa di chi soffre. Nel linguaggio della dottrina sociale della Chiesa questo significa fare leva sulla sussidiarietà con forza e coerenza: significa mettere insieme le forze! 
Come sarebbe bello se, partendo da Roma, tra le cooperative, alle parrocchie e agli ospedali, penso al “Bambin Gesù” in particolare, potesse nascere una rete efficace di assistenza e di solidarietà. E la gente, a partire dai più bisognosi, venisse posta al centro di tutto questo movimento solidale. (...) Questa è la missione che ci proponiamo! A voi sta il compito di inventare soluzioni pratiche, di far funzionare questa rete nelle situazioni concrete delle vostre comunità locali, partendo proprio dalla vostra storia, con il vostro patrimonio di conoscenze per coniugare l’essere impresa e allo stesso tempo non dimenticare che al centro di tutto c’è la persona. 
Tanto avete fatto, e ancora tanto c’è da fare! Andiamo avanti!
Il terzo incoraggiamento riguarda l’economia, il suo rapporto con la giustizia sociale, con la dignità e il valore delle persone. E’ noto che un certo liberismo crede che sia necessario prima produrre ricchezza, e non importa come, per poi promuovere qualche politica redistributiva da parte dello Stato. (...) Altri pensano che sia la stessa impresa a dover elargire le briciole della ricchezza accumulata, assolvendo così alla propria cosiddetta “responsabilità sociale”. Si corre il rischio di illudersi di fare del bene mentre, purtroppo, si continua soltanto a fare marketing, senza uscire dal circuito fatale dell’egoismo delle persone e delle aziende. (...) 
Invece noi sappiamo che realizzando una qualità nuova di economia, si crea la capacità di far crescere le persone in tutte le loro potenzialità. Ad esempio: il socio della cooperativa non deve essere solo un fornitore, un lavoratore, un utente ben trattato, dev’essere sempre il protagonista, deve crescere, attraverso la cooperativa, come persona, socialmente e professionalmente, nella responsabilità, nel concretizzare la speranza, nel fare insieme. Non dico che non si debba crescere nel reddito, ma ciò non basta: occorre che l’impresa gestita dalla cooperativa cresca davvero in modo cooperativo, cioè coinvolgendo tutti. (...) 
“Cooperari”, nell’etimologia latina, significa operare insieme, e quindi lavorare, aiutare, contribuire a raggiungere un fine. Non accontentatevi mai della parola “cooperativa” senza avere la consapevolezza della vera sostanza e dell’anima della cooperazione.
Il quarto suggerimento è questo: se ci guardiamo attorno non accade mai che l’economia si rinnovi in una società che invecchia, invece di crescere. Il movimento cooperativo può esercitare un ruolo importante per sostenere, facilitare e anche incoraggiare la vita delle famiglie. Realizzare la conciliazione, o forse meglio l’armonizzazione tra lavoro e famiglia, è un compito che avete già avviato e che dovete realizzare sempre di più. Fare questo significa anche aiutare le donne a realizzarsi pienamente nella propria vocazione e nel mettere a frutto i propri talenti. Donne libere di essere sempre più protagoniste, sia nelle imprese sia nelle famiglie! So bene che le cooperative propongono già tanti servizi e tante formule organizzative, come quella mutualistica, che vanno incontro alle esigenze di tutti, dei bambini e degli anziani in particolare, dagli asili nido fino all’assistenza domiciliare. Questo è il nostro modo di gestire i beni comuni, quei beni che non devono essere solo la proprietà di pochi e non devono perseguire scopi speculativi.
Il quinto incoraggiamento forse vi sorprenderà! Per fare tutte queste cose ci vuole denaro! Le cooperative in genere non sono state fondate da grandi capitalisti, anzi si dice spesso che esse siano strutturalmente sottocapitalizzate. Invece, il Papa vi dice: dovete investire, e dovete investire bene! In Italia certamente, ma non solo, è difficile ottenere denaro pubblico per colmare la scarsità delle risorse. La soluzione che vi propongo è questa: mettete insieme con determinazione i mezzi buoni per realizzare opere buone. Collaborate di più tra cooperative bancarie e imprese, organizzate le risorse per far vivere con dignità e serenità le famiglie; pagate giusti salari ai lavoratori, investendo soprattutto per le iniziative che siano veramente necessarie. (...) 
Diceva Basilio di Cesarea, Padre della Chiesa del IV secolo, ripreso poi da san Francesco d’Assisi, che “il denaro è lo sterco del diavolo”. Lo ripete ora anche il Papa: “il denaro è lo sterco del diavolo”! Quando il denaro diventa un idolo, comanda le scelte dell’uomo. E allora rovina l’uomo e lo condanna. Lo rende un servo. Il denaro a servizio della vita può essere gestito nel modo giusto dalla cooperativa, se però è una cooperativa autentica, vera, dove non comanda il capitale sugli uomini ma gli uomini sul capitale. 
Per questo vi dico che fate bene – e vi dico anche di farlo sempre più – a contrastare e combattere le false cooperative, quelle che prostituiscono il proprio nome di cooperativa, cioè di una realtà assai buona, per ingannare la gente con scopi di lucro contrari a quelli della vera e autentica cooperazione. Fate bene, vi dico, perché, nel campo in cui operate, assumere una facciata onorata e perseguire invece finalità disonorevoli e immorali, spesso rivolte allo sfruttamento del lavoro, oppure alle manipolazioni di mercato, e persino a scandalosi traffici di corruzione, è una vergognosa e gravissima menzogna che non si può assolutamente accettare. (...) 
L’economia cooperativa, se è autentica, se vuole svolgere una funzione sociale forte, se vuole essere protagonista del futuro di una nazione e di ciascuna comunità locale, deve perseguire finalità trasparenti e limpide. Deve promuovere l’economia dell’onestà! Un’economia risanatrice nel mare insidioso dell’economia globale. Una vera economia promossa da persone che hanno nel cuore e nella mente soltanto il bene comune.  
Le cooperative hanno una tradizione internazionale forte. Anche in questo siete stati dei veri pionieri! Le vostre associazioni internazionali sono nate con grande anticipo su quelle che le altre imprese hanno creato in tempi molto successivi. Ora c’è la nuova grande globalizzazione, che riduce alcuni squilibri ma ne crea molti altri. Il movimento cooperativo, pertanto, non può rimanere estraneo alla globalizzazione economica e sociale, i cui effetti arrivano in ogni paese, e persino dentro le nostre case.
Ma le cooperative partecipano alla globalizzazione come le altre imprese? (...) Esiste un modo originale che permetta alle cooperative di affrontare le nuove sfide del mercato globale? Come possono le cooperative partecipare allo sviluppo della cooperazione salvaguardando i principi della solidarietà e della giustizia? Lo dico a voi per dirlo a tutte le cooperative del mondo: le cooperative non possono rimanere chiuse in casa, ma nemmeno uscire di casa come se non fossero cooperative. (...) Occorre avere il coraggio e la fantasia di costruire la strada giusta per integrare, nel mondo, lo sviluppo, la giustizia e la pace.
Infine, non lasciate che viva solo nella memoria la collaborazione del movimento cooperativo con le vostre parrocchie e con le vostre diocesi. Le forme della collaborazione devono essere diverse, rispetto a quelle delle origini, ma il cammino deve essere sempre lo stesso! Dove ci sono le vecchie e nuove periferie esistenziali, dove ci sono persone svantaggiate, dove ci sono persone sole e scartate, dove ci sono persone non rispettate, tendete loro la mano! Collaborate tra di voi, nel rispetto dell’identità vocazionale di ognuno, tenendovi per mano!
So che da alcuni anni voi state collaborando con altre associazioni cooperativistiche – anche se non legate alla nostra storia e alle nostre tradizioni – per creare un’Alleanza delle cooperative e dei cooperatori italiani. Per ora è un’Alleanza in divenire, ma voi confidate di giungere ad una Associazione unica, ad un’Alleanza sempre più vasta fra cooperatori e cooperative. Il movimento cooperativo italiano ha una grande tradizione, rispettata nel mondo cooperativistico internazionale. La missione cooperativa in Italia è stata molto legata fin dalle origini alle identità, ai valori e alle forze sociali presenti nel paese. Questa identità, per favore, rispettatela! Tuttavia, spesso le scelte che distinguevano e dividevano sono state a lungo più forti delle scelte che, invece, accomunavano e univano gli sforzi di tutti. Ora voi pensate di poter mettere al primo posto ciò che invece vi unisce. E proprio intorno a quello che vi unisce, che è la parte più autentica, più profonda e più vitale delle cooperative italiane, volete costruire la vostra nuova forma associativa.
Fate bene a progettare così, e così fate un passo avanti! Certo, vi sono cooperative cattoliche e cooperative non cattoliche. Ma la fede si salva rimanendo chiusi in se stessi? (...) Rimanendo solo tra di noi? Vivete la vostra Alleanza da cristiani, come risposta alla vostra fede e alla vostra identità senza paura! (...) Andate avanti, dunque, e camminate insieme con tutte le persone di  buona volontà! (...)

