mercoledì 24 febbraio 2016

BASTA ARRENDERSI SENZA BATTERSI!




di Gianfranco Amato
Il professor Francesco
D’Agostino nell’intervista resa a Giancarlo Perna su “Libero” lo scorso 15 febbraio, non ha espresso un giudizio molto generoso verso le associazioni organizzatrici del Family Day del Circo Massimo. Dopo averle definite, poco elegantemente, come «inadeguate» e «non rappresentative del meglio della cultura cattolica», le ha implacabilmente bollate come affette da «ingenuità politica». Questo solo per essersi opposte tout court al riconoscimento giuridico delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Secondo D’Agostino, infatti, è del tutto naïf e velleitario rifiutarsi di prendere atto dell’ineluttabile deriva cui saremmo destinati per il solo fatto di vivere nel Vecchio Continente. Quasi che gli ingenui organizzatori della Piazza del Circo Massimo non vivano in Europa. Invece, caro professore, è proprio perché quegli organizzatori in Europa ci vivono eccome, che possono rendersi conto di ciò che accade. Un esempio tra i tanti. D’Agostino si sarà certamente accordo di quello che è successo a maggio dell’anno scorso in Irlanda. Cerchiamo di ricapitolare gli eventi, perché il loro epilogo può rappresentare per noi un’ottima lezione. Nel 2010 si discute per la prima volta in Irlanda della possibilità di riconoscere giuridicamente le unioni civili tra persone dello stesso sesso. Nel mondo cattolico si apre lo stesso dibattito cui assistiamo oggi in Italia. Da una parte gli “ingenui” che si oppongono senza se e senza ma, dall’altra parte i “realisti” che impostano la questione secondo il criterio del male minore: l’importante è che non si parli di matrimonio e, soprattutto, si scongiuri l’ipotesi di adozione di minori a coppie omosessuali. Il parlamento irlandese approva la legge sulle unioni civili n.24 del 19 luglio 2010, col nome di “Civil Partnership and Certain Rights and Obligations of Cohabitants Act 2010”. Ingenuo si rivela, però, chi si era illuso che questo avrebbe definitivamente chiuso la vicenda. In realtà i sostenitori del same-sex marriage, con tutto il potere lobbistico e mediatico a loro disposizione, non si arrendono e puntano a rimuovere l’ultimo ostacolo all’approvazione definitiva alle nozze gay. Dopo cinque anni, infatti, quando i tempi appaiono ormai maturi, il parlamento irlandese con la legge n.9 del 6 aprile 2015, denominata “Children and Family Relationships Act 2015” approva definitivamente la possibilità di adozione per le coppie omosessuali. La via al matrimonio, a quel punto, risulta del tutto spianata. Manca solo un ultimo, piccolo dettaglio: la costituzione. Occorre, infatti, adeguare l’art. 41, che, tra l’altro, al primo comma stabilisce un principio fondamentale e inossidabile: «Lo Stato riconosce la famiglia come il gruppo primordiale, naturale e fondamentale della Società, e come un'istituzione morale investita di diritti inalienabili e imprescrittibili, anteriori e superiori ad ogni legge positiva». Non è un caso, peraltro, che quell’articolo abbia ispirato l’omologa disposizione della Costituzione italiana, al punto da essere stato espressamente citato anche nella relazione dell’onorevole Giorgio La Pira, durante i lavori della Prima Sottocommissione dell’Assemblea costituente.
Come hanno fatto in Irlanda a modificare il loro art. 41? Semplice, con un bel referendum che consentisse l’aggiunta di un quarto comma del seguente tenore: «Il matrimonio può essere contratto per legge da due persone, senza distinzione di sesso». Così il 22 maggio 2015 con il 62,1% di voti favorevoli, l’Irlanda è stata la prima nazione al mondo a modificare la propria costituzione per consacrare definitivamente l’istituto giuridico del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Et voilà! Eccolo lo scenario prefigurato ci si presenta davanti agli occhi, come in una sfera di cristallo, su ciò che può accadere da noi qualora ci avventurassimo ad imitare gli irlandesi.
Ora, alla luce di quell’esperienza, occorrerebbe chiedersi se sia più ingenuo chi si ostina a ripercorrere strade accidentate che portano verso mete sbagliate, o chi, invece, tenti di opporsi alla sindrome della coazione a ripetere errori già vissuti da altri. E cosa appare più intelligente tra il prudente rifiuto di seguire gli sbagli altrui e la consapevole replica di un déjà-vu. Il «diabolicum perseverare» in un male già verificato o il saggio apprendimento di una lezione impartita dal’esperienza. Non è stato Alexis Carrell a dire «poca osservazione e molto ragionamento conducono all'errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità»? Allora osserviamola attentamente la realtà di ciò che è accaduto e sta accadendo nel resto d’Europa, anziché pontificare a vanvera.
E, poi, perché non poter cogliere proprio da questa vicenda la possibilità storica che sia proprio il nostro Paese a dare un segnale in controtendenza rispetto al mainstream del pensiero unico, a questa ossessiva colonizzazione ideologica del politically correct? Perché dovremmo rinunciare alla millenaria civiltà giuridica che appartiene alla cultura del nostro popolo, e che i nostri antenati hanno esportato nel mondo contribuendo in modo determinante a costruire quella che oggi viene chiamata società occidentale? Chi è quando ha decretato come inesorabile il declino e la deriva d’imbarbarimento della nostra civiltà?
Un ultima nota per i “cattolici adulti” del pragmatismo compromissorio.
San Tommaso Moro (santo protettore dei politici) è stato un cattolico che, posto di fronte ad un caso di coscienza, non ha esitato a scegliere il martirio piuttosto che scendere a compromessi che avrebbero messo a repentaglio la sua fede, la sua fedeltà a Cristo, e in ultima analisi la sua salvezza eterna. Un altro Tommaso fu chiamato a succedergli nella carica di Lord Cancelliere: sir Thomas Audley. Lui, che si riteneva più adeguato e meno politicamente ingenuo del santo predecessore, barattò la sua fede convinto che, in nome di un opportuno pragmatismo, avrebbe potuto attuare la logica del male minore. Molti cattolici lo seguirono in questa scelta, e, infatti, nel 1539 fu proprio grazie al personale impegno di Audley che furono approvati i sei articoli che ribadivano la conformità della chiesa inglese ad alcuni concetti cardine della Chiesa cattolica. Una cosa buona per il cattolici inglesi dell’epoca? Forse. Ma noi – non si adontino alcuni cattolici contemporanei –, se fossimo chiamati a scegliere tra sir Thomas More e sir Thomas Audley non avremmo dubbi di sorta. Nella piena consapevolezza dei nostri immensi limiti di peccatori, cercheremmo sempre di imitare l’esempio dei santi.