lunedì 30 novembre 2015

Quando la scuola dice no...



Solo qualche giorno fa la decisione di una scuola di Rozzano nel milanese di trasformare la tradizionale festa di Natale in festa d'inverno, adducendo come scusa il clima difficile venutosi a creare dopo le stragi di Parigi. Adesso dall'altra parte d'Italia la "bocciatura" della visita pastorale dell'arcivescovo di Sassari, Paolo Atzei in nome dell'integrazione e di presunte sensibilità diverse. Il caso nella primaria di San Donato che ci ha tenuto a precisare che la scuola "è aperta a qualunque progetto in comune con la chiesa turritana per favorire nel quartiere i processi di integrazione e di inclusione". 

La posizione assunta dal Consiglio dei docenti dello storico istituto scolastico, nel cuore del centro storico di Sassari, fa già discutere. Non volendo rispondere negativamente alla proposta del vescovo per una visita ai piccoli allievi delle elementari, probabilmente proprio in vista del Natale, la dirigente scolastica Patrizia Mercuri ha proposto all' organismo composto dagli insegnanti di valutare la possibilità che l'incontro con il vescovo Atzei si svolgesse in chiesa e coinvolgesse solo i bambini cattolici o quelli che non appartengono dichiaratamente ad altre confessioni religiose.

La scuola di San Donato è da anni considerata un laboratorio in tema di integrazione e multiculturalità: gli alunni di varie nazionalità e non cattolici che frequentano l'istituto sono 122 su 250. Concordi con la dirigente sulla necessità di rispettare le sensibilità di tutti, i docenti hanno deciso che l'incontro prenatalizio non si farà neanche fuori dalle mura scolastiche, se non con il coinvolgimento dei genitori. 

"Trarremmo sicuramente un grosso vantaggio culturale nel dialogare con il vescovo e le associazioni cittadine sulla situazione in cui versa il quartiere e sulla necessità di costruire un progetto di pace e di convivenza civile - dice Patrizia Mercuri - ma occorre rispettare anche il modo di operare della nostra scuola". Insomma, se padre Atzei vuole lavorare con la scuola in favore dell'integrazione, va bene, ma al di fuori della scuola stessa.
Avvenire

Conferenza stampa sull'aereo rientrando dall'Africa (Trascizione ufficiale)




Conferenza stampa del Santo Padre durante il volo di ritorno dalla Repubblica Centrafricana (trascrizione ufficiale) 
 Sala stampa della Santa Sede 
(Padre Lombardi)
Santo Padre, benvenuto tra noi per questo incontro che oramai è una tradizione e tutti ci aspettiamo. Siamo molto grati che dopo un viaggio così intenso voglia ancora trovare tempo per noi, e quindi comprendiamo benissimo quanto è disponibile per aiutarci.
Prima di cominciare con la serie delle domande, volevo però, anche a nome dei colleghi, ringraziare la EBU, la European Broadcasting Union, che ha organizzato le dirette dal Centrafrica. Le dirette televisive che sono girate per il mondo dal Centrafrica si sono potute realizzare grazie alla European Broadcasting Union, e qui abbiamo Elena Pinardi. La ringraziamo a nome di tutti. La EBU compie il 65° della sua attività, e si vede che serve ancora, e quindi noi le siamo molto grati.
Allora, adesso come al solito, abbiamo pensato di incominciare dai nostri ospiti del Paese nel quale ci siamo recati. Siccome abbiamo quattro kenyani, due domande vengono adesso, all’inizio, dal Kenya. La prima è di Namu Name, che è del Kenya Daily Nation. (...)


Don Divo Barsotti: parole ancora attuali

Nel 1967 don Divo scriveva: “Senso di rivolta che mi agita e mi solleva fin dal profondo contro la facile ubriacatura dei teologi acclamanti al Concilio. Si trasferisce all’avvenimento la propria vittoria personale, una orgogliosa soddisfazione che non ha nulla di evangelico. Tutto il cristiano deve compiere in ‘trepidazione e timore’; al contrario qui il trionfalismo che si accusava come stile della curia (cioè dei conservatori alla Ottaviani, ndr), diviene l’unico carattere di ogni celebrazione, di ogni interpretazione dell’avvenimento. Del resto io sono perplesso nei riguardi del Concilio, la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. Sono documenti che rendono testimonianza di una sicurezza tutta umana più che di una fermezza semplice di fede. Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi. Crederò a questi teologi quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo…Tutto il resto è retorica… Solo i santi salvano la Chiesa. E i santi dove sono? Nessuno sembra crederci più”.
Don Divo credeva alla dimensione escatologica del cristianesimo, e non concordava con la fede ridotta a sociologia:



Da Libertà e Persona

Il pensiero di Benedetto XVI su facebook ed i social network

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Nei social network e nella ricerca di un sempre maggior numero di “amici”, bisogna sempre essere “fedeli a se stessi” e mai cedere a trucchi o “illusioni” come la creazione di una falsa identità attraverso il proprio “profilo”. E’ il primo monito dell’era Facebook mai lanciato da un Papa, quello lanciato da Benedetto XVI, in particolare ai giovani, nel suo messaggio per la 45esima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali che si celebrava il 5 giugno 2011.
No a profili falsi“Nella ricerca di condivisione, di ‘amicizie’ – afferma il Papa – ci si trova di fronte alla sfida dell’essere autentici, fedeli a se stessi, senza cedere all’illusione di costruire artificialmente il proprio ‘profilo’ pubblico”.
L’era del webMa Benedetto XVI non ha limitato la sua riflessione a Facebook allargando la riflessione a “un fenomeno caratteristico del nostro tempo: il diffondersi della comunicazione attraverso la rete internet”. Il messaggio s’intitola infatti “Verita’, annuncio e autenticità di vita nell’era digitale”. “E’ sempre più comune – aggiunge il Pontefice – la convinzione che, come la rivoluzione industriale produsse un profondo cambiamento nella società attraverso le novità introdotte nel ciclo produttivo e nella vita dei lavoratori, cosi’ oggi la profonda trasformazione in atto nel campo delle comunicazioni guida il flusso di grandi mutamenti culturali e
sociali”.
La comunicazione cambia la nostra vita“Le nuove tecnologie – rileva ancora il Papa – non stanno cambiando solo il modo di comunicare, ma la comunicazione in se stessa, per cui si puo’ affermare che si è di fronte ad una vasta trasformazione culturale. Con tale modo di diffondere informazioni e conoscenze, sta nascendo un nuovo modo di apprendere e di pensare, con inedite opportunità di stabilire relazioni e di costruire comunione”.
Chi siamo in Rete“Il coinvolgimento sempre maggiore nella pubblica arena digitale, quella creata dai cosiddetti social network – scrive Benedetto XVI – conduce a stabilire nuove forme di relazione interpersonale, influisce sulla percezione di sé e pone quindi, inevitabilmente, la questione non solo della correttezza del proprio agire, ma anche
dell’autenticità del proprio essere. La presenza in questi spazi virtuali può essere il segno di una ricerca autentica di incontro personale con l’altro se si fa attenzione ad evitarne i pericoli, quali il rifugiarsi in una sorta di mondo parallelo, o l’eccessiva esposizione al mondo virtuale. Nella ricerca di condivisione, di ‘amicizie’, ci si trova di fronte alla sfida dell’essere autentici, fedeli a se stessi, senza cedere
all’illusione di costruire artificialmente il proprio “profilo” pubblico”.
La risposta a Facebook
“Cristo è la risposta piena e autentica a quel desiderio umano di relazione, di comunione e di senso che emerge anche nella partecipazione massiccia ai
vari social network”, scrive il Papa. E i credenti devono contribuire “affinche’ il web non diventi uno strumento che riduce le persone a categorie, che cerca di manipolarle emotivamente o che permette a chi è potente di monopolizzare
le opinioni altrui”. Benedetto XVI non si esime da qualche consiglio pratico per “uno stile cristiano di presenza” nella Rete, a partire da “una forma di comunicazione onesta ed aperta, responsabile e rispettosa dell’altro”.
Non annacquare il VangeloIl Papa chiede anche sul web di “testimoniare con coerenza, nel proprio profilo digitale e nel modo di comunicare, scelte, preferenze, giudizi che siano profondamente coerenti con il Vangelo”. Esso “non è qualcosa che possa essere oggetto di consumo, o di fruizione superficiale” e “non trae il suo valore dalla sua ‘popolarita” o dalla quantita’ di attenzione che riceve”.
Questa verità va fatta “conoscere nella sua integrita’ piuttosto che cercare di renderla accettabile magari ‘annacquandola’”.
Qui il messaggio integrale, dal sito del Vaticano