Il difficile compito di evitare la fine dei cristiani d'Oriente



Il tweet di Papa Francesco: "Gesù intercede per noi, ogni giorno. Preghiamo:Signore, abbi pietà di me; intercedi per me!" (28 febbraio 2015)

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Il difficile compito di evitare la fine dei cristiani d'Oriente
di Andrea Riccardi

I cristiani dei villaggi intorno ad Hassaké, ìn Siria, sono stati rapiti dai miliziani dell'Isis (alcuni sembra siano stati uccisi). È l'ultimo atto della più che millenaria storia cristiana in Siria. Molti cristiani fuggono, alcuni scelgono di difendersi, affiancandosi ai curdi. Nelle terre del califfato non c'è più spazio per loro. In Iraq, le truppe fondamentaliste hanno scacciato i fedeli cristiani dalla valle di Ninive e dalla città di Mosul. Uno Stato totalitario musulmano non può accettare queste minoranze che, invece, sono sopravvissute a tutti i regimi islamici dal primo millennio. Anche le tracce del Cristianesimo vanno cancellate: sono divelte le croci, bruciate le chiese e perfino le preziose biblioteche cristiane di Mosul. In questa città, qualche settimana fa, è stato arrestato un libraio che vendeva anche testi cristiani. Sì, i cristiani sembrano rendere «impura» la terra redenta del totalitarismo musulmano. 
Siamo alla fine dei cristiani d'Oriente? In Siria e Iraq, sembra proprio di sì. Pochi cristiani restano in quel 40% della Siria controllato da Assad: a Damasco e ad Aleppo, assediata e quasi isolata. Forte è l'attaccamento di queste comunità alle loro terre ancestrali, tanto da sfidare l'umiliazione di essere cittadini di seconda categoria per secoli, nonostante il loro contributo storico alla civiltà araba. Ormai chi può si rifugia in Libano o altrove. Ma anche il Libano è tanto fragile, con un milione e 435 mila rifugiati siriani, mentre non riesce a trovare il consenso necessario per eleggere il presidente. Nonostante tutto, esso è ancora lo spazio più libero e sicuro per i cristiani mediorientali, con le loro università e istituzioni, e i patriarcati. Ma il futuro del Libano è profondamente incerto. 
Esiste in Egitto una grande comunità cristiana, i copti, con quasi otto milioni di fedeli: il 14 per cento della popolazione del Paese. Questa è la più grande Chiesa cristiana nel mondo arabo, con un importante radicamento popolare, e forte vitalità. L'Isis ha voluto sfidarla in modo plateale, uccidendo 21 lavoratori copti sulle rive del Mediterraneo in Libia. È stato un assassinio che ha fatto tremare i cristiani di tutto il mondo arabo: era un avvertimento? I copti egiziani hanno recentemente vissuto tempi difficili, durante il governo del presidente Morsi, ma ora appoggiano con decisione il presidente Al Sisi, considerandolo una garanzia essenziale per il loro futuro. Il patriarca copto Tawadros e il gran Imam di Al Azhar, Al Tayeb, formano un fronte religioso moderato che sostiene l'attuale corso politico in Egitto. Molti si interrogano su quale sarà il futuro dei copti se i fratelli musulmani dovessero riemergere sulla scena politica. 
In ogni modo, i copti giocano realisticamente la loro partita per la sopravvivenza. Del resto, i cristiani d'Oriente hanno avuto timore delle primavere arabe. Sono vicini al presidente Assad in Siria, considerandolo un baluardo contro il fondamentalismo. In Egitto, i copti sono stati consapevoli dell'ambiguità del raìs Mubarak, che si atteggiava a loro protettore ma i cui servizi colpivano la chiesa copta dei Santi ad Alessandria d'Egitto. Tuttavia Mubarak sembrava loro una garanzia rispetto al caos. È il realismo doloroso dei cristiani d'Oriente, spesso alla ricerca di un difensore, fossero i regimi arabi o l'occidente. I cristiani orientali vengono da una storia tanto dolorosa. 
Il Novecento si è aperto con la strage degli Armeni e dei cristiani nell'Impero ottomano nel 1915: 1,5 milioni di morti. I cristiani erano circa il 18 per cento della popolazione anatolica, e sono quasi tutti scomparsi. I perseguitati di Hassaké in realtà discendono da cristiani dell'Anatolia rifugiatisi in Siria dopo la Prima guerra mondiale. Contavano sulla protezione della Francia, potenza mandataria; hanno vissuto nella Siria indipendente come una minoranza, rispettata anche se discriminata. Ma ora l'esodo riprende. 
Senza cristiani il mondo arabo musulmano non sarà più lo stesso: diverrà totalitario. È quanto il califfato vuole. Ma è la fine di un mondo. Rischiano di scomparire gli ultimi discendenti delle comunità cristiane delle origini. La liturgia dei cristiani siriaci ha una forte connessione con la tradizione ebraico-aramaica. Non finisce, però, qualcosa di archeologico. Si mette in discussione la possibilità di convivenza tra cristiani e musulmani. Si dà voce a quanti sostengono l'incompatibilità totale dell'Islam con il Cristianesimo. La storia non conferma questa incompatibilità, anche se la convivenza è stata difficile. 
Quello che avviene sotto i nostri occhi è assurdo sotto tanti profili, Nel mondo globale, dove popoli diversi si mischiano, appare evidente la follia di questa pulizia religiosa. Viene da chiedersi che fare. Bisogna riportare la pace in Siria, e ricostruire il Paese. La comunità internazionale (Occidente, Russia, Turchia, Paesi Arabi), deve trovare la via dell'intesa, senza cui è impossibile «imporre» la pace. Il cessate il fuoco su Aleppo, accettato dal presidente Assad nel colloquio con l'inviato Staffan de Mistura, è un inizio. Ma non si può perdere tempo. La fine dei cristiani d'Oriente è l'ultimo segno di un mondo che crolla. Non possiamo assistere inerti.
Corriere della Sera

Estremismi che feriscono la Chiesa



Dalla lettura troppo rigida dei testi patristici il rischio di un fondamentalismo ortodosso. 

