sabato 23 gennaio 2016

Il mistero della figliolanza divina

adorazione-del-bambino.

Di Padre Giovanni Cavalcoli
Esiste un concetto naturale di figliolanza, che non fa difficoltà a nessuno. Lo abbiamo acquisito facilmente fin da bambini, vivendo in famiglia. Anche gli animali, come noi uomini, generano ed hanno figli. Tale concetto è poi legato naturalmente a quello di fratellanza, paternità e maternità.
Il problema nasce, fino a diventare mistero religioso e divino, quando ampliamo questo concetto, ne estendiamo il significato, prescindendo dal riferimento biologico, e ne cogliamo il significato profondo, che dice somiglianza, dipendenza, accoglienza, riverenza, intimità, obbedienza, confidenza, timore, amore, comunione: il rapporto del figlio col padre e con la madre. In tal senso, il famoso regista svedese degli anni ’60, Ingmar Bergman, diceva che i suoi films erano i “suoi figli”.
E in collegamento a ciò, anche il concetto della fratellanza si allarga e si amplia, diventa analogico e metaforico e, oltre ad esprimere alcune note presenti nel concetto di figliolanza, evoca l’idea di parità nella diversità, di complementarità reciproca su di un piede di uguaglianza, nella comune dipendenza dai genitori.
Se l’Antico Testamento parla di “figli di Dio”, usa questo termine in senso analogico o metaforico, per esprimere una condizione di superiorità, eccellenza, predilezione, potere, vicinanza e familiarità con Dio, che per loro è “padre”. Così gli angeli, Israele, i re, i profeti e gli uomini giusti sono “figli di Dio”. Ma sono dei prediletti o dei privilegiati, che non hanno “fratelli”, ossia non hanno altri soggetti alla loro pari.
Sia nell’Antico Testamento che nel Corano non esiste l’idea che tutti gli uomini possano essere “figli di Dio”. Essi sono semplicemente delle creature, fatte sì ad immagine di Dio, ma infinitamente al di sotto di Dio, tratte dal nulla, esse finite ed Egli infinito.
E questo perché non è pensabile un “Figlio di Dio” generato da Dio, che pertanto sarebbe suo Padre, e Dio egli stesso, grazie al quale tutti gli uomini abbiano la possibilità di diventare, similmente a lui, “figli di Dio”.
Nell’Antico Testamento c’è un barlume del mistero della Figliolanza divina, come, per esempio, nell’idea della Sapienza divina, che esiste dall’eternità; ma questa sublime concezione è molto oscura, e fa pensare o a un linguaggio enfatico e metaforico o alla personificazione di un attributo di Dio.
E’ interessante notare come nella famosa triade liberté, egalité, fraternité la libertà sostituisce la figliolanza, perché manca la paternità. I Rivoluzionari sono enfants de la Patrie, ma non hanno un padre. Ammettono un Dio come “ente supremo” o “Grande Architetto dell’universo”, un’astrazione assai simile al Dio “Ideale della ragione” di Kant, che però non è un Padre che ci ha creati e del quale siamo figli, ma un Notaio immaginario delle decisioni della nostra Autocoscienza.
Nasce dunque il paradosso di una fratellanza senza figliolanza. Ci si chiede allora su cosa si fonda questa “fratellanza”, se non c’è un Padre comune. Non basta l’uguaglianza di natura, perché la natura umana, per quanto nobile, non è ragion d’essere a se stessa, ma è creata da Dio.
Si crede di non essere liberi sotto il Padre divino, e ci si vuol quindi liberare dal Padre. E’ l’antico suggerimento del serpente genesiaco. Il che conduce evidentemente alla pretesa di poter fare a meno di Dio e di volersi sostituire a Lui o di considerarsi alla pari di Lui. Sembra quasi prefigurarsi il mito freudiano dell’“uccisione del Padre” e quello nicciano della “morte di Dio”.
Si aprono allora, infatti, due strade, che saranno ugualmente percorse nel pensiero moderno: quella del panteismo, ed avremo l’idealismo tedesco del sec.XIX e quella dell’ateismo, ed avremo Marx, Comte, Freud e Nietzsche.
Non più la prospettiva dell’esser figli, ma quella della libertà, senza più nessun padre dal quale si dipenda e al quale si debba obbedire. E’ il principio russoiano dell’“obbedire a se stessi”. Ma allora vuol dire che noi non traiamo origine da Dio, e quindi non dipendiamo da lui, ma traiamo principio da noi stessi, siamo principio a noi stessi e dipendiamo solo da noi stessi.