Isis e Arabia Saudita: trova le differenze



di Valentina Colombo

«Se Daesh e Riad appaiono simili quanto al velo di segretezza che avvolge i processi, il paragone però si ferma lì. Non essendo uno Stato, Daesh “non ha alcuna legittimazione a decidere di uccidere la gente”, come ebbe a dire il portavoce del ministero saudita degli Interni. In pochi casi, questa “differenza” ha permesso di salvare qualche condannato, come il blogger Raif Badawi, condannato a mille frustate. In molti altri casi, le pressioni internazionali sono sembrate invece senza effetto. Nonostante questo, ogni paragone tra il sistema giudiziario saudita e la presunta “giustizia” amministrata da banditi del Daesh è fuorviante.  All’ombra del Califfato, infatti, abbiamo assistito a esecuzioni sommarie di civili e militari, allo sgozzamento di ostaggi locali e occidentali, allo sfollamento di intere comunità cristiane e all’abuso sessuale contro ragazze e madri di confessioni ritenute “eretiche». Così il giornalista e docente universitario Camille Eid ha commentato, sul sito di Avvenire, la citazione in giudizio di un utente Twitter da parte del ministero della Giustizia saudita poiché, a seguito di un’ennesima condanna a morte per apostasia, ha scritto che si tratta di una sanzione ‘in stile Daesh’. 
Mi permetto di dissentire, seppur parzialmente. Se è vero che lo Stato Islamico non è riconosciuto a livello internazionale in quanto Stato, è ancor più grave che a uno Stato riconosciuto a livello internazionale, che nel 2014 è entrato a far parte del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, insieme alla Cina, il cui ambasciatore presso le Nazioni Unite, Faisal bin Hassan Trad, che di recente è stato chiamato a presiedere un comitato di diplomatici incaricato a scegliere i candidati a ruolo di “esperti delle Nazioni Unite” da inviare in quei Paesi dove l’Onu ritiene che i diritti umani vengano violati, sia concesso di pubblicare, nel maggio scorso, un bando sul sito del ministero per l’amministrazione per otto persone che «eseguano le condanne a morte secondo la sharia islamica dopo che siano state ordinate da una sentenza legale», sia concesso di applicare nel XXI secolo la più rigida interpretazione del diritto penale islamico. Non credo nemmeno che si possa fare affidamento a un processo “giusto” in un Paese in cui il concetto stesso di giustizia si basa sull’interpretazione più rigida e conservatrice della sharia. 
D’altronde, Abd Allah ibn Salih al-Ubaid, ex presidente della Società nazionale per i diritti umani inArabia Saudita, dichiarò quanto segue: «Ci sono persone che considerano alcune questioni una violazione dei diritti umani, mentre noi le riteniamo una salvaguardia dei diritti umani – ad esempio le esecuzioni, l’amputazione della mano del ladro, oppure le frustate a un’adultera. Ci sono persone che ritengono che tutte le punizioni coraniche violino i diritti umani. […] Noi, in Arabia Saudita, siamo parte del mondo per quanto concerne i principi generali dei diritti umani. Ma nel nostro Paese rispettiamo le regole della sharia, sicché ciò che ad altri sembra una violazione dei diritti umani è invece per noi un dovere nei confronti di chi ha commesso un reato o un peccato».  Nell’ottobre scorso l’ambasciata saudita nel Regno Unito ha pubblicato, a seguito dell’ennesima mobilitazione internazionale a difesa del giovane saudita sciita Ali Nimr condannato alla crocifissione, un tweet molto esplicito e che chiarisce le proprie posizioni: #ArabiaSaudita rifiuta ogni forma di interferenza negli affari interni #AliNimr.
É vero anche l’Arabia Saudita appartiene alla coalizione internazionale che combatte contro lo Stato Islamico, quindi sta apparentemente dalla parte dell’Occidente, ma è altrettanto vero che nel 2013 Abdul Aziz bin Abdullah, Gran Mufti dell’Arabia ha dichiarato che «è necessario distruggere tutte le chiese della regione», è altrettanto vero che i cristiani che lavorano nel Paese sono costretti a vivere “nelle catacombe”, è altrettanto vero che le donne – seppur la loro condizione sia leggermente migliorata negli ultimi anni – vivono in una condizione di discriminazione. Ma in modo particolare è altrettanto vero che i punti di riferimento teologici e giuridici sono gli stessi dello Stato Islamico e che entrambe le realtà invocano la “giustizia” in base alla sharia. D’altronde è noto che anche nei Paesi in cui la sharia, seppur in versioni più edulcorate e riformate, è «la fonte principale della legge» si hanno problemi nell’applicazione e nella riforma, ad esempio, del diritto di famiglia. 
Ad esempio, Paesi come l’Egitto e il Marocco non sono riusciti ad abolire la poligamia, ma solo alimitarla e a renderla pressoché impraticabile proprio per il legame indissolubile con la sharia e la Tunisia, che nel 1956 ha promulgato il Codice della Statuto Personale in cui la si vietava, in nome di un’interpretazione moderna e aperta delle fonti della tradizioni islamica, è stata più volte accusata, non solo dallo Stato Islamico, ma anche dal teologo della Fratellanza musulmana Yusuf Qaradawi, di «miscredenza» e «ipocrisia manifesta». Non ritengo che, soprattutto in questo preciso momento storico, sottolineare le differenze tra Stato Islamico e Arabia Saudita sia utile né tantomeno vantaggioso. Ritengo che invece sia giusto promuovere quelle voci che dall’interno del mondo islamico combattono chiunque, dal califfo al-Baghdadi al Custode delle Due Sante Moschee saudita, non rispetti la sacralità della vita, che propongono l’abolizione della sharia per salvare l’islam e i musulmani. 
Nel 2007 il tunisino Lafif Lakhdar scriveva: «Per riconciliarsi con il mondo i musulmani devonoabbandonare il jihad a favore della politica, devono abbandonare il monologo interiore a favore del dialogo con l’altro, abbandonare la sharia a favore della legge positiva, devono abbandonare il califfato a favore dello Stato di diritto, abbandonare l’accusa di apostasia nei confronti della modernità e del mondo che l’ha prodotta a favore della riflessione». Ebbene, tutto questo non viene certo favorito “scagionando”, seppur parzialmente, l’Arabia Saudita o avviando il dialogo interreligioso con istituzioni ad essa legate, come è nel caso del Centro re Abdulaziz per il dialogo interculturale e religioso a Vienna che vede la Santa Sede come membro osservatore. La strada è lunga e tortuosa, ma solo l’onestà di ammettere un problema può condurre alla sua soluzione. 
Quindi è solo ammettendo che con l’Arabia Saudita, così come con l’Iran, l’Occidente ha scelto diaprirsi al relativismo circa la sacralità della vita umana e dei diritti umani, che si potrà porre questi Paesi di fronte alla triste realtà al loro interno, usando proprio quegli strumenti che il riconoscimento a livello internazionale mette a disposizione. 

Avvento, stagione permanente della vita

Libro Busetto

Con la prima domenica di Avvento è iniziato il nuovo Anno Liturgico. Per l'occasione è uscito un libro del nostro don Angelo Busetto, che ogni giorno su La Nuova BQ commenta il Vangelo, che è un aiuto per vivere la liturgia quotidiana. Il titolo è "La traversata - Sulle onde dell'anno liturgico". La casa editrice è Itaca, il costo è 10 euro. Presentiamo qui le pagine iniziali, che introducono all'Avvento e al nuovo Anno Liturgico.
Abbiamo bisogno di nuovi inizi. Non so quante volte la liturgia parla di nuovo inizio. Nuovo inizio è certamente il Natale, ma lo è anche il Vangelo dell’annunciazione nel giorno dell’Immacolata, quando il rimando è addirittura alla promessa di Dio ad Adamo ed Eva dopo il peccato.
Spunta quindi il primo giorno dell’anno, evidente nuovo inizio, ma tutto ricomincia da capo nel giorno del Battesimo del Signore, che gli evangelisti scelgono come principio della testimonianza degli apostoli. Con il miracolo di Cana, raccontato nella domenica seguente, Gesù, insieme con quanti cominciano a seguirlo, si apre la strada verso tutti gli uomini. Nuovo inizio è la Quaresima che riprende il cammino di conversione per giungere a un uomo nuovo. A Pasqua risorge l’uomo nuovo Gesù, e in Lui noi rinasciamo con il Battesimo. A Pentecoste il vento dello Spirito rinnova il cuore degli uomini e lancia al largo la barca della Chiesa.
Da allora, l’inizio riaccade ogni giorno e ad ogni incontro. Rispunta il sole ogni mattina; la barca si muove dalla riva; ricominciano il lavoro e la scuola e la vita. Non è mai una ripetizione di quanto è già avvenuto. Protesi verso un buon futuro, ogni stagione e ogni giornata diventano ripresa di quel cammino che ci trasporta all’altra riva.
Porta di inizio è l’Avvento: un tempo dell’anno, ma anche una stagione permanente della vita. L’Avvento è il primo raggio del sole che spunta sulla storia dell’uomo. Lo scorge chi apre almeno una fessura del cuore. L’Avvento ci richiama ad accogliere con nuova attenzione e desiderio l’annuncio: «Il Signore viene». Ci scrolliamo di dosso le attese inutili, che non rendono felice nessuno.
Alle prime luci dell’Avvento guardiamo con l’occhio della fede, il cuore della carità, lo slancio della speranza. Fede, speranza e carità, virtù teologali che aggiustano l’atteggiamento verso la vita e ciò che accade.

Fede. Attendiamo Gesù ogni giorno con un gesto di preghiera: l’Angelus all’inizio della giornata, a fine mattinata e alla sera, quando ci si mette a tavola con la famiglia; un gesto settimanale di ascolto della Parola di Dio, come l’incontro del Vangelo, o una catechèsi, o la Messa feriale.
Speranza: dalla fede nasce la speranza e si riaccende uno sguardo di fiducia sulle persone e sui fatti della vita, educando lo sguardo all’attenzione verso chi è vicino e verso chi incontriamo nella giornata.