(Giovanni Zavatta) «È ora che i gerarchi ortodossi e i responsabili laici proclamino in maniera generale che ricorrere ai Padri della Chiesa non significa aderire servilmente a un insieme di proposizioni fossilizzate, usate per autopromuoversi. L’importanza dei Padri risiede nel loro sincero e profondo mettersi alla ricerca di Dio e nella loro volontà di condividerlo con il mondo. La lettura fondamentalista dei Padri e della Bibbia non conduce a Dio ma all’idolatria». In un articolo pubblicato alcuni giorni fa su «Parlons d’orthodoxie» (blog collettivo e piattaforma libera di discussione della Chiesa ortodossa russa in Francia), George Demacopoulos, docente di Teologia storica e direttore cofondatore del Centro studi cristiano ortodosso alla Fordham University di New York, lancia un grido d’allarme: «In questi ultimi anni sia chierici sia monaci ortodossi stanno facendo dichiarazioni che riflettono un approccio “fondamentalista” ai Padri della Chiesa. Se i dirigenti della Chiesa ortodossa non si uniscono per denunciare tale tendenza, l’intera Chiesa ortodossa rischia di essere trascinata da questi estremisti».
La tesi di Demacopoulos — che dal patriarcato di Costantinopoli è stato insignito dell’onorificenza più alta, quella di arconte — è ampiamente condivisa da Vladimir Golovanow, noto analista del blog (legato alla diocesi di Chersoneso e quindi al patriarcato di Mosca): se non si impedisce la radicalizzazione della corrente fondamentalista, l’ortodossia «rischia di andare verso un nuovo importante scisma come quello dei Vecchi credenti che trecentocinquant’anni fa si separarono dalla Chiesa russa», in segno di protesta contro le riforme ecclesiastiche introdotte dal patriarca Nikon. Il timore, dunque, è «totalmente giustificato» e si riflette anche nei risultati di un sondaggio lanciato su «Parlons d’orthodoxie»: solo il sette per cento dei lettori ritiene che l’unità della Chiesa ortodossa sia sufficientemente visibile e chiaramente affermata oggi; tutti gli altri hanno risposto di no, spiegando che la Chiesa ortodossa ha difficoltà a manifestarla e che l’unità è nascosta da un autocefalismo esacerbato.
Nessuno mette in discussione che il rispetto per i Padri della Chiesa (da san Basilio il Grande a san Gregorio il Teologo, a san Massimo il Confessore) sia una delle pietre angolari dell’ortodossia e che il loro pensiero resti guida essenziale per la vita e la fede dei cristiani ortodossi, ma ridurre — afferma Demacopoulos — «tutto l’insegnamento a un sotto-insieme di assiomi teologici, e misurare l’accettazione degli altri secondo quei criteri», è profondamente sbagliato. L’igumeno Pierre Meschtcherinov, del monastero di San Daniele a Mosca, citato da Golovanow, è sulla stessa lunghezza d’onda quando parla di “sottocultura normativa”, di ecclesiologia superficiale, di pietà liturgica rigida, di pratiche di direzione spirituale autoritarie. Occorrerebbe invece «analizzare in modo critico le formulazioni dei Padri, separare l’essenza delle Chiese dalle contingenze politiche-economiche-ideologiche attuali, e liberarsi dal peso della storia per comprendere la Chiesa in maniera più personale». In estrema sintesi, si vuole una lettura dei Padri della Chiesa aperta alla riflessione e in cerca di risposte alle sfide del mondo attuale.
Secondo Demacopoulos, l’errore intellettuale più grande del fondamentalismo ortodosso risiede nel presupposto che i Padri della Chiesa fossero d’accordo su tutte le questioni teologiche ed etiche. Errore legato all’ipotesi che, nel tempo, la teologia ortodossa non sia mai cambiata. L’esperto segnala altre false argomentazioni: che la comunità monastica sia sempre stata il guardiano dell’insegnamento ortodosso; che i Padri della Chiesa fossero anti-intellettuali; che l’adesione ai loro insegnamenti implichi necessariamente il rifiuto di tutto ciò che proviene dall’Occidente. Ecco allora che la (giusta) pretesa di proteggere la fede ortodossa dalla corruzione della modernità si estende, fino a scagliarsi contro chiunque (persone, istituzioni, interi rami della Chiesa ortodossa) «non soddisfi le norme autoproclamate dell’insegnamento ortodosso». Fa parte di queste manifestazioni fondamentaliste l’«inquietudine» della comunità monastica del Monte Athos provocata dalla visita di Papa Francesco al Phanar il 29-30 novembre 2014 e dal suo abbraccio con il patriarca di Costantinopoli, espressa recentemente in una lettera indirizzata allo stesso Bartolomeo. Posizioni che influiscono negativamente anche sul dialogo ecumenico, nutrite come sono — osserva padre Vladimir Zelinskij, dell’arcivescovado per le Chiese ortodosse russe in Europa occidentale (esarcato del patriarcato ecumenico) — dall’«ossessione della purezza confessionale, sempre unita alla pesante ideologia delle vecchie diffidenze, ferite, offese, rancori, ostilità». Quando, scrive Papa Francesco nell’Evangelii gaudium, «siamo noi che pretendiamo la diversità e ci rinchiudiamo nei nostri particolarismi, nei nostri esclusivismi, provochiamo la divisione e, d’altra parte, quando siamo noi che vogliamo costruire l’unità con i nostri piani umani, finiamo per imporre l’uniformità, l’omologazione. Questo non aiuta la missione della Chiesa» (n. 131).
In un’epoca in cui tanti giovani si disinteressano totalmente della propria appartenenza religiosa — conclude Demacopoulos — «i progressi dell’ideologia fondamentalista nelle parrocchie conducono a una situazione dove i nostri ragazzi sono portati a scegliere fra estremismo religioso e assenza totale di religione».
Alexandre Schmemann, uno dei più importanti teologi ortodossi del ventesimo secolo, scriveva che «la teologia ortodossa deve conservare i suoi fondamenti patristici ma anche andare al di là dei Padri se vuole rispondere a una nuova situazione creata da secoli di sviluppo filosofico. E in questa nuova sintesi di ricostruzione, la tradizione filosofica occidentale (fonte e madre della filosofia religiosa russa del XIX e XX secolo), più di quella ellenica, deve fornire alla teologia un quadro concettuale». Si tratta di «“trasporre” la teologia in un’altra “chiave” e tale trasposizione è considerata il compito specifico e la vocazione della teologia russa».
L'Osservatore Romano

Esempi di fede (V): Maria, modello e maestra di fede

“Se vogliamo capire che cos’è la fede – ha detto Papa Francesco –, dobbiamo narrare il suo percorso, il cammino degli uomini credenti”.

