giovedì 25 febbraio 2016

Che maschio è stato Gesù?



Nello sguardo di Gesù su uomini, donne e bambini. La lezione materna
(Sergio Astori) Che maschio è stato Gesù? Questa, in sintesi, l’interessante provocazione di Sergio Massironi, su «L’Osservatore Romano» del 6 febbraio 2016. Mentre s’impongono alle agende politiche e culturali infinite discussioni sull’essere maschi e femmine (sesso) e divenire ragazzi-uomini e ragazze-donne (gender), qualcuno finalmente guarda a Gesù. Non il Gesù storico, inquadrato secondo le discipline scientifiche, ma Gesù sempre vivo, l’uomo Gesù che ci guarda e ci interroga come un fratello. Lui, che avendo consapevolezza d’essere il segno, sapeva d’essere stato prefigurato dai profeti come un figlio (maschio) concepito e partorito da una vergine (Isaia 7, 14). Sapeva che il suo sesso era stato determinato prima d’essere concepito, nel doppio significato di «pensato» e «generato».
Non possiamo lontanamente immaginare quale impatto intimo possa avere avuto per il Nazareno il vincolo originario al sesso maschile, ma certamente possiamo domandarci quale sia stato il suo sguardo su uomini, donne, bimbi e bimbe, in un contesto con riferimenti certo più normativi e categorici del nostro tempo liquido, dalla maschilità e femminilità intercambiabili.
I vangeli mostrano chiaramente che il Figlio dell’uomo ha esercitato qualcosa di unico sulle persone del suo tempo, una forza calamitante. Interessante è che tale percezione sia messa sulla bocca di guardie — «Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo» (Giovanni 7, 46) — così come a guardie e a centurioni è attribuito di riconoscere tra i primi la soprannaturalità della morte del Cristo (Marco 15, 39). Gli uomini delle armi e della guerra sentono che Gesù è un uomo la cui autorevolezza impone attenzione. È un uomo che arriva dentro le armature. Addirittura esercita una leadership agli orecchi e nei cuori di chi, per mestiere, deve dire sempre «signorsì».
In un’altra parte del Nuovo Testamento è fatta esplicita menzione del dato che con la fede in Gesù Cristo «non c’è più uomo né donna» (Galati 3, 28). È ovvio che il detto paolino non possa esser letto come l’esaltazione di un genere neutro, quanto piuttosto come il tracollo di distinzioni non più ultime in Cristo, come quelle, dice l’apostolo, tra greco e giudeo, tra schiavo e libero. Esiste un livello più profondo per cui i differenti sono uno.
Mi sono soffermato su passi neotestamentari apparentemente distanti tra loro, perché trovo che, da angolature diverse, possano orientarci nel mettere a tema un aspetto un po’ sottaciuto negli attuali dibattiti “sesso” contro gender. Da terapeuta avverto che le parole su Gesù selezionate dal Nuovo Testamento impongono di evitare di dire e ridire il già noto, di avvitarci in dibattiti datati, di idolatrare rappresentazioni che riducono tutto a dicotomia. Diciamolo chiaro, nel caso specifico del dibattito culturale sul gender e sui diritti civili, di alimentare il rischio peggiore già corso dalla psicoanalisi della prima ora: quello di ipersessualizzare. In fin dei conti ideologizzando.
Gesù sta nella storia in un altro modo. La sua alternatività, dice san Paolo, consiste nel risanare quelle disparità che l’essere umano assume come occasione di esercizio del potere (e strapotere) dell’uomo sull’uomo, di un gruppo umano sull’altro. Leggiamo forse, da qualche parte, che Gesù abbia limitato interesse e affettività profondi verso chi incontrava, lasciandosi condizionare dagli stereotipi socioculturali relativi alla sua identità biologica? Non ho competenze teologiche per misurarmi su ogni episodio e narrazione evangelica, ma come clinico sento profondamente vere queste parole: «Pur nella varietà dei quattro evangeli e delle circostanze e tradizioni che si rispecchiano, la figura di Cristo è coerente: la personalità di Gesù è la medesima» (Bruno Maggioni ed Enzo Prato, Il Dio capovolto, Assisi, Cittadella, 2014). Oppure: «Le parabole sono farmaco che ristabilisce la mediazione carnale di corpo e mondo (...). Non è affatto inverosimile ipotizzare che Gesù abbia raccontato alcune scene delle parabole non perché fantasiosamente inventate, ma avendole viste» (Giovanni C. Pagazzi, Fatte a mano. L’affetto di Cristo per le cose, Bologna, Edizioni Dehoniane, 2013). In altre parole, se Gesù è il nostro tesoro nascosto nel campo delle cose umane, lui stesso si è posto innanzi alla propria e altrui umanità come qualcuno disposto a scavare, a (ri)sporcarsi le mani, a provare a dirsi e a dirci che nel nostro fondo ci può essere ben più che una fossa di illusioni.
È questo Gesù sensibile al mondo che ordina, con tale competenza psicologica, che persino le guardie si girano ad ascoltarlo. Una competenza che nasce dall’osservare, non dal vedere: dal lasciarsi toccare da ciò che si sta guardando.
Un paziente sulla trentina mi ripeteva spesso: «Non ricordo mio padre avermi imposto mai nulla di preciso sul mio aspetto fisico, ma, anche se è morto da quindici anni, non riesco ancora a togliermi di dosso il ricordo del suo sguardo di disprezzo ogni volta che mi squadrava da capo a piedi». Facile capire che questo figlio rimpiange il non essere stato osservato davvero e, quindi, di non aver potuto aprire quel ponte di comunicazione, magari anche conflittuale, sul punto di equilibrio tra le dimensioni di maschilità e mascolinità, che recrimina al padre di non aver mai espresso.
Nei testi biblici si trovano alcuni cenni al rapporto del Cristo coi suoi genitori. Immagino nuovamente la scena di Cana (Giovanni 2, 1-12), quel «Non hanno più vino», bisbigliato dalla madre all’orecchio del figlio, preso forse a conversare coi suoi amici. Immagino Gesù toccato da Maria, lei per prima toccata dall’imbarazzo letto negli occhi dei giovani sposi, rimasti senza vino per brindare cogli ospiti. Lui che si gira brusco: «Che ho da fare con te, donna?»; gli sembra d’esser fuori scena: «Non è ancora giunta la mia ora». Lei non demorde, allerta i servi: «Fate quello che vi dirà». Loro che eseguono senza discutere l’ordine; ripristino del flusso della vita e della festa; gli occhi pieni d’incanto: il medesimo incanto dello sposo che si sente dire dal maestro di tavola: «Tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono».
Con l’approssimazione inevitabile nell’applicare il metodo dell’ascolto clinico a una scena evangelica, credo si possa dire che questo figlio è stato educato a percepire la qualità sensibile delle relazioni umane. È stato rispettato e amato, ma anche provocato dalla sua stessa madre, in ragione della sua storia particolare; è stato aiutato a non diventare un «superbo chiuso nei pensieri del suo stesso cuore».
Perché parlo di lezione materna? Perché, senza alcuna pretesa di necessità, mi permetto di ritenere che le parole rivolte in seguito alla donna cananea (Matteo 15, 28), che non accettava di vedersi rifiutare, in quanto straniera, un aiuto alla figlia indemoniata, Gesù a Cana le avesse pensate la prima volta proprio per sua mamma: «Donna, davvero grande è la tua fede». Per il Cristo che ci presentano i vangeli, infatti, non c’è spazio per l’unica parola che in qualsiasi lingua ha una sorta di genere neutro: indifferenza.

L'Osservatore Romano