Ciò implica evidentemente l’idea che per essere liberi, occorre respingere l’idea della paternità. Si riconosce solo la paternità biologica, ma si nega quella morale, perché la si identifica con la tirannia. Si perde di vista il fatto che è solo obbedendo ad un superiore che si esercita e si conquista la libertà.
L’obbedienza è considerata conveniente solo alla minore età. Ma l’adulto è nell’età della libertà e quindi deve obbedienza solo a se stesso. In questa visuale, il “cittadino”, che non è più “suddito” (da sub-ditus, sotto-posto), e che è membro di una società, non ha un obbligo giuridico verso il governante, fondato su di un diritto naturale, ma solo sulla volontà del singolo individuo che si esprime come “volontà generale”: il famoso “patto sociale” del Rousseau, rescindibile in qualunque momento ad arbitrio del soggetto, interprete ed attore della “volontà generale”.
In Hegel il concetto di “figlio di Dio” resta una metafora, una semplice immagine o, come egli si esprime, una “rappresentazione” (Vorstellung) di Dio, s’intende rappresentazione sensibile, utile in religione e in teologia, ma incapace di elevarsi all’altezza del “concetto” (Begriff) o del “pensare” (denken) proprio della “filosofia”, la quale sola, secondo lo gnosticismo hegeliano, possiede la “Scienza assoluta”, che svela e scioglie il mistero divino racchiudendolo nel concetto della ragione dialettica, che identifica il reale con l’ideale. “Una forma come quella del figlio – egli dice proprio in riferimento al dogma cristiano del Figlio di Dio[1] – appartiene soltanto alla rappresentazione e non al concetto”.
Dire che il cristiano è figlio di Dio, per Hegel è un modo mitologico, metaforico ed immaginario, proprio del culto, della religione e della teologia, per esprimere la coscienza concettuale razionale, quindi filosofica, che il cristiano ha, di essere un momento empirico del divenire dell’Assoluto, che inizia come Padre (“tesi”), oppone Sé a Se stesso (“antitesi”), ecco la distinzione fra il “Padre” e il “Figlio”, per tornare a Sé come Spirito (“sintesi”).
Hegel immagina che l’identificazione della natura umana con quella divina sia un processo storico-dialettico logico e necessario. Ma, a parte il fatto che il cristianesimo non comporta affatto una tale identificazione assurda, ma, ben al contrario, distingue le due nature, pur nell’unità della persona divina del Figlio, certamente ad Hegel non sarebbe mai venuta in mente l’idea di un uomo e addirittura dell’uomo stesso come tale, che ad un tempo è uomo e Dio, se non l’avesse trovata nella dottrina cristiana dell’Incarnazione. Ed infatti essa è ignorata dallo stesso Antico Testamento, oltre che naturalmente da tutte le altre culture dell’umanità, antiche e moderne.
Viceversa, il concetto di figliolanza divina non fa difficoltà nelle religioni politeiste: esistono uomini figli di dèi e dèi figli di altri dèi. Ma questo è possibile a causa dell’imperfezione del concetto delle divinità, che non nasce dall’intelletto metafisico, ma dall’immaginazione mitopoietica e creativa. Dato che c’è una concezione materialistica e non spirituale della divinità, non fa difficoltà immaginare che la divinità possa avere un sesso maschile o femminile e quindi generare come fanno gli uomini e gli animali.
Invece, allorchè il concetto della divinità viene purificato e il pensiero si innalza all’idea monoteistica del Dio unico come Spirito Assoluto, diventa assurdo pensare che Dio possa generare in senso biologico.
Tale idea viene ignorata, quindi, laddove, come per esempio in Aristotele, Dio viene concepito come Motore immobile e Pensiero del pensiero, o in Platone, dove Egli appare sommo Bene e Idea assoluta. Viene altresì ignorata dall’Antico Testamento, benchè in esso ci sia qualche barlume profetico, che apparirà un tutta la sua luce nel Nuovo Testamento, il cui fine è esattamente quello di annunciare, come dice Giovanni, la “grazia e la verità” (Gv 1,17), ossia il mistero trinitario e la grazia di Cristo, vale a dire la grazia dei figli di Dio.
Invece, purtroppo, la stessa possibilità che Dio abbia un Figlio, Dio come Lui, non è solo ignorata, ma viene positivamente esclusa con ripugnanza, sdegno e scandalo dal Corano, il quale oppone due difficoltà per lui insormontabili: prima, Dio non può generare, perché dovrebbe avere una moglie, per poter generare. Ma Dio non ha sesso, essendo purissimo Spirito. Dunque noi cristiani, secondo il Corano, riduciamo Dio al livello di un dio pagano.