Opus Dei - Esempi di fede (V): Maria, modello e maestra di fede

Dopo aver meditato su diversi aspetti della fede attraverso la vita di alcune grandi figure dell'Antico Testamento – Abramo, Mosè, Davide, Elia –, continuiamo a percorrere la storia della nostra fede anche attraverso alcuni personaggi del Nuovo Testamento, dove, con Cristo, la Rivelazione raggiunge pienezza e compimento: Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio[1].
Icona perfetta della fede
Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge[2]. Nel comportamento di fede della Santissima Vergine si è concentrata tutta la speranza dell'Antico Testamento nell'arrivo del Salvatore: « In Maria, [...] si compie la lunga storia di fede dell'Antico Testamento, con il racconto di tante donne fedeli, a cominciare da Sara; donne che, accanto ai patriarchi, erano il luogo in cui la promessa di Dio si compiva, e la vita nuova sbocciava»[3]. Come Abramo - «nostro padre nella fede»[4] -, che lasciò la sua terra confidando nella promessa di Dio, Maria si abbandona con assoluta fiducia nella parola che l'Angelo le annuncia, diventando in tal modo modello e madre dei credenti. La Madonna, «icona perfetta della fede»[5], credette che nulla fosse impossibile a Dio e fece in modo che il Verbo abitasse tra gli uomini.
Nostra Madre è modello di fede. « Per fede Maria accolse la parola dell'Angelo e credette all'annuncio che sarebbe divenuta Madre di Dio nell'obbedienza della sua dedizione (cfr Lc 1, 38). Visitando Elisabetta innalzò il suo canto di lode all'Altissimo per le meraviglie che compiva in quanti si affidano a Lui (cfr Lc 1, 46-55). Con gioia e trepidazione diede alla luce il suo unico Figlio, mantenendo intatta la verginità (cfr Lc 2, 6-7). Confidando in Giuseppe, suo sposo, portò Gesù in Egitto per salvarlo dalla persecuzione di Erode (cfr Mt 2, 13-15). Con la stessa fede seguì il Signore nella sua predicazione e rimase con Lui fin sul Golgota (cfrGv 19, 25-27). Con fede Maria assaporò i frutti della risurrezione di Gesù e, custodendo ogni ricordo nel suo cuore (cfr Lc 2, 19.51), lo trasmise ai Dodici riuniti con lei nel Cenacolo per ricevere lo Spirito Santo (cfr At 1, 14; 2, 1-4)»[6].
La Santissima Vergine visse la fede in una esistenza pienamente umana, quella di una donna comune. Non furono risparmiate a Maria, durante la sua vita terrena, né l'esperienza del dolore, né la stanchezza del lavoro, né il chiaroscuro della fede. A quella donna che un giorno proruppe in lodi a Gesù esclamando: Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte, il Signore risponde: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano (Lc 11, 27-28). Era l'elogio di sua Madre, del suo fiat (Lc 1, 38), sincero, pieno di dedizione, portato a compimento fino alle ultime conseguenze, che non si sarebbe manifestato in gesti spettacolari, ma nel sacrificio nascosto e silenzioso di ogni giorno[7].
La Santissima Vergine «vive interamente della e nella relazione con il Signore; è in atteggiamento di ascolto, attenta a cogliere i segni di Dio nel cammino del suo popolo; è inserita in una storia di fede e di speranza nelle promesse di Dio, che costituisce il tessuto della sua esistenza»[8].
Maestra di fede
Grazie alla fede, Maria penetrò nel Mistero di Dio Uno e Trino come non è stato mai dato a nessuna creatura e, come «madre della nostra fede»[9], ci ha reso partecipi di questa conoscenza. Non riusciremo mai ad approfondire a sufficienza questo ineffabile mistero; non potremo mai ringraziare a sufficienza la Madonna per averci reso così familiare la Trinità Beatissima[10].
La Madonna è maestra di fede. Ogni dimostrazione di fede in una esistenza ha in Santa Maria il suo prototipo: l'impegno con Dio e il saper vivere le circostanze della vita ordinaria alla luce della fede, anche nei momenti di oscurità. Maria ci insegna a essere completamente disponibili al volere divino «anche se è misterioso, anche se spesso non corrisponde al proprio volere ed è una spada che trafigge l'anima, come profeticamente dirà il vecchio Simeone a Maria, al momento in cui Gesù viene presentato al Tempio (cfr Lc 2, 35)»[11]. La sua piena adesione al Dio fedele e alle sue promesse non diminuisce, anche se le parole del Signore sono difficili da intendere e apparentemente impossibili da accogliere.
Ecco perché, se la nostra fede è debole, ricorriamo a Maria[12]. Nelle tenebre della Croce, la fede e la docilità della Madonna danno un frutto inatteso. In Giovanni, Cristo affida a sua Madre tutti gli uomini, e specialmente i suoi discepoli: coloro che avrebbero creduto in Lui[13]. La sua maternità si estende a tutto il Corpo Mistico del Signore. Gesù ci dà come madre sua Madre, ci mette sotto la sua tutela, ci offre la sua intercessione. Per questo motivo la Chiesa invita incessantemente i fedeli a ricorrere con particolare devozione a Maria.
La nostra fragilità non è di ostacolo alla grazia. Dio ne tiene conto e per questo ci ha dato una madre. «In questa lotta che i discepoli di Gesù devono affrontare – noi tutti, tutti i discepoli di Gesù dobbiamo affrontare questa lotta – Maria non li lascia soli; la Madre di Cristo e della Chiesa è sempre con noi. Sempre cammina con noi, è con noi [...], ci accompagna, lotta con noi, sostiene i cristiani nel combattimento contro le forze del male»[14].
Della scuola della fede, la Madonna è la migliore maestra, perché è rimasta sempre in un atteggiamento di fiducia, di apertura, di visione soprannaturale, qualunque cosa succedesse attorno a Lei. Così ce la presenta il Vangelo: Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore[15]Cerchiamo anche noi di imitarla, parlando con il Signore, in un dialogo innamorato, di tutto ciò che ci succede, anche degli avvenimenti più minuti. Non dimentichiamo di doverli soppesare, valutare, vedere con occhi di fede, per scoprire la Volontà di Dio[16]. Il suo percorso di fede, anche se in modo diverso, è simile a quello di ognuno di noi: vi sono momenti di luce, ma anche momenti alquanto oscuri riguardo alla Volontà divina: quando ritrovarono Gesù nel Tempio, Maria e Giuseppe non compresero le sue parole[17]. Se, come la Madonna, accogliamo il dono della fede e riponiamo nel Signore tutta la nostra fiducia, vivremo ogni situazione cum gaudio et pace – con la gioia e la pace dei figli di Dio –.
Imitare la fede di Maria
« Così, in Maria, il cammino di fede dell'Antico Testamento è assunto nella sequela di Gesù e si lascia trasformare da Lui, entrando nello sguardo proprio del Figlio di Dio incarnato»[18]. Nell'Annunciazione la risposta della Madonna riassume la sua fede come impegno, come donazione, come vocazione: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto[19]. Come Maria Santissima, noi cristiani dobbiamo vivere al cospetto di Dio, pronunciando quel fiat mihi secundum verbum tuum [...] da cui dipende la fedeltà alla vocazione personale, sempre unica e intrasferibile, e che ci rende cooperatori dell'opera di salvezza che Dio realizza in noi e nel mondo intero[20].
Ma, come si può rispondere sempre con una fede ferma come quella di Maria, senza perdere la fiducia in Dio? Imitandola, facendo in modo che nella nostra vita sia presente quel suo atteggiamento di fondo davanti alla vicinanza di Dio: non prova timore o sfiducia, ma «entra in intimo dialogo con la Parola di Dio che le è stata annunciata, non la considera superficialmente, ma si sofferma, la lascia penetrare nella sua mente e nel suo cuore per comprendere ciò che il Signore vuole da lei, il senso dell'annuncio»[21]. Come la Madonna, cerchiamo di raccogliere nel nostro cuore tutto ciò che ci accade, riconoscendo che ogni cosa proviene dalla Volontà di Dio. Maria guarda in profondità, riflette, valuta, e così comprende i differenti avvenimenti grazie alla comprensione che soltanto la fede può dare. Magari fosse questa – con l'aiuto di nostra Madre – la nostra risposta.
Imitare Maria, lasciare che ci prenda per mano, contemplare la sua vita, ci porta a suscitare anche in coloro che ci stanno accanto – parenti e amici – una maggiore apertura alla luce della fede: con l'esempio di una vita coerente, con colloqui personali, di amicizia e confidenza, con l'indispensabile dottrina, in modo da rendere più facile per loro l'incontro personale con Cristo attraverso i sacramenti e le pratiche di pietà, durante il lavoro e durante il riposo. Se ci identifichiamo con Maria, se imitiamo le sue virtù, potremo far sì che Cristo nasca, per virtù della grazia, nell'anima di molti che si identificheranno con Lui per opera dello Spirito Santo. Se imitiamo Maria, in qualche modo parteciperemo alla sua maternità spirituale. In silenzio, come la Madonna; senza farlo notare, quasi senza parole, con la testimonianza di un comportamento cristiano, integro e coerente, con la generosità di ripetere senza sosta un fiat che rinnovi costantemente la nostra intimità con Dio[22].
* * *
Guardando Maria, chiediamole di aiutarci a vivere di fede e a riconoscere Gesù presente nella nostra vita: fede che nulla è paragonabile con l'Amore di Dio che ci è stato donato; fede che nulla è impossibile per colui che lavora per Cristo e con Lui nella sua Chiesa; fede che tutti gli uomini possono convertirsi a Dio; fede che malgrado le proprie miserie e le proprie sconfitte possiamo riprenderci completamente con l'aiuto suo e degli altri; fede nei mezzi di santità che Dio ha messo nella sua Opera, nel valore soprannaturale del lavoro e delle piccole cose; fede che possiamo ricondurre questo mondo a Dio se non ci allontaniamo mai da Lui. In definitiva, fede nel fatto che Dio mette ciascuno nelle migliori condizioni – di salute o di malattia, di situazione personale, di ambito lavorativo, ecc. – per riuscire a essere santi, se corrispondiamo con la nostra lotta quotidiana.
Gesù Cristo pone questa condizione: vivere di fede per essere poi capaci di muovere le montagne. Sono tante le cose da rimuovere... nel mondo, ma innanzitutto nel nostro cuore. Tanti ostacoli alla grazia! Fede, quindi; fede operativa, fede disposta al sacrificio, fede umile. La fede ci trasforma in creature onnipotenti: e tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, l'otterrete (Mt 21, 22)[23]. Spinti dalla forza della fede, diciamo a Gesù: Signore, credo! Ma tu aiutami perché possa credere di più e meglio! E rivolgiamo la nostra preghiera anche a Maria, Madre di Dio e Madre nostra, Maestra di fede: beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore (Lc1, 45)[24]. «Madre, aiuta la nostra fede!»[25].
F. Suárez – J. Yániz (luglio 2013)


