lunedì 22 febbraio 2016

Perché non dobbiamo guardare all’uva.



Cristianesimo e vita quotidiana nella meditazione di padre Rupnik

«Com’è bello quando senti qualcuno, che ha avuto a che fare con una qualsiasi curia, dire di aver trovato persone libere, disponibili, generose» e capaci di apertura. Caratteristiche che delineano il profilo di chi svolge la propria missione nella Curia romana, secondo il gesuita Marko Ivan Rupnik, autore della meditazione che, nell’aula Paolo VI, ha aperto la giornata giubilare. Proprio con questo atteggiamento di apertura, ha affermato il religioso, «si comincia a coprire la distanza con l’uomo contemporaneo che è ferito, dolente e provato come noi». 
E solo nella condivisione di questa condizione davvero «saremo misericordiosi», coinvolgendo «le persone in un desiderio di vita nuova». Tanto che, ha spiegato Rupnik, «se oggi, in questa società frantumata, vogliamo suggerire qualcosa alle istituzione civili del mondo», dobbiamo rilanciare «un modo di strutturarci, di governare, di dirigere, di gestire che è comunionale, includente, e che è una manifestazione di una realtà più profonda». «Siamo chiamati — ha proseguito Rupnik — a suscitare voglia e appetito nel mondo per una vita nuova». E «la nostra fede non è altro che accoglienza di questa vita nuova». Con la certezza che «dietro una Chiesa brava non s’incamminerà mai nessuno, ci faranno solo un applauso e basta». Ad attirare sarà piuttosto «una Chiesa bella che dentro di sé, i suoi gesti, i suoi sguardi, le sue parole, fa emergere il Figlio e ancor di più il Padre». Sempre «mossi dallo Spirito Santo che è la vita come comunione». Solo così, ha fatto notare, «l’uomo diventa luogo della vita come comunione e come misericordia, luogo della Chiesa, luogo della ecclesialità». E il giubileo della Curia è un’occasione propizia, secondo Rupnik, anche per mettere in guardia dalla tentazione «tremenda di acquisire un carattere un po’ parastatale», finendo per mettere «nel cuore la funzione, la struttura, l’istituzione, l’individuo che è in funzione di qualcosa». Ma «l’individuo non può rivelare altro che se stesso». E sarebbe scandaloso «far vedere al mondo che viviamo il cristianesimo come realtà individuale». Dobbiamo invece liberarci, ha esortato Rupnik, dall’idea di «perfezione dell’individuo», perché «il cristianesimo non può promettere a una persona la perfezione ideale, ma la vita eterna in comunione del corpo di Cristo». Riferendosi anche agli studi di grandi pensatori cristiani, Rupnik ha ricordato che «la perfezione della Chiesa è nella organizzazione, cioè la Chiesa può portare nel mondo una trasfigurazione della società perché fa e organizza la vita a modo della sinergia trinitaria, della manifestazione della divino-umanità di Cristo, preparando la nuova venuta di Cristo, sprigionando l’uomo nella Chiesa da una dinamica peccato-redenzione, che è sì necessaria ma poi da superare». E la «seconda tappa — ha aggiunto — è quella dello Spirito Santo, della creatività: si sprigiona un’umanità che diventa teofanica, che rivela l’amore di Dio con il suo modo di essere includente e coinvolgente». Rupnik ha quindi messo in guardia dalla tentazione di impegnarsi per avere qualcosa in cambio. Così facendo «intere realtà della Chiesa si sono inaridite, decadendo nel semplice impegno di pratiche religiose» ha detto. Per questo l’atteggiamento giusto è l’accoglienza e non «l’istituzionalizzazione religiosa della fede e della Chiesa». Nelle Stanze di Raffaello, ha rimarcato, l’affresco di Laureti ricorda che «il cristianesimo non è il sostituto della religione pagana». Del resto, «il compito della Chiesa è far vedere al mondo cosa Dio fa di noi quando scorre attraverso l’umanità». Nella sua riflessione sulla «misericordia nella vita quotidiana», ricca di riferimenti biblici e patristici, Rupnik ha anche fatto presente «che la vita è un tessuto relazionale, scorre attraverso le relazioni e nelle relazioni l’uomo rivela il suo contenuto». E la misericordia viene dalla «comunione con Dio». Tanto che «l’uomo diventa luogo della rivelazione della misericordia perché comincia a vivere secondo la vita di Dio, cioè includendo l’altro». L’esistenza di Dio, come dicevano gli antichi padri greci, è «nel suo modo di essere: il Padre esiste già includendo l’altro». Nel riproporre, poi, la figura del giovane ricco e osservante ma impaurito dalla morte — raccontata nel capitolo 10 del Vangelo di Marco — Rupnik ha spiegato che Cristo è venuto a salvarci proprio da «una religione vista come un insieme di pratiche, dottrine, precetti comandamenti ed esercizi che l’uomo deve fare per attirare su di sé la benevolenza di Dio e per conquistare un premio». Gesù è venuto a liberarci «da un modo di vivere la religione che diventa pesante». Anche l’episodio delle nozze di Cana, narrato da Giovanni al capitolo 2, è «un aiuto» in questo senso. Quelle sei giare di pietra, vuote, sono immagini della «legge decaduta in legalismo, in una religione moralistica che si è prosciugata e non serve più per la purificazione perché non c’è più niente dentro». E il vino che le riempie, come ricordano le Scritture, è «il senso della vita». Come a dire: «Cosa si sposano a fare se non hanno l’amore?». Perché «una religione che finisce in moralismo legalistico prosciugato non serve più». Quindi nell’immagine di Dio come vignaiolo che sa potare per portare davvero frutto, come si legge al capitolo 15 del Vangelo di Giovanni, Rupnik ha suggerito un’ulteriore chiave di lettura. Solo «il Padre sa qual è il frutto vero che deve portare una persona» e non dimentica mai che l’obiettivo finale non è il grappolo ma, appunto, il vino. Per questo «non dobbiamo innamorarci dell’uva, ma guardare sempre al vino». Così possono essere anche tagliati tralci coi grappoli pur di arrivare ad avere il prodotto migliore, che solo il Padre conosce. Dunque, ha proseguito, «non ci si può fermare alla prima tappa della vita, quando uno crea, propone. Ci vuole il passaggio del torchio, del mosto che diventa vino». E anche il legno del vitigno, ha detto ancora, con la sua unicità ci ricorda che «se l’umanità non viene attraversata dalla vita filiale della vita divina finisce tragicamente, come ogni essere della creazione». Infatti «l’uomo è uomo solo se è divino-umano, se è di Cristo, se è la divino-umanità di Cristo». Invece «se attraverso la nostra natura umana non scorre un principio personalizzante, personale, filiale, con una vita sorgente nel Padre, ci possiamo innalzare in tante opere, ma la tomba e il verme sarà l’ultima stazione». Insomma, ha concluso, solo «se passa attraverso di noi questa vita di Dio, l’uomo è capace di portare il frutto che rimane, è capace di avvolgere il suo lavoro nell’amore che rimane in eterno perché torna al Padre: ciò che l’uomo può rivelare è la