Seconda: non ha senso parlare di un Dio Padre e di un Dio Figlio come di due persone distinte, per non parlare poi del cosiddetto “Spirito Santo” come “terza persona”. Dio è uno solo, è un’unica persona. Noi cristiani, secondo il Corano, abbiamo tradito il monoteismo, che pure è rimasto fra gli Ebrei, e siamo caduti nel politeismo, lasciandoci ingannare da Gesù, che aggiunse empiamente se stesso come un altro Dio, al Dio di Abramo creatore del cielo e della terra, con la pretesa di considerarsi “suo Figlio” e di chiamare Dio “suo Padre”, mentre Mosè dice che non c’è altro Dio all’infuori di Jahvè. Maometto non fa altro che confermare la fede di Abramo e di Mosè nel vero ed unico Dio. Gli Ebrei hanno avuto ragione a respingere la pretesa di Gesù di essere Dio. Il loro errore è quello di considerare Mosè al di sopra di Maometto.
Aggiungi poi, come se ciò non fosse bastato, continua sdegnato il Corano, l’altro empio inganno, col quale Gesù ha persuaso i suoi discepoli di poter diventare “figli di Dio” a sua somiglianza, e quindi “fratelli” tra di loro sulla base di questa falsa figliolanza.
In base a queste considerazioni, appare evidente che noi cristiani non possiamo chiamare nostri “fratelli” i musulmani, se non in base ad un’idea laica o umanistica della fratellanza, certo non priva di valore, ma che nulla ha a che vedere con la fratellanza cristiana fondata sulla fede nel Vangelo e sul battesimo.
E per converso, è noto che, per i musulmani, noi cristiani, a parte il fatto evidentemente da loro riconosciuto che anche noi apparteniamo alla medesima specie umana, non possono considerarci loro “fratelli”, ma ai loro occhi, proprio in quanto cristiani, siamo degli empi e degli infedeli, anche se con alcuni di essi il dialogo interreligioso non è impossibile.
Notiamo adesso che l’idea che la divinità possa avere un Figlio non fa difficoltà nel politeismo, nel quale la divinità viene immaginata in modo grossolanamente antropomorfico. Ma la ragione non sospetta assolutamente che il Dio vero ed unico, Spirito assoluto ed infinito, possa generare un Figlio della sua stessa natura, e da Lui personalmente distinto, secondo quanto crede la religione cristiana; e per conseguenza, non immagina la possibilità che il credente in questo Figlio incarnato, che è Gesù Cristo, partecipi per grazia alla stessa figliolanza di Cristo, divenendo a sua volta, per partecipazione, figlio di Dio, secondo quanto insegna S.Pietro (II Pt 1,4).
Per comprendere, infatti, come in Dio ci sia un Padre che genera un figlio, e quindi per avere un concetto del Figlio, che non sia un altro dio, diverso dal Padre e quindi non intacchi il monoteismo, bisogna capire che cosa la fede intende col termine “Figlio”.
E’ chiaro che Dio non può generare nel senso biologico. “Figlio”, allora, va preso in un senso analogico e tuttaviaproprio, – quindi non in senso metaforico come dice Hegel – perché soddisfa alla definizione generale di “figlio” come “vivente che origina dal vivente della stessa specie”. Ora appunto il Figlio è Deum de Deo, consustanziale al Padre, della stessa natura, sostanza o essenza divina del Padre. Un unico Dio in tre persone.
S.Giovanni ci svela questo Mistero nel Prologo del suo Vangelo. Egli parla di un misterioso Logos (Verbum), che è “in principio presso Dio ed è Dio”. E solo alla fine (v.18) fa capire che sta parlando del Figlio incarnato, Gesù Cristo. Quindi Giovanni ci fa capire che per “Figlio” dobbiamo intendere il Verbo (Logos), il quale significa il Pensiero oConcetto del Padre.
Infatti, anche noi diciamo che, quando pensiamo a qualcosa, “concepiamo” quel qualcosa, ne formiamo un concetto. Ebbene, qui sta il suggerimento che dobbiamo accogliere per far luce sul Mistero. Il Figlio è il Pensiero che il Padre ha di Se stesso, potremmo dire l’“Autocoscienza” del Padre, il Progetto o l’Idea per mezzo della quale il Padre crea il mondo (per quem omnia facta sunt).
In noi il concetto è un accidente della nostra mente e del nostro io. Invece in Dio il Concetto, ossia il Verbo è sussistente, perchè Dio è pura Sostanza e non può esserci nulla di accidentale o di aggiunto. Da qui la necessità di concepire il Verbo come persona, non certo univocamente a come noi siamo persone, ma analogicamente, perché noi siamo sostanze, ma in quanto relazione sussistente al Padre.