[1] Eb 1, 1-2.
[2] Gal 4, 4.
[3] Papa Francesco, Lettera enc. Lumen fidei, 29-VI-2013, n. 58.
[4] Messale Romano, Preghiera eucaristica I.
[5] Papa Francesco, Lettera enc. Lumen fidei, 29-VI-2013, n. 58.
[6] Benedetto XVI, Motu proprio Porta fidei, 11-X-2011, n. 13.
[7] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 172.
[8] Benedetto XVI, Udienza generale, 19-XII-2012.
[9] Papa Francesco, Lettera enc. Lumen fidei, 29-VI-2013, n. 60.
[10] San Josemaría, Amici di Dio, n. 276.
[11] Benedetto XVI, Udienza generale, 19-XII-2012.
[12] San Josemaría, Amici di Dio, n.285.
[13] San Josemaría, Amici di Dio, n. 288.
[14] Papa Francesco, Omelia, 15-VIII-2013.
[15] Lc 2, 19.
[16] San Josemaría, Amici di Dio, n. 285.
[17] Lc 2, 50.
[18] Papa Francesco, Lettera enc. Lumen fidei, 29-VI-2013, n. 58.
[19] Lc 1, 38.
[20] San Josemaría, Colloqui, n. 112.
[21] Benedetto XVI, Udienza generale, 19-XII-2012.
[22] San Josemaría, Amici di Dio, n. 281.
[23] San Josemaría, Amici di Dio, n. 203.
[24] San Josemaría, Amici di Dio, n. 204.
[25] Papa Francesco, Lettera enc. Lumen fidei, 29-VI-2013, n. 60.

Esempi di fede (III): Davide


“Se vogliamo capire che cos’è la fede – ha detto Papa Francesco –, dobbiamo narrare il suo percorso, il cammino degli uomini credenti”.