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Il Natale oscurato segno della nostra disgregazione
di Tommaso Scandroglio
Se passate dall’aeroporto di Fiumicino alcuni negozi hanno addobbato le vetrine e gli interni con sagome di abeti in cui campeggia la scritta “Season Greetings” che letteralmente significa “Auguri di stagione”. Questi auguri “stagionati” vogliono sostituire gli auguri natalizi. Già Babbo Natale aveva avuto gran parte nello sfrattare dall’immaginario collettivo, soprattutto infantile, il Bambin Gesù. Ora si sono messi pure catene commerciali ed enti pubblici in giro per il mondo a svuotare ancor più dall’interno il significato cristiano del Natale, sostituendolo con un Natale laico, che è un vero e proprio ossimoro, o con una Festa d’Inverno dal sapore tanto celtico.
Questa tendenza a candeggiare nella tinozza laicista il Santo Natale non ha risparmiato le scuole diogni ordine e grado. Già da anni molte scuole hanno abolito i presepi e Maria, Giuseppe e Gesù sono persone non più gradite nelle aule scolari, immigrati clandestini con il foglio di via. La ventata cristianofobica ha avuto un suo picco in quel di Rozzano (Milano), in particolare nell’istituto Garofani. Marco Parma, dirigente scolastico dello stesso, ha deciso di annullare l’usuale festa di Natale che si teneva ogni anno (faranno eccezione le classi delle medie) e di sostituirla con festicciole private nelle classi in stile catacombale e con una pagana Festa d’Inverno che si svolgerà a gennaio. Banditi per tutti, poi, i canti a sfondo religioso e via dalle aule gli ultimi due crocefissi sopravvissuti non alla furia iconoclasta dei miliziani dell’Isis bensì al Consiglio di istituto. La nostra piccola Palmira l’abbiamo avuta in provincia di Milano.
Partiamo da un’evidenza (che tale non è più): si fa festa perché nasce Gesù. Proibire di intonare canti religiosi è come proibire a una festa di compleanno di cantare “Tanti auguri a te” perché potrebbe dare fastidio a quei bambini che non hanno compiuto gli anni in quel giorno. Eppure è questa la motivazione addotta dal preside: «per evitare che qualcuno potesse sentirsi escluso» si è deciso di censurare la fede cattolica in quella scuola. Mettersi a cantare Tu scendi dalle stelle «non sarebbe stato il massimo», spiega Parma, «perché questa è una scuola multietnica». Così gli esclusi e i discriminati finiscono per essere la maggioranza, cioè i bambini cattolici. Il dirigente scolastico aggiunge: «Non è un passo indietro di fronte all’islam rispettare la sensibilità delle persone che appartengono ad altre culture ad altri credo religiosi, mi pare un passo in avanti rispetto all’integrazione e rispetto reciproco». 
Un paio di riflessioni su questo frusto argomento del rispetto della libertà religiosa e dell’integrazione. Primo: se vieti canti e simboli natalizi-religiosi violi la libertà di espressione dei credenti. Trattasi di atto di violenza culturale. Secondo: il rispetto della libertà non è vietare i simboli e le espressioni della fede cattolica, ma astenersi dall’imporli. Il cattolico poi sa che la sua è l’unica vera religione: quindi ogni manifestazione del proprio credo è manifestazione di verità e l’eventuale fastidio da parte di terzi (tutto da provare perché spesso presunto) è come il fastidio nel prendere una medicina amara, ma che fa bene. Il laicismo pretende una neutralità svizzera in tema di espressione religiosa: pari dignità a tutte le fedi o, che è lo stesso, zero dignità a qualsiasi fede. Questo è erroneo perché nella prospettiva di Dio – e non degli uomini che hanno la vista corta – c’è una sola religione autentica, quella cattolica. Dio è cattolico, non protestante, né ebreo, né musulmano (per gli incerti si rimanda al documento Dominus Iesus della Congregazione della Dottrina per la Fede). 
Nella prospettiva cattolica le altre credenze si tollerano e si rispetta il libero arbitrio delle persone non cattoliche dal momento che la libertà è condizione ineludibile e necessaria perché si aderisca volontariamente al credo cattolico. Cristo chiede di essere conosciuto e amato, ma amare è un atto di libertà. Il più eccelso atto di libertà. Se poi portiamo a logica conclusione l’asserto che rispetto delle differenze significa cancellazione della propria identità, perché queste ultime potrebbero risultare urticanti per chi non è cristiano, gli effetti sono dirompenti. Infatti, la fede permea tutto il nostro vivere: anche l’ateo dice “grazie” a qualcuno come forma di cortesia, ignaro che quella espressione significa «che il Signore ti riempia di grazie». E il suo interlocutore gli risponde: «prego», che significa «prego per te». La cristianità è dappertutto: nome di vie e piazze dedicate ai santi; i nostri stessi nomi di battesimo sono nomi di santi; ci rechiamo in ospedali e università, istituzioni inventate della Chiesa; il medesimo concetto di persona è un precipitato di un approfondimento teologico sulla Trinità. Per non infastidire atei e diversamente credenti dovremmo far tabula rasa di tutto questo? E poi perché non allargare il discorso ad altre fedi, come quelle calcistiche? A Tizio dovrebbe essere vietato andare in giro con la maglia della (gloriosa) Juve per non indispettire gli interisti o i milanisti.
Terzo: integrazione significa che è l’ospite che si deve adeguare al contesto e alle regoledell’ospitante non viceversa. Se ai bambini musulmani Astro del Ciel provoca la pellagra possono ovviamente astenersi dal presenziare. Se io vado alla Mecca non mi è lecito chiedere di radere al suolo il Masjid al-Haram, cioè la più grande moschea al mondo perché ne sono infastidito. A margine, tanto per capire il senso del principio di reciprocità e di rispetto delle altre religioni così come inteso in Arabia Saudita: l’accesso alla Mecca è interdetto ai non musulmani. Se sbianchiettiamo la nostra identità non c’è integrazione perché questa prevede come presupposto logico che un’identità possa convivere pacificamente con un’altra, bensì annullamento. Non integrazione, ma disintegrazione di una fede, di una cultura, di un popolo, di una nazione. Se noi andassimo a cancellare i nostri dati anagrafici in Comune ciò significherebbe che per lo Stato noi siamo morti, siamo dei cadaveri. Quindi è erroneo ciò che dice il preside: «meno si sottolineano le differenze e più si sottolineano le convergenze meglio è». Sono le differenze che mi fanno essere me stesso, altrimenti sarei uguale in tutto e per tutto a te. Il dialogo avviene tra due persone, non tra una persona e un fantasma.
Infine, il preside in merito ai recenti fatti di Parigi così chiosa: «Se avessimo organizzato un concerto a base di canti religiosi dopo quello che è accaduto qualcuno avrebbe potuto interpretarlo come una provocazione forse anche pericolosa». Gli risponde Nostro Signore: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna» (Mt 10, 28). I terroristi e, in modo non violento, una buonissima parte del mondo islamico vogliono uccidere la nostra fede, vogliono sradicare dai nostri cuori e dalle nostre menti le verità rivelate. Vogliono togliere il crocifisso per metterci la mezzaluna. Il preside di Rozzano ha già fatto per loro metà del lavoro. La cosa triste, infatti, sta nel fatto che noi ci pieghiamo a questo piano. Islam, infatti, significa sottomissione (altra musica quando Gesù ci dice «Non vi chiamo più servi […] ma vi ho chiamato amici», GV 15, 15). 
Non opponiamo resistenza, ma scegliamo noi stessi l’eutanasia di fede. Anticipiamo il nemico nei suoi progetti e diamo alle fiamme la cittadella cattolica con le nostre stesse mani. Il dramma sta tutto qui: il cattolico medio - e figurarsi sul piano culturale l’italiano medio - è un imbelle. Di fronte a gente spietata che follemente si suicida per una credenza erronea, noi non siamo capaci - non diciamo di dare la vita per Cristo, di dar prova di fedeltà a Lui usque sanguinem - ma almeno di dare un’aula dove si insegnano canti cattolici. In nome di Allah ci bersagliano a colpi di kalashnikov e noi porgiamo loro le terga a braghe calate. La pavidità di affermazioni come «non offendiamo, siamo prudenti, veniamoci incontro, scegliamo ciò che ci unisce e non ciò che ci divide» è il sintomo più veritiero che la nostra fede è già morta. Ci prostituiamo con il pretesto della tolleranza, ma siamo noi che non tolleriamo più il nome di Cristo.

Da «Prima Linea» a Fra Cristoforo

Nuovo tweet del Papa: "E' questo il tempo per nuovi messaggeri cristiani, più generosi, più gioiosi, più santi." (30 novembre 2015)

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di ROBERTO I. ZANINI

La lotta armata e I Promessi Sposi, il segno di Caino e il perdono, la logica umana e quella divina. A parlare con Maurice Bignami di confessione e perdono si tocca con mano come operi la forza trasformatrice della Grazia e come l’amore del Padre, che fa grande festa per il figlio che ritorna, sia capace di scuotere dalle fondamenta ogni disegno del male. Bignami costituiva con Sergio Segio e Roberto Rosso il direttivo di Prima Linea, gruppo estremista che fra la fine degli anni Settanta e i primissimi Ottanta si è macchiato di numerosi delitti. Lui stesso ha sparato molte volte e ancora oggi, dice, «non è facile convivere con quei fantasmi». La sua storia l’ha raccontata tante volte e non serve né fare l’elenco delle vittime, né seguire anno per anno il passaggio dalla lotta armata, al Movimento per la dissociazione politica dal terrorismo, all’impegno nella Caritas insieme a don Di Liegro, all’incontro con la fraternità di Comunione e Liberazione, all’attuale lavoro nella società di servizi Team Service. Ciò che a noi interessa è provare a svelare come abbiano agito nella sua vita la Grazia e il Perdono: quello di Dio, con la «P» maiuscola. 