E da qui la sostanza dell’annuncio cristiano consistente nella possibilità di diventare, in Cristo, figli di Dio: “A quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). In Giovanni ricorre più volte l’espressione: coloro che sono “nati da Dio” (I Gv 2,29; 3,9; 5,1.4.18).
Nel colloquio con Nicodemo Gesù parla di un “rinascere dall’alto” (Gv 3,3), che è un “nascere da acqua e da Spirito” (3,5). Si tratta del battesimo annunciato dal Battista, “in Spirito Santo e fuoco” (cf Mt 3,11). E nel medesimo colloquio Gesù distingue il nascere in senso fisico, da questo rinascere soprannaturale, che è l’esser figlio di Dio. “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito” (v.6). Per questo, per Paolo, sono figli di Dio “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio” (Rm 8,14).
Gesù ha profondo rispetto per i legami familiari naturali. Ma è evidente che Egli introduce una figliolanza spirituale, dono della grazia, superiore a quella semplicemente carnale; “Chi è mia madre e chi sono i mie fratelli? … Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli, perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12, 48-50).
La fratellanza cristiana, dunque, basata sulla fede e sul battesimo, si aggiunge a quella naturale, così come la grazia si aggiunge alla natura, la sopraeleva (“soprannaturale”), la perfeziona, la guarisce, la purifica, ed assicura al credente battezzato quel “nascere dall’alto”, ossia dal Padre, per il quale il cristiano non viene certo a possedere due nature come Cristo; eppure si può dire che la sua esistenza trae origine da due nascite: il nascere fisico, naturale, biologico, da due genitori umani, come figlio dell’uomo, creato da Dio; e la nascita dal Padre in Cristo e nello Spirito, come partecipazione soprannaturale alla natura divina del Figlio.
Cristo resta l’Unigenito del Padre; per cui solo Cristo può dire al Padre “Padre mio”. Eppure, col battesimo il Padre celeste diventa Padre di tutti i credenti, Che Gesù chiama “Padre vostro”. E per questo, il cristiano può invocare Dio come “Padre nostro”.
Da ciò si ricava che l’esser cristiano coincide con l’essere figlio di Dio. E viceversa, figlio di Dio è solo il cristiano e comunque chi vive in grazia, anche se non conosce Cristo. Se dunque è vero che non tutti sono cristiani, dobbiamo dire che non tutti sono figli di Dio. Tuttavia, un cristiano in peccato mortale è meno figlio di Dio che un non-cristiano in buona fede, che è in grazia senza saperlo.
Tutti siamo chiamati ad esser figli di Dio. Ma non tutti lo siamo di fatto, perché non tutti crediamo in Cristo, o implicitamente o esplicitamente. Il che non toglie che, per esempio un musulmano o un buddista che senza loro colpa non conoscono il Vangelo, possano anch’essi essere in grazia e quindi in tal senso essere figli di Dio.
Discorso simile va fatto per la fratellanza. Se prendiamo il termine in un senso lato, in quanto implica la comune appartenenza alla medesima specie umana, possiamo dire che tutti gli uomini sono fratelli. Ma è chiaro che, se assumiamo il termine nel senso di figlio di Dio, credente e battezzato, saranno tra di loro fratelli solo i cristiani, mentre è vero che tutti gli uomini sono chiamati ad essere fratelli in Cristo.
Nel Cristo dei Vangeli si incontra un concetto di fratellanza leggermente diverso da quello di S.Paolo. Gesù preferisce rifarsi al concetto veterotestamentario del “fratello”, che si congiunge con quello del “prossimo”, che è innanzitutto il connazionale ebraico, ma va anche oltre, verso l’intera umanità bisognosa. Questo è il senso dell’amore del prossimo inculcato dalla legge mosaica.
Nel Vangelo abbiamo il passaggio dall’Antica alla Nuova Legge: la fratellanza cristiana non è ancora costituita, ma è in via di costituzione ad opera di Gesù. Invece negli altri scritti del Nuovo Testamento, essa è già costituita. Per cui, quando un S.Paolo parla dei “fratelli”, intende i credenti in Cristo, membri della Chiesa.
Oggetto dell’amore cristiano del prossimo non è solo il fratello nella fede, ma qualunque essere umano, anche un nemico, il quale possa aver bisogno di noi e gradisca il nostro aiuto: “Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare” (Rm 12,20). Non si tratta di approvare l’azione del nemico o di coonestare il danno che ci ha fatto, ma di far leva su qualche valore presente in lui e di svilupparlo. Questo vale anche nel dialogo con i fratelli separati e con i membri delle altre religioni.
[1] La fenomenologia dello Spirito, II, La Nuova Italia, Firenze 1988, p.273.