Opus Dei - Esempi di fede (III): DavideDavide suona l'arpa (Rubens)
Davide, un uomo secondo il cuore di Dio
Il re Davide occupa nella Sacra Scrittura un posto di rilievo. Alla sua vita sono dedicate più pagine che a ogni altro personaggio dell'Antico Testamento; egli «è per eccellenza il re "secondo il cuore di Dio", il pastore che prega per il suo popolo e in suo nome, colui la cui sottomissione alla volontà di Dio, la lode, il pentimento, saranno modello di preghiera per il popolo»[i]. Dopo aver considerato il ruolo della fede nella vita di Mosè e aver visto il profondo rapporti tra la vita di fede e l'accettare in modo radicale la propria vocazione, l'esempio di Davide ci può servire per renderci conto che la vita di fede comporta un atteggiamento attivo, di fiducia e di abbandono nelle mani di Dio, anche dopo la caduta e il peccato, e tutto questo non va confuso con un vago sentimento di superficialità.
Nelle mani di Dio
I Libri di Samuele e il primo Libro dei Re[ii] descrivono con grande realismo, anche se non sempre con ordine, la storia del re Davide: una vita piena di peripezie, nella quale l'autore sacro insiste sul fatto che Dio sta sempre dalla parte di Davide e che questi, nei momenti di pericolo, si mette nelle mani di Dio. Si abbandona completamente alla Volontà del Signore, con «la certezza che, per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio, quelle mani che ci hanno creato, ci sostengono e ci accompagnano nel cammino dell'esistenza, perché guidate da un amore infinito e fedele»[iii]. Insieme a questo, colpisce immediatamente la maniera in cui in Davide si vanno compiendo i disegni di Dio. È unto re dal profeta Samuele perché il Signore lo aveva scelto pur essendo il più insignificante dei fratelli: Io non guardo ciò che guarda l'uomo. L'uomo guarda l'apparenza, il Signore guarda il cuore[iv]. L'unzione per se stessa non diede il trono a Davide: dovette lottare contro i pregiudizi di Saul prima di essere acclamato e unto re di Giuda dal popolo; e soltanto sette anni dopo otterrà di essere proclamato re di tutto Israele, dopo una spietata lotta con Is-Baal, figlio di Saul[v]. Si dice che Davide seppe allora che il Signore lo confermava re di Israele e innalzava il suo regno per amore di Israele suo popolo[vi].
A prima vista potrebbe sembrare che Davide arrivi al trono per il suo coraggio e la sua astuzia; ma nella sua vita notiamo che l'atteggiamento dell'uomo di fede è di guardare alla vita, in tutte le sue dimensioni, con una prospettiva nuova: quella che ci è data da Dio[vii]. La Sacra Scrittura ci permette di rilevare che Dio si affida alle iniziative e agli sforzi dell'uomo per realizzare i suoi progetti... Che cosa sarebbe successo se Davide, uomo di fede, avesse pensato che per ricevere ciò che Dio gli aveva promesso bastava che passasse un certo tempo, o che conveniva non far nulla in attesa che il popolo venisse ad acclamarlo?
Molti sono i momenti della storia di Davide nei quali possiamo constatare l'esempio della sua fede, che lo indusse a fare ciò che doveva e a confidare nel fatto che Dio era accanto a lui e gli avrebbe garantito il successo. Un successo ben noto è il suo combattimento contro Golia, il gigante dell'esercito filisteo. Il testo indugia a descrivere la statura e l'armatura del filisteo e la sproporzione con Davide, un pastore piccoletto, inesperto della guerra, che si accinge ad affrontarlo con l'unica arma che possiede: una fionda. Però il contrasto maggiore sta negli atteggiamenti che muovono i due combattenti. La superbia del filisteo, che insulta le schiere del Dio vivente[viii], si scontra con la fede di Davide che si appresta al combattimento nel nome del Signore degli eserciti[ix], convinto che il Signore, che mi ha liberato dalle unghie del leone e dalle unghie dell'orso, mi libererà anche dalle mani di questo filisteo[x].
È questa la fede che induce Davide a prepararsi meglio che può: prende come arma la fionda, di cui conosce bene la potenza, e sceglie con cura le pietre che lancerà. I mezzi sono sproporzionati in confronto all'equipaggiamento del nemico, ma con essi otterrà la vittoria: Servi il tuo Dio con rettitudine, siigli fedele... e non ti preoccupare di nulla: perché è una grande verità che "se cerchi il regno di Dio e la sua giustizia, Egli ti darà il resto – il materiale, i mezzi – in sovrappiù"[xi]. La fede e la fiducia di Davide nel Signore lo portano ad avvalersi di tutta la sua perizia. Così deve lottare ogni cristiano per portare avanti le opere di Dio: perché chi vive sinceramente la fede, sa che i beni temporali sono mezzi, e li usa con generosità, in modo eroico[xii].
Davide opera mettendo tutti i mezzi a sua disposizione e affida alle mani di Dio i risultati delle sue azioni. La sua fede nel Signore fa sì che non si perda d'animo, anche quando le circostanze assumono toni drammatici: Varie pericopi della Scrittura, nelle loro molteplici allusioni, ci confermano che inter medium montium pertransibunt aquae (Sal 103 [104], 10). Questa certezza si oppone a qualsiasi moto di scoraggiamento, anche nel caso in cui gli ostacoli giungessero al culmine; questa strada è la più adatta a farci arrivare in Cielo, con la certezza che le acque divine eliminano tutti i nostri limiti e ci danno la spinta per arrivare a stare con Dio[xiii].
L'umiltà di saper ritornare a Dio
Nello stesso tempo, la vita di Davide mostra un altro aspetto del suo abbaondono nelle mani di Dio. La Bibbia dimostra con ogni dettaglio sino a che punto Davide fu peccatore. In tal senso, l'episodio forse più conosciuto è l'adulterio con Betsabea[xiv]. Un peccato frutto di una volontà debole, che finì per intorbidirsi e offuscare tutta una lunga serie di grazie divine ricevute.