Nella parabola del Figliol prodigo il Padre perdona ma non è scritto che il figlio si pentì. 
«La logica umana vuole che prima ci si penta e poi arrivi il perdono. Invece Dio perdona gratis. È talmente innamorato degli uomini che non regge il nostro dolore e lo vuole lenire a ogni costo. Poi la Grazia ci trasforma. Il figlio torna a casa per una questione di comodo: è il perdono del Padre che cambia le carte in tavola». 

È la logica della Misericordia. 
«La Misericordia è l’unico modo per cambiare il mondo. Lo cambia dal di dentro, in maniera radicale. Sarò provocatorio: lei pensa che per le logiche di potere che governano la società sia più pericoloso un terrorista dell’Is o Papa Francesco? Io non ho dubbi: Francesco e il Vangelo sono sentiti come autentici elementi di rottura». 

Vuol dire che le armi non servono a fare la rivoluzione? 
«Insisto nella mia provocazione. Entrare in contatto con cristiani è molto pericoloso. A mano armata, si può costringere qualcuno a fare qualcosa che non vorrebbe fare, invece il cristiano veicola una forza che cambia dal di dentro e fa fare ciò che, in realtà, si avrebbe sempre voluto fare. L’agire della Misericordia e del perdono non ha bon ton, mette a nudo. E si ha solo due scelte, prendere o lasciare. Se si sta al gioco, la vita cambia di 180 gradi: scopri con gioia di essere vivo, come dopo un testacoda, ma indirizzato su una strada nuova. A suo tempo, purtroppo, ho giocato secondo le regole del mondo». 

Cioè? 
«Ho pensato di cambiarlo usando le sue stesse armi. Credevo di essere un elemen- to di rottura, invece ero interno al sistema, incastrato nei suoi meccanismi». 

Il figliol prodigo Bignami poi s’è pentito? 
«Sono profondamente pentito di aver contribuito a provocare grandi sofferenze. Credo però ancora oggi di essere stato dalla parte giusta, cioè quella dei poveri, dei diseredati. E sono anche pentito di non essere stato più radicale: avrei dovuto usare le armi di Cristo, non quelle del nemico. Avrei dovuto essere davvero rivoluzionario. In questo senso il cristianesimo è hard e non è proprio una religione per vecchi». 

Come arrivò il «testacoda» nella sua vita? 
«La Grazia ha operato in me fin da quando mia madre e mia nonna, di nascosto, mi fecero battezzare. Mio padre era un comunista, un comandante partigiano. Da piccolo mi insegnava che l’unico modo per diventare veramente uomini è essere rivoluzionari. Mia madre e mia nonna, invece, mi portavano al santuario di San Luca a Bologna. Quando fui più grandicello, mi dissero: 'Tuo padre non lo deve sapere, ma non dimenticare mai che sei stato battezzato, che sei un cristiano'». 


Ma poi cosa è successo davvero?
«Una serie d’incontri, i quali, guardati ora, mi fanno capire che appena in me si è aperto uno spiraglio la Grazia ha cominciato ad agire in maniera manifesta». 


Il primo?«Sul finire dell’estate dell’80 ero ancora in clandestinità, ma con altri avevo già maturato l’idea che la lotta armata fosse un tragico errore ed ero perciò uscito da Prima Linea. Mi dovevo vedere con Segio allo zoo di Milano. In quelle occasioni davamo da mangiare agli animali e distribuivamo bigliettoni a tutti i poveri che incontravamo. Forse, pensavamo che in quel modo qualcosa di buono, in ogni caso, sarebbe restato. Andando all’appuntamento lessi sul giornale che la mia compagna, che oggi è mia moglie, era stata appena arrestata. Avevo già perso l’altro mio amore, Barbara Azzaroni, uccisa a Torino l’anno prima. Ne fui sconvolto. E in quel momento vidi due poliziotti in moto venire verso di me. Uno di loro mi guardò, probabilmente impensierito dalla mia espressione sofferente. Con me avevo una borsa piena di armi. E allora pensai: 'Se mi chiedono i documenti, glieli do. Se mi chiedono della borsa, non sparo'. In quell’attimo ho capito che non avrei più ucciso. Solo sei mesi prima mi sarei preparato a sparare e a fuggire con una delle moto». 

Però fu arrestato in un conflitto a fuoco... 
«Era il febbraio dell’81 e quella vita mi stava devastando. Lo scontro avvenne dopo una rapina che ci serviva per sostentarci. Sparai anch’io, ma non per uccidere. Avevo con me delle bombe a frammentazione e sarebbe stato facile. Colpito di rimbalzo da un proiettile a un piede, ma ancora in grado di fuggire, decisi improvvisamente di deporre le armi e mi feci arrestare. Giorni dopo, un poliziotto mi disse che avevo uno strano sorriso stampato sul muso. Io ricordo solamente che pensai: presto rivedrò la mia compagna». 

Poi, alle Nuove di Torino ha incontrato padre Ruggero Cipolla.«Ero in isolamento, bussò e io lo feci entrare, cosa che non avrei mai fatto prima. Lui mi diede qualche sigaretta e mi chiese se volevo un libro da leggere. Risposi di sì e il giorno dopo mi portò I Promessi sposi. Cominciai a leggerlo, e poi a rileggerlo, a divorarlo. Mi identificavo nei vari personaggi. Prima in Renzo, poi nell’Innominato ... Adesso mi sento un po’ fra Cristoforo: il testimone di un avvenimento. E come lui mi piacerebbe morire 'in piedi', vicino a coloro che nessuno vuole aiutare». 

Padre Ruggero ha celebrato il suo matrimonio. 
«Il 16 giugno 1982. Glielo chiesi e lui ottenne il permesso per un rito d’urgenza. Al contrario di mia moglie, non avevo fatto nemmeno la prima comunione e quella fu la mia prima messa partecipata. Lì ho visto come agisce la Grazia. Nello stanzone che faceva da cappella, arrivammo fra due file di secondini che battevano i manganelli contro il muro, cantandoFaccetta nera e insultando la mia compagna. Li guardavo. Avevano i volti deturpati dall’odio. Un rancore in parte giustificato. Durante la messa, però, piano piano, è accaduto qualcosa. L’odio s’è sciolto e siamo diventati tutti più uomini. Alla fine cominciai a distribuire i pasticcini. Anche alle guardie. E loro li accettarono». 


Quando si è confessato la prima volta?
 
«Nell’86 chiesi di essere trasferito a Roma per proseguire la discussione che poi avrebbe portato alla legge sulla dissociazione politica. Conobbi padre Mario Berni. Diventammo amici e un bel giorno gli chiesi di confessarmi. Lui lo fece e mi diede l’assoluzione. Ritornai il giorno dopo e quello appresso. Allora padre Mario, con una certa ruvidezza, mi disse: 'Ma credi davvero che i tuoi siano peccati speciali, che abbiano bisogno di un perdono particolare? Orgoglioso, vola basso!'. Anni dopo, al battesimo del mio secondo figlio, con padre Mario c’erano padre Adolfo Bachelet, don Luigi Di Liegro, suor Teresilla Barillà».

Avvenire

Papa Francesco: 'Cristiani e musulmani sono fratelli'





Nuovo tweet del Papa: "Tra cristiani e musulmani siamo fratelli e dobbiamo comportarci come tali." (30 novembre 2015)

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Incontro con la Comunità Musulmana presso la Moschea centrale di Bangui. Papa Francesco: "Insieme, diciamo no all’odio, alla vendetta, alla violenza, in particolare a quella che è perpetrata in nome di una religione o di Dio. Dio è pace, salam"
Sala stampa della Santa Sede
[Text: Italiano, Français, English, Español, Português]

foto archivio
Questa mattina, dopo essersi congedato dalla Nunziatura Apostolica, il Santo Padre Francesco si è recato alla Moschea centrale di Bangui a Koudoukou dove, alle ore 8.15, ha incontrato la Comunità Musulmana. Il Papa è stato accolto da alcuni Imam che lo hanno accompagnato al podio allestito all’interno della moschea, ai margini dell’area riservata alla preghiera.
Dopo il saluto dell’Imam della Moschea Centrale di Bangui, Tidiani Moussa Naibi, il Santo Padre ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:

Discorso del Santo Padre
Cari fratelli, responsabili e credenti musulmani,
è una grande gioia per me incontrarvi ed esprimervi la mia gratitudine per la vostra calorosa accoglienza. Ringrazio in particolare l’Imam Tidiani Moussa Naibi, per le sue gentili parole di benvenuto. La mia visita pastorale nella Repubblica Centrafricana non sarebbe completa se non comprendesse anche questo incontro con la comunità musulmana.
Tra cristiani e musulmani siamo fratelli. Dobbiamo dunque considerarci come tali, comportarci come tali. Sappiamo bene che gli ultimi avvenimenti e le violenze che hanno scosso il vostro Paese non erano fondati su motivi propriamente religiosi. Chi dice di credere in Dio dev’essere anche un uomo o una donna di pace. Cristiani, musulmani e membri delle religioni tradizionali hanno vissuto pacificamente insieme per molti anni. 
Dobbiamo dunque rimanere uniti perché cessi ogni azione che, da una parte e dall’altra, sfigura il Volto di Dio e ha in fondo lo scopo di difendere con ogni mezzo interessi particolari, a scapito del bene comune. Insieme, diciamo no all’odio, alla vendetta, alla violenza, in particolare a quella che è perpetrata in nome di una religione o di Dio. Dio è pace, salam.
In questi tempi drammatici, i responsabili religiosi cristiani e musulmani hanno voluto issarsi all’altezza delle sfide del momento. Essi hanno giocato un ruolo importante per ristabilire l’armonia e la fraternità tra tutti. Vorrei assicurare loro la mia gratitudine e la mia stima. E possiamo anche ricordare i tanti gesti di solidarietà che cristiani e musulmani hanno avuto nei riguardi di loro compatrioti di un’altra confessione religiosa, accogliendoli e difendendoli nel corso di questa ultima crisi, nel vostro Paese, ma anche in altre parti del mondo.
Non si può che auspicare che le prossime consultazioni nazionali diano al Paese dei Responsabili che sappiano unire i Centrafricani, e diventino così simboli dell’unità della nazione piuttosto che i rappresentanti di una fazione. Vi incoraggio vivamente a fare del vostro Paese una casa accogliente per tutti suoi figli, senza distinzione di etnia, di appartenenza politica o di confessione religiosa. La Repubblica Centrafricana, situata nel cuore dell’Africa, grazie alla collaborazione di tutti i suoi figli, potrà allora dare un impulso in questo senso a tutto il continente. Essa potrà influenzarlo positivamente e aiutare a spegnere i focolai di tensione che vi sono presenti e che impediscono agli Africani di beneficiare di quello sviluppo che meritano e al quale hanno diritto.
Cari amici, vi invito a pregare e a lavorare per la riconciliazione, la fraternità e la solidarietà tra tutti, senza dimenticare le persone che più hanno sofferto per questi avvenimenti.
Dio vi benedica e vi protegga!

***
Al termine dell’incontro, il Papa si trasferisce in auto allo Stadio Barthélémy Boganda di Bangui per la celebrazione della Santa Messa.

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Incontro con la Comunità Musulmana presso la Moschea centrale di Bangui. Messaggio dell'Imam,  Tidiani Moussa Naibi (testo in francese)
Sala stampa della Santa Sede
Sire,
Au nom de la Communauté musulmane de Centrafrique et en mon nom propre, je vous souhaite très respectueusement à vous- même et à toute la délégation qui vous accompagne, la bienvenue à la Mosquée Centrale de Bangui. Votre visite est un symbole que nous comprenons parfaitement. Mais je voudrais tout de suite vous rassurer. Non, les relations entre les frères et soeurs chrétiens et nous-mêmes sont tellement profondes, qu’aucune manoeuvre tendant à les saper, ne pourraient aboutir. Les fauteurs de trouble pourraient retarder la réalisation de tel ou tel projet d'intérêt commun ou compromettre pour un temps telle ou telle activité, mais jamais in sha Allah, ils ne pourraient détruire les liens de fraternité qui unissent si solidement nos communautés. Oui, je vous le confirme, Sire, les Chrétiens et les Musulmans de ce pays sont condamnés à vivre ensemble et à s'aimer.
Mais pour vivre ensemble et nous aimer, nous avons besoin de la solidarité du monde entier. Et c'est vrai que nous n'en avons pas manqué. Car c'est au titre de cette solidarité que nous avons reçu la mission des pays de la Communauté économique et monétaire de l’Afrique Centrale (CEMAC), celle de la Communauté économique des États de l’Afrique Centrale (CEEAC) celle de l'Union Africaine (UA), celle de la France, de l'Union Européenne et des Nations Unies. Nous n'ignorons pas et nous n'oublierons jamais que des dizaines de jeunes soldats de ces différents pays ont perdu leurs vies pour apporter la paix à notre peuple. A tous nous disons merci du fond du coeur.
C'est également au nom de cette solidarité que nous avons accueilli ici même le Secrétaire général des Nations Unies et celui de l'Organisation de la Coopération islamique (OCI). Depuis, la solidarité de ces organisations ne nous ont pas fait défaut. À l'un et à l'autre nous disons un merci spécial.
Sire,
La solidarité du monde à l’égard du peuple centrafricain se manifeste aujourd'hui à travers votre visite dans notre pays et votre présence à la Mosquée Centrale de Bangui. Nous tenons à vous en remercier très particulièrement. Par ses actions de solidarité et par votre visite, le monde extérieur nous montre qu'il nous observe et qu'il se préoccupe toujours de notre situation. En retour nous voudrions que vous rassuriez le monde. Non, le peuple centrafricain n'est pas un peuple voué aux conflits et aux violences. Non, la situation actuelle de notre pays n'est pas appelée à s'éterniser. C'est simplement un moment de notre histoire. Un moment douloureux certes, un moment regrettable même, mais un moment seulement. Et bientôt, très bientôt in sha Allah, nous recouvrerions notre paix et notre sécurité d'antan. Nous trouverons même une paix et une sécurité plus grandes et plus justes encore. L'espoir nous est en effet permis grâce aux multiples actions visant à ramener la paix, à encourager le partage du pouvoir, à organiser des élections libres et démocratiques, à créer les conditions pour une bonne gestion de l'État, que mènent avec courage et assiduité le Gouvernement de la Transition.
Puisse Dieu l'Unique, l'Omnipotent, l'Omniscient emmener la paix en notre pays. Une paix égale, juste et fertile.
Je vous remercie pour votre attention.

Santa Messa nello stadio Barthélémy Boganda di Bangui. Omelia di Papa Francesco


Santa Messa nello stadio Barthélémy Boganda di Bangui. Omelia di Papa Francesco: "Anche noi, sull’esempio dell’Apostolo, dobbiamo essere pieni di speranza e di entusiasmo per il futuro. L’altra riva è a portata di mano, e Gesù attraversa il fiume con noi"
Sala stampa della Santa Sede
[Text: Italiano, Français, English, Español, Português]
Alle ore 9.30 di oggi, nello stadio del complesso sportivo “Barthélémy Boganda” di Bangui, il Santo Padre Francesco haa iniziato la Celebrazione Eucaristica, nella ricorrenza liturgica di Sant’Andrea Apostolo. Nel corso della Santa Messa, dopo la proclamazione del Vangelo, il Papa ha pronunciato l’omelia che riportiamo di seguito:
Omelia del Santo Padre
Possiamo essere stupiti, ascoltando la prima Lettura, dell’entusiasmo e del dinamismo missionario che abitano l’Apostolo Paolo. «Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene» (Rm 10,15)! È per noi un invito a rendere grazie per il dono della fede che abbiamo ricevuto da questi messaggeri che ce l’hanno trasmessa. È anche un invito a meravigliarci davanti all’opera missionaria che ha portato per la prima volta - non molto tempo fa - la gioia del Vangelo su quest’amata terra del Centrafrica. 

È bene, soprattutto quando i tempi sono difficili, quando le prove e le sofferenze non mancano, quando l’avvenire è incerto e ci si sente stanchi, temendo di non potercela fare, è bene riunirsi attorno al Signore, come facciamo oggi, per gioire della sua presenza, della vita nuova e della salvezza che ci propone, come un’altra riva verso la quale dobbiamo tendere.
Quest’altra riva è, certamente, la vita eterna, il Cielo dove noi siamo attesi. Questo sguardo rivolto verso il mondo futuro ha sempre sostenuto il coraggio dei cristiani, dei più poveri, dei più piccoli, nel loro pellegrinaggio terreno. Questa vita eterna non è un’illusione, non è una fuga dal mondo; essa è una potente realtà che ci chiama e che ci impegna alla perseveranza nella fede e nell’amore.
Ma l’altra riva più immediata, che noi cerchiamo di raggiungere, questa salvezza procurata dalla fede e di cui parla san Paolo, è una realtà che trasforma già la nostra vita presente e il mondo in cui viviamo: “Colui che crede dal profondo del cuore diventa giusto” (cfr Rm 10,10). Egli accoglie la vita stessa di Cristo che lo rende capace di amare Dio e di amare i fratelli in un modo nuovo, al punto di far nascere un mondo rinnovato dall’amore.
Rendiamo grazie al Signore per la sua presenza e per la forza che ci dà nel quotidiano delle nostre vite quando sperimentiamo la sofferenza fisica o morale, una pena, un lutto; per gli atti di solidarietà e di generosità di cui ci rende capaci; per la gioia e l’amore che fa brillare nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, malgrado, a volte, la miseria, la violenza che ci circonda o la paura del domani; per il coraggio che mette nelle nostre anime di voler creare dei legami di amicizia, di dialogare con chi non è come noi, di perdonare chi ci ha fatto del male, di impegnarci nella costruzione di una società più giusta e fraterna dove nessuno è abbandonato. In tutto questo, Cristo risorto ci prende per mano e conduce a seguirlo. E io voglio rendere grazie con voi al Signore di misericordia per tutto quello che vi ha concesso di compiere di bello, di generoso, di coraggioso, nelle vostre famiglie e nelle vostre comunità, durante gli eventi accaduti nel vostro Paese da molti anni.
Tuttavia, è vero anche che non siamo ancora arrivati alla meta, siamo come in mezzo al fiume, e dobbiamo decidere con coraggio, in un rinnovato impegno missionario, di passare all’altra riva. Ogni battezzato deve continuamente rompere con quello che c’è ancora in lui dell’uomo vecchio, dell’uomo peccatore, sempre pronto a risvegliarsi al richiamo del demonio – e quanto agisce nel nostro mondo e in questi tempi di conflitti, di odio e di guerra –, per condurlo all’egoismo, a ripiegarsi su sé stesso e alla diffidenza, alla violenza e all’istinto di distruzione, alla vendetta, all’abbandono e allo sfruttamento dei più deboli…
Noi sappiamo anche quanta strada le nostre comunità cristiane, chiamate alla santità, abbiano ancora da percorrere. Certamente abbiamo tutti da chiedere perdono al Signore per le troppe resistenze e per le lentezze nel rendere testimonianza al Vangelo. Che l’Anno Giubilare della Misericordia, appena iniziato nel vostro Paese, ne sia l’occasione. E voi, cari Centrafricani, dovete soprattutto guardare verso il futuro e, forti del cammino già percorso, decidere risolutamente di compiere una nuova tappa nella storia cristiana del vostro Paese, di lanciarvi verso nuovi orizzonti, di andare più al largo, in acque profonde. L’Apostolo Andrea, con suo fratello Pietro, non hanno esitato un solo istante a lasciare tutto alla chiamata di Gesù, per seguirlo: «Subito lasciarono le reti e lo seguirono» (Mt 4,20). Noi siamo meravigliati, anche qui, per tanto entusiasmo da parte degli Apostoli, talmente Cristo li attira a Sé, talmente essi sentono di poter intraprendere tutto e tutto osare con Lui.
Allora, ciascuno nel suo cuore può porsi la domanda tanto importante sul suo legame personale con Gesù, esaminare ciò che ha già accettato – oppure rifiutato – per rispondere alla sua chiamata a seguirlo più da vicino. Il grido dei messaggeri risuona più che mai alle nostre orecchie, proprio quando i tempi sono duri; quel grido che “risuona per tutta la terra, e […] fino ai confini del mondo” (cfr Rm 10,18; Sal 18,5). E risuona qui, oggi, in questa terra del Centrafrica; risuona nei nostri cuori, nelle nostre famiglie, nelle nostre parrocchie, ovunque viviamo, e ci invita alla perseveranza nell’entusiasmo della missione, una missione che ha bisogno di nuovi messaggeri, ancora più numerosi, ancora più generosi, ancora più gioiosi, ancora più santi. E tutti noi siamo chiamati ad essere, ciascuno, questo messaggero che il nostro fratello, di qualsiasi etnia, religione, cultura, aspetta, spesso senza saperlo. Infatti, come, questo fratello, potrà credere in Cristo - si domanda san Paolo - se la Parola non è ascoltata né proclamata?
Anche noi, sull’esempio dell’Apostolo, dobbiamo essere pieni di speranza e di entusiasmo per il futuro. L’altra riva è a portata di mano, e Gesù attraversa il fiume con noi. Egli è risorto dai morti; da allora le prove e le sofferenze che viviamo sono sempre occasioni che aprono a un futuro nuovo se noi accettiamo di legarci alla sua Persona. Cristiani del Centrafrica, ciascuno di voi è chiamato ad essere, con la perseveranza della sua fede e col suo impegno missionario, artigiano del rinnovamento umano e spirituale del vostro Paese.
La Vergine Maria, che dopo aver condiviso le sofferenze della passione condivide ora la gioia perfetta con il suo Figlio, vi protegga e vi incoraggi in questo cammino di speranza. Amen.