Il Libro di Samuele riferisce che, quando stava per scoppiare la guerra contro gli Ammoniti, Davide inviò il suo esercito a combattere. Egli, però, rimase a Gerusalemme. Un po' per volta il Libro di Samuele indica le circostanze che condussero alla caduta morale di Davide: rinunzia al dovere di guidare l'esercito, come allora era abituale per un re, preferendo rimanere inoperoso in città; trascorre oziosamente la giornata, alzandosi al tramonto e passeggiando in terrazza; non controlla lo sguardo indiscreto e imprudente; accede alla tentazione; invia messaggeri per informarsi sulla possibilità di mettere in atto il suo proposito; e infine, commette il grave peccato di adulterio. A tutto questo fece seguito un altro peccato ancora più grave: l'assassinio di Uria, il legittimo marito di Betsabea.
L'accaduto dimostra la tremenda capacità del cuore umano di compiere il male, nonostante l'esistenza delle buone disposizioni iniziali e i doni divini ricevuti. Davide si comporta in un modo che potrebbe sembrare inaudito, se ci atteniamo alla storia sacra e consideriamo la fede da lui dimostrata in passato. Però ha permesso che la pigrizia e la sensualità corrompano la sua volontà. L'insegnamento che dà il testo biblico è evidente: quando si trascura la ricerca del bene, la volontà può intorbidirsi fino a offuscare del tutto l'intelletto e indurre l'uomo a commettere gli eccessi più delittuosi. Tutti noi cristiani possiamo correre questo pericolo; per questo san Josemaría ha lasciato scritto: Non spaventarti, non scoraggiarti, nello scoprire che hai degli errori... e che errori! Lotta per strapparli. E, finché lotti, convinciti che è bene sperimentare tutte queste debolezze, perché, altrimenti, saresti un superbo: e la superbia allontana da Dio[xv].
Il profeta Nathan sarà il mezzo del quale Dio si servirà per tirare il re fuori da questa triste situazione. Lo farà mediante una parabola di straordinaria bellezza, una delle prime che troviamo nella Bibbia. Il profeta presenta a Davide il caso di un uomo ricco che, per accogliere un ospite, invece di usare i propri averi, ruba l'unica pecora di un povero[xvi]. Non appena Davide s'indigna, Nathan gli farà osservare che l'uomo ricco è proprio lui, e Davide non potrà fare a meno di riconoscere il suo peccato: Ho peccato contro il Signore![xvii]. Ciò che sorprende nella recriminazione di Nathan è la nobile delicatezza con cui fa comprendere al re il grave male che ha commesso.
Con le sue parole, Nathan riesce a scuotere la coscienza e la fede di Davide, e lo incoraggia a cercare il perdono divino, che gli viene concesso appena confessa il proprio peccato davanti al Signore. Fu l'inizio di una nuova conversione, che ha permesso a Davide di avvicinarsi ancora di più al Dio di Israele. Un esempio pratico di come, nel cammino verso la santità, non importa tanto non cadere quanto non rimanere per terra[xviii]. Secondo un'antica tradizione, il dolore manifestato da Davide nel prendere coscienza del proprio peccato è rimasto riflesso nel Salmo Miserere. In questa preghiera il salmista riconosce sinceramente il male commesso, dichiara che il suo peccato ha offeso soprattutto l'Autore di tutte le cose e si rivolge a Dio chiedendogli che, per sua bontà e misericordia, lo purifichi[xix]; confida nella misericordia divina – sa che la grazia di Dio è più forte della propria miseria[xx] – e s'impegna, come manifestazione del suo sincero dolore, a cambiare vita e a indicare agli uomini le strade di Dio affinché si convertano[xxi].
Il Salmo rispecchia bene la disposizione interiore di Davide quando si rese conto della gravità del suo peccato. Non pensò che tutto fosse perduto. Non permise che la sua caduta lo tenesse lontano da Dio, ma ne approfittò per conoscersi meglio, per essere più umile, per rialzarsi ogni volta. La misericordia di Dio è molto più grande delle nostre piccinerie e delle nostre debolezze, che la superbia poi s'impegna a ingrandire. In questa giostra d'amore, le cadute non devono avvilirci, ancorché fossero gravi, purché ci rivolgiamo a Dio nel sacramento della Penitenza con dolore sincero e proposito retto. Il cristiano non è un collezionista fanatico di certificati di servizio senza macchia[xxii]. Spesso siamo noi stessi, per così dire, che non siamo disposti a perdonarci perché ci piacerebbe non sbagliare, essere perfetti, irreprensibili.
Il Signore ci ama così come siamo. Per questo «ci aspetta sempre, ci ama, ci ha perdonato con il suo sangue e ci perdona ogni volta che andiamo da Lui a chiedere il perdono»[xxiii]. Egli è il Padre che ci conosce meglio di noi stessi, e risponde alla nostra debolezza con la sua pazienza; in realtà il cammino verso la santità «è come un dialogo tra la nostra debolezza e la pazienza di Dio, è un dialogo che, se lo facciamo, ci dà speranza»[xxiv]. Dio non vuole che transigiamo con le nostre mancanze: preferisce che camminiamo con eleganza, con disinvoltura, per le strade della vita interiore, senza aver paura di cadere perché sappiamo di essere nelle sue mani; perché sappiamo che, se cadiamo, cadremo – se vogliamo – nelle mani di Dio e con la sua grazia ci rialzeremo ancora una volta. «La pazienza di Dio deve trovare in noi il coraggio di ritornare da Lui, qualunque errore, qualunque peccato ci sia nella nostra vita»[xxv].
Di tutto questo ci dà esempio Davide, che sa offrire al Signore ciò che Egli più desidera: un cuore contrito[xxvi], amante, del tutto rivolto a Lui, che riponga in Lui la propria fiducia. Tutti noi credenti possiamo volgerci verso questo re che, con tutte le sue debolezze, seppe essere «un orante appassionato, un uomo che sapeva cosa vuol dire supplicare e lodare»[xxvii].
A. Aranda – M.A. Tábet (maggio 2013)


[i] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2579.
[ii] Da 1 Sam 16 a 1 Re 2, 12.
[iii] Benedetto XVI, Udienza generale, 15-II-2012.
[iv] 1 Sam 16, 7.
[v] Cfr. 2 Sam 5, 3.
[vi] 2 Sam 5, 12.
[vii] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 46.
[viii] 1 Sam 17, 26.36.
[ix] 1 Sam 17, 45.
[x] 1 Sam 17, 37.
[xi] San Josemaría, Cammino, n. 472.
[xii] San Josemaría, Forgia, n. 525.
[xiii] Mons. Javier Echevarría, Lettera pastorale in occasione dell' "Anno della fede", 29-IX-2012, n. 6.
[xiv] Cfr. 2 Sam 11.
[xv] San Josemaría, Forgia, n. 181.
[xvi] Cfr. 2 Sam 12, 1-14.
[xvii] 2 Sam 12, 13.
[xviii] Cfr. Papa Francesco, Discorso, 7-VI-2013.
[xix] Cfr. Sal 50, 3-9.
[xx] Cfr. Sal 50, 9-14.
[xxi] Cfr. Sal 50, 15-18.
[xxii] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 75
[xxiii] Papa Francesco, Regina coeli, 7-IV-2013.
[xxiv] Papa Francesco, Omelia, 7-IV-2013.
[xxv] Papa Francesco, Omelia, 7-IV-2013.
[xxvi] Sal 50, 19.
[xxvii] Benedetto XVI, Udienza generale, 22-VI-2011.

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