Francese
Nous pouvons être étonnés, entendant la première lecture, de l’enthousiasme et du dynamisme missionnaires qui habitent l’Apôtre Paul. « Comme il est beau de voir courir les messagers de la Bonne Nouvelle » (Rm 10, 15) ! C’est pour nous un appel à rendre grâce pour le don de la foi que nous avons reçu de ces messagers qui nous l’ont transmis. C’est aussi un appel à nous émerveiller devant l’oeuvre missionnaire qui a porté pour la première fois - il n’y a pas si longtemps - la joie de l’Évangile sur cette terre bien aimée de Centrafrique. Il est bon, surtout lorsque les temps sont difficiles, lorsque les épreuves et les souffrances ne manquent pas, lorsque l’avenir est incertain et que l’on se sent fatigué, craignant de ne plus y arriver, il est bon de se réunir autour du Seigneur, ainsi que nous le faisons aujourd’hui, pour se réjouir de sa présence, de la vie nouvelle et du salut qu’il nous propose, comme une autre rive vers laquelle nous devons tendre.
Cette autre rive c’est, bien sûr, la vie éternelle, le ciel où nous sommes attendus. Ce regard porté vers le monde à venir a toujours soutenu le courage des chrétiens, des plus pauvres, des plus petits, dans leur pèlerinage terrestre. Cette vie éternelle n’est pas une illusion, elle n’est pas une fuite du monde ; elle est une puissante réalité qui nous appelle et qui nous engage à la persévérance dans la foi et dans l’amour.
Mais l’autre rive, plus immédiate, que nous cherchons à rejoindre, ce salut procuré par la foi et dont parle Saint Paul, est une réalité qui transforme déjà notre vie présente et le monde dans lequel nous vivons : « Celui qui croit du fond du coeur devient juste » (Rm 10,10). Il accueille la vie même du Christ qui le rend capable d’aimer Dieu et d’aimer ses frères d’une façon nouvelle, au point de faire naître un monde renouvelé par l’amour.
Rendons grâce au Seigneur pour sa présence et pour la force qu’il nous donne dans le quotidien de nos vies lorsque nous sommes confrontés à la souffrance physique ou morale, à une peine, à un deuil ; pour les actes de solidarité et de générosité dont il nous rend capables ; pour la joie et l’amour qu’il fait briller dans nos familles, dans nos communautés, malgré, parfois, le dénuement, la violence qui nous entoure ou la crainte du lendemain ; pour l’audace qu’il met en nos âmes de vouloir créer des liens d’amitié, de dialoguer avec celui qui ne nous ressemble pas, de pardonner à celui qui nous a fait du mal, de nous engager dans la construction d’une société plus juste et plus fraternelle où personne n’est abandonné. En tout cela, le Christ ressuscité nous prend par la main, et nous entraîne à sa suite. Et je veux rendre grâce avec vous au Seigneur de miséricorde pour tout ce qu’il vous a donné d’accomplir de beau, de généreux, de courageux, dans
vos familles et dans vos communautés, lors des évènements que connaît votre pays depuis plusieurs années.
Pourtant, il est vrai aussi que nous ne sommes pas encore parvenus au terme, nous sommes comme au milieu du fleuve, et il nous faut décider courageusement, dans un engagement missionnaire renouvelé, de passer sur l’autre rive. Tout baptisé doit sans cesse rompre avec ce qu’il y a encore en lui de l’homme ancien, de l’homme pécheur, toujours prêt à se réveiller à la suggestion du démon – et combien il est agissant en notre monde et en ces temps de conflits, de haine et de guerre –, pour l’entrainer à l’égoïsme, au repli sur soi et à la méfiance, à la violence et à l’instinct de destruction, à la vengeance, à l’abandon et à l’exploitation des plus faibles…
Nous savons aussi combien nos communautés chrétiennes, appelées à la sainteté, ont encore de chemin à parcourir. Certainement nous avons tous à demander pardon au Seigneur pour trop de résistances et de lenteur à rendre témoignage de l’Évangile. Que l’Année Jubilaire de la Miséricorde, qui vient de commencer dans votre pays, en soit l’occasion. Et vous, chers Centrafricains, vous devez surtout regarder vers l’avenir, et, forts du chemin déjà parcouru, décider résolument de franchir une nouvelle étape dans l’histoire chrétienne de votre pays, vous élancer vers de nouveaux horizons, avancer plus au large, en eau profonde. L’Apôtre André, avec son frère Pierre, n’ont pas hésité un seul instant à tout laisser sur place à l’appel de Jésus, pour le suivre : « Aussitôt, laissant leurs filets, ils le suivirent » (Mt 4, 20). Nous sommes émerveillés, là encore, par tant d’enthousiasme chez les Apôtres, tellement le Christ les attire à lui, tellement ils perçoivent qu’ils peuvent tout entreprendre et tout oser avec lui.
Alors, chacun dans son coeur peut se poser la question si importante de son lien personnel avec Jésus, examiner ce qu’il a déjà accepté – ou encore refusé – pour répondre à son appel afin de le suivre de plus près. Le cri des messagers retentit plus que jamais à nos oreilles, alors même que les temps sont difficiles ; ce cri qui « retentit par toute la terre, et […] jusqu’au bout du monde » (Rm 10,18). Et il retentit ici, aujourd’hui, en cette terre de Centrafrique ; il retentit dans nos coeurs, dans nos familles, dans nos paroisses, partout où nous vivons, et il nous invite à la persévérance dans l’enthousiasme de la mission, une mission qui a besoin de nouveaux messagers, encore plus nombreux, encore plus donnés, encore plus joyeux, encore plus saints. Et nous sommes tous appelés à être, chacun, ce messager que notre frère, quelle que soit son ethnie, sa religion, sa culture, attend, souvent sans le savoir. Comment, en effet, ce frère croira-t-il au Christ, se demande saint Paul, si la Parole n’est pas entendue ni proclamée ?
Nous aussi, à l’exemple de l’Apôtre, nous devons être remplis d’espérance et d’enthousiasme pour l’avenir. L’autre rive est à portée de main, et Jésus traverse le fleuve avec nous. Il est ressuscité des morts ; dès lors les épreuves et les souffrances que nous vivons sont toujours des occasions qui ouvrent à un avenir nouveau si nous acceptons de nous attacher à sa personne. Chrétiens de Centrafrique, chacun de vous est appelé à être, par la persévérance de sa foi et par son engagement missionnaire, artisan du renouveau humain et spirituel de votre pays.
Que la Vierge Marie, qui après avoir partagé les souffrances de la passion partage maintenant la joie parfaite avec son Fils, vous protège et vous encourage sur ce chemin d’espérance. Amen.
Inglese 
We might be astonished, listening to this morning’s first reading, by the enthusiasm and missionary drive of Saint Paul. “How beautiful are the feet of those who bring good news!” (Rom 10:15). These words inspire us to give thanks for the gift of the faith which we have received. They also inspire us to reflect with amazement on the great missionary effort which – not long ago – first brought the joy of the Gospel to this beloved land of Central Africa. It is good, especially in
times of difficulty, trials and suffering, when the future is uncertain and we feel weary and apprehensive, to come together before the Lord. To come together, as we do today, to rejoice in his presence and in the new life and the salvation which he offers us. For he invites us to cross over to another shore (cf. Lk 8:22).
This other shore is, of course, eternal life, heaven, which awaits us. Looking towards the world to come has always been a source of strength for Christians, of the poor, of the least, on their earthly pilgrimage. Eternal life is not an illusion; it is not a flight from the world. It is a powerful reality which calls out to us and challenges us to persevere in faith and love.
But the more immediate other shore, which we are trying to reach, this salvation secured by the faith of which Saint Paul speaks, is a reality which even now is transforming our lives and the world around us. “Faith in the heart leads to justification” (Rom 10:10). Those who believe receive the very life of Christ, which enables them to love God and their brothers and sisters in a new way and to bring to birth a world renewed by love.
Let us thank the Lord for his presence and for the strength which he gives us in our daily lives, at those times when we experience physical and spiritual suffering, pain, and grief. Let us thank him for the acts of solidarity and generosity which he inspires in us, for the joy and love with which he fills our families and our communities, despite the suffering and violence we sometimes experience, and our fears for the future. Let us thank him for his gift of courage, which inspires us to forge bonds of friendship, to dialogue with those who are different than ourselves, to forgive those who have wronged us, and to work to build a more just and fraternal society in which no one is abandoned. In all these things, the Risen Christ takes us by the hand and guides us. I join you in thanking the Lord in his mercy for all the beautiful, generous and courageous things he has enabled you to accomplish in your families and communities during these eventful years in the life of your country.
Yet the fact is that we have not yet reached our destination. In a certain sense we are in midstream, needing the courage to decide, with renewed missionary zeal, to pass to the other shore. All the baptized need to continually break with the remnants of the old Adam, the man of sin, ever ready to rise up again at the prompting of the devil. How often this happens in our world and in these times of conflict, hate and war! How easy it is to be led into selfishness, distrust, violence, destructiveness, vengeance, indifference to and exploitation of those who are most vulnerable…
We know that our Christian communities, called to holiness, still have a long way to go. Certainly we need to beg the Lord’s forgiveness for our all too frequent reluctance and hesitation in bearing witness to the Gospel. May the Jubilee Year of Mercy, which has just begun in your country, be an occasion to do so. Dear Central Africans, may you look to the future and, strengthened by the distance you have already come, resolutely determine to begin a new chapter in the Christian history of your country, to set out towards new horizons, to put out into the deep. The Apostle Andrew, with his brother Peter, did not hesitate to leave everything at Christ’s call: “Immediately they left their nets and followed him” (Mt 4:20). Once again, we are amazed at the great enthusiasm of the Apostles. Christ drew them so closely to himself, that they felt able to do everything and to risk everything with him.
Each of us, in his or her heart, can ask the crucial question of where we stand with Jesus, asking what we have already accepted – or refused to accept – in responding to his call to follow him more closely. The cry of “those who bring good news” resounds all the more in our ears, precisely when times are difficult; that cry which “goes out through all the earth... to the ends of the earth” (Rom 10:18; cf. Ps 19:4). And it resounds here, today, in this land of Central Africa. It resounds in our hearts, our families, our parishes, wherever we live. It invites us to persevere in enthusiasm for mission, for that mission which needs new “bearers of good news”, ever more numerous, generous, joyful and holy. We are all called to be, each of us, these messengers whom our brothers and sisters of every ethnic group, religion and culture, await, often without knowing it.
For how can our brothers and sisters believe in Christ – Saint Paul asks – if the Word is neither proclaimed nor heard?
We too, like the Apostles, need to be full of hope and enthusiasm for the future. The other shore is at hand, and Jesus is crossing the river with us. He is risen from the dead; henceforth the trials and sufferings which we experience are always opportunities opening up to a new future, provided we are willing to follow him. Christians of Central Africa, each of you is called to be, through perseverance in faith and missionary commitment, artisans of the human and spiritual renewal of your country.
May the Virgin Mary, who by sharing in the Passion of her Son, now shares in his perfect joy, protect you and encourage you on this path of hope. Amen.
Spagnolo 
No deja de asombrarnos, al leer la primer lectura, el entusiasmo y el dinamismo misionero del Apóstol Pablo. «¡Qué hermosos los pies de los que anuncian la Buena Noticia del bien!» (Rm 10,15). Es una invitación a agradecer el don de la fe que estos mensajeros nos han transmitido. Nos invita también a maravillarnos por la labor misionera que –no hace mucho tiempo– trajo por primera vez la alegría del Evangelio a esta amada tierra de Centroáfrica. Es bueno, sobre todo en tiempos difíciles, cuando abundan las pruebas y los sufrimientos, cuando el futuro es incierto y nos sentimos cansados, con miedo de no poder más, reunirse alrededor del Señor, como hacemos hoy, para gozar de su presencia, de su vida nueva y de la salvación que nos propone, como esa otra orilla hacia la que debemos dirigirnos.
La otra orilla es, sin duda, la vida eterna, el Cielo que nos espera. Esta mirada tendida hacia el mundo futuro ha fortalecido siempre el ánimo de los cristianos, de los más pobres, de los más pequeños, en su peregrinación terrena. La vida eterna no es una ilusión, no es una fuga del mundo, sino una poderosa realidad que nos llama y compromete a perseverar en la fe y en el amor.
Pero esa otra orilla más inmediata que buscamos alcanzar, la salvación que la fe nos obtiene y de la que nos habla san Pablo, es una realidad que transforma ya desde ahora nuestra vida presente y el mundo en que vivimos: «El que cree con el corazón alcanza la justicia» (cf. Rm 10,10). Recibe la misma vida de Cristo que lo hace capaz de amar a Dios y a los hermanos de un modo nuevo, hasta el punto de dar a luz un mundo renovado por el amor.
Demos gracias al Señor por su presencia y por la fuerza que nos comunica en nuestra vida diaria, cuando experimentamos el sufrimiento físico o moral, la pena, el luto; por los gestos de solidaridad y de generosidad que nos ayuda a realizar; por las alegrías y el amor que hace resplandecer en nuestras familias, en nuestras comunidades, a pesar de la miseria, la violencia que, a veces, nos rodea o del miedo al futuro; por el deseo que pone en nuestras almas de querer tejer lazos de amistad, de dialogar con el que es diferente, de perdonar al que nos ha hecho daño, de comprometernos a construir una sociedad más justa y fraterna en la que ninguno se sienta abandonado. En todo esto, Cristo resucitado nos toma de la mano y nos lleva a seguirlo. Quiero agradecer con ustedes al Señor de la misericordia todo lo que de hermoso, generoso y valeroso les ha permitido realizar en sus familias y comunidades, durante las vicisitudes que su país ha sufrido desde hace muchos años.
Es verdad, sin embargo, que todavía no hemos llegado a la meta, estamos como a mitad del río y, con renovado empeño misionero, tenemos que decidirnos a pasar a la otra orilla. Todo bautizado ha de romper continuamente con lo que aún tiene del hombre viejo, del hombre pecador, siempre inclinado a ceder a la tentación del demonio –y cuánto actúa en nuestro mundo y en estos momentos de conflicto, de odio y de guerra–, que lo lleva al egoísmo, a encerrarse en sí mismo y a la desconfianza, a la violencia y al instinto de destrucción, a la venganza, al abandono y a la explotación de los más débiles…
Sabemos también que a nuestras comunidades cristianas, llamadas a la santidad, les queda todavía un largo camino por recorrer. Es evidente que todos tenemos que pedir perdón al Señor por nuestras excesivas resistencias y demoras en dar testimonio del Evangelio. Ojalá que el Año Jubilar de la Misericordia, que acabamos de empezar en su País, nos ayude a ello. Ustedes, queridos centroafricanos, deben mirar sobre todo al futuro y, apoyándose en el camino ya recorrido, decidirse con determinación a abrir una nueva etapa en la historia cristiana de su País, a lanzarse hacia nuevos horizontes, a ir mar adentro, a aguas profundas. El Apóstol Andrés, con su hermano Pedro, al llamado de Jesús, no dudaron ni un instante en dejarlo todo y seguirlo: «Inmediatamente dejaron las redes y lo siguieron» (Mt 4,20). También aquí nos asombra el entusiasmo de los Apóstoles que, atraídos de tal manera por Cristo, se sienten capaces de emprender cualquier cosa y de atreverse, con Él, a todo.
Cada uno en su corazón puede preguntarse sobre su relación personal con Jesús, y examinar lo que ya ha aceptado –o tal vez rechazado– para poder responder a su llamado a seguirlo más de cerca. El grito de los mensajeros resuena hoy más que nunca en nuestros oídos, sobre todo en tiempos difíciles; aquel grito que resuena por «toda la tierra […] y hasta los confines del orbe» (cf. Rm 10,18; Sal 18,5). Y resuena también hoy aquí, en esta tierra de Centroáfrica; resuena en nuestros corazones, en nuestras familias, en nuestras parroquias, allá donde quiera que vivamos, y nos invita a perseverar con entusiasmo en la misión, una misión que necesita de nuevos mensajeros, más numerosos todavía, más generosos, más alegres, más santos. Todos y cada uno de nosotros estamos llamados a ser este mensajero que nuestro hermano, de cualquier etnia, religión y cultura, espera a menudo sin saberlo. En efecto, ¿cómo podrá este hermano –se pregunta san Pablo– creer en Cristo si no oye ni se le anuncia la Palabra?
A ejemplo del Apóstol, también nosotros tenemos que estar llenos de esperanza y de entusiasmo ante el futuro. La otra orilla está al alcance de la mano, y Jesús atraviesa el río con nosotros. Él ha resucitado de entre los muertos; desde entonces, las dificultades y sufrimientos que padecemos son ocasiones que nos abren a un futuro nuevo, si nos adherimos a su Persona. Cristianos de Centroáfrica, cada uno de ustedes está llamado a ser, con la perseverancia de su fe y de su compromiso misionero, artífice de la renovación humana y espiritual de su País.
Que la Virgen María, quien después de haber compartido el sufrimiento de la pasión comparte ahora la alegría perfecta con su Hijo, los proteja y los fortalezca en este camino de esperanza. Amén.
Portoghese
Ao ouvir a primeira Leitura, podemos ter ficado maravilhados com o entusiasmo e o dinamismo missionário presente no apóstolo Paulo. «Que bem-vindos são os pés dos que anunciam as boas novas!» (Rm 10, 15). Estas palavras são um convite a darmos graças pelo dom da fé que recebemos destes mensageiros que no-la transmitiram. E são também um convite a maravilhar-nos à vista da obra missionária que trouxe, pela primeira vez – não há muito tempo –, a alegria do Evangelho a esta amada terra da África Central. É bom, sobretudo quando os tempos são difíceis, quando não faltam as provações e os sofrimentos, quando o futuro é incerto e nos sentimos cansados e com medo de falir, é bom reunir-se ao redor do Senhor, como fazemos hoje, rejubilando pela sua presença, pela vida nova e a salvação que nos propõe, como outra margem para a qual nos devemos encaminhar.
Esta outra margem é, sem dúvida, a vida eterna, o Céu onde nos esperam. Este olhar voltado para o mundo futuro sempre sustentou a coragem dos cristãos, dos mais pobres, dos mais humildes, na sua peregrinação terrena. Esta vida eterna não é uma ilusão, não é uma fuga do mundo; é uma realidade poderosa que nos chama e compromete a perseverar na fé e no amor.
Mas, a outra margem mais imediata que procuramos alcançar, esta salvação adquirida pela fé de que nos fala São Paulo, é uma realidade que transforma já a nossa vida presente e o mundo em que vivemos: «É que acreditar de coração leva a obter a justiça» (cf. Rm 10, 10). O crente acolhe a própria vida de Cristo, que o torna capaz de amar a Deus e amar os outros duma maneira nova, a ponto de fazer nascer um mundo renovado pelo amor.
Demos graças ao Senhor pela sua presença e pela força que nos dá no dia-a-dia da nossa vida, quando experimentamos o sofrimento físico ou moral, uma pena, um luto; pelos actos de solidariedade e generosidade de que nos torna capazes; pela alegria e o amor que faz brilhar nas nossas famílias, nas nossas comunidades, não obstante a miséria, a violência que às vezes nos circunda ou o medo do amanhã; pela coragem que infunde nas nossas almas de querer criar laços de amizade, de dialogar com aqueles que não são como nós, de perdoar a quem nos fez mal, de nos comprometermos na construção duma sociedade mais justa e fraterna, onde ninguém é abandonado. Em tudo isso, Cristo ressuscitado toma-nos pela mão e leva-nos a segui-Lo. Quero dar graças convosco ao Senhor de misericórdia por tudo aquilo que vos concedeu realizar de bom, de generoso, de corajoso nas vossas famílias e nas vossas comunidades, durante os acontecimentos que há muitos anos se têm verificado no vosso país.
Todavia é verdade também que ainda não chegámos à meta, de certo modo estamos no meio do rio, e devemos decidir-nos com coragem, num renovado compromisso missionário, a passar à outra margem. Cada baptizado deve romper, sem cessar, com aquilo que ainda há nele do homem velho, do homem pecador, sempre pronto a reanimar-se ao apelo do diabo (e como age no nosso mundo e nestes tempos de conflito, de ódio e de guerra!) para o levar ao egoísmo, a fechar-se desconfiado em si mesmo, à violência e ao instinto de destruição, à vingança, ao abandono e à exploração dos mais fracos…
Sabemos também quanta estrada têm ainda de percorrer as nossas comunidades cristãs, chamadas à santidade. Todos temos, sem dúvida, de pedir perdão ao Senhor pelas numerosas resistências e relaxamentos em dar testemunho do Evangelho. Que o Ano Jubilar da Misericórdia, agora iniciado no vosso país, seja ocasião para isso! E vós, queridos centro-africanos, deveis sobretudo olhar para o futuro e, fortes com o caminho já percorrido, decidir resolutamente realizar uma nova etapa na história cristã do vosso país, lançar-vos para novos horizontes, fazer-vos mais ao largo para águas profundas. O apóstolo André, com seu irmão Pedro, não hesitaram um momento em deixar tudo à chamada de Jesus para O seguir: «E eles deixaram as redes imediatamente e seguiram-No» (Mt 4, 20). Ficamos maravilhados, também aqui, com tanto entusiasmo por parte dos Apóstolos: de tal maneira os atrai Cristo a Si que se sentem capazes de poder empreender tudo, e tudo ousar com Ele.
Assim cada um pode, no seu coração, fazer a pergunta tão importante acerca da sua ligação pessoal com Jesus, examinar o que já aceitou – ou recusou – a fim de responder à sua chamada para O seguir mais de perto. O grito dos mensageiros ressoa mais forte do que nunca aos nossos ouvidos, precisamente quando os tempos são duros; aquele grito que «ressoou por toda a terra e até aos confins do mundo» (cf. Rm 10, 18; Sal 19/18, 5). E ressoa aqui, hoje, nesta terra da África Central; ressoa nos nossos corações, nas nossas famílias, nas nossas paróquias, em qualquer parte onde vivemos, e convida-nos à perseverança no entusiasmo da missão; uma missão que precisa de novos mensageiros, ainda mais numerosos, ainda mais generosos, ainda mais jubilosos, ainda mais santos. E somos chamados, todos e cada um de nós, a ser este mensageiro que o nosso irmão de qualquer etnia, religião, cultura espera, muitas vezes sem o saber. De facto, como poderá este irmão acreditar em Cristo – pergunta-se São Paulo –, se a Palavra não for ouvida nem proclamada?
Também nós, a exemplo do Apóstolo, devemos estar cheios de esperança e entusiasmo pelo futuro. A outra margem está ao alcance da mão, e Jesus atravessa o rio connosco. Ele ressuscitou dos mortos; desde então, se aceitarmos ligar-nos à sua Pessoa, as provações e os sofrimentos que vivemos sempre constituem oportunidades que abrem para um futuro novo. Cristãos da África Central, cada um de vós é chamado a ser, com a perseverança da sua fé e com o seu compromisso missionário, artesão da renovação humana e espiritual do vosso país.
A Virgem Maria, que, depois de ter compartilhado os sofrimentos da paixão, partilha agora a alegria perfeita com o seu Filho, vos proteja e encoraje neste caminho de esperança. Amen.
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Al termine della Celebrazione Eucaristica, dopo il saluto dell’Arcivescovo di Bangui, S.E. Mons. Dieudonné Nzapalainga, e la Benedizione finale, Papa Francesco si trasferisce in auto all’aeroporto internazionale M’Poko di Bangui per rientrare in Italia a conclusione del Suo viaggio apostolico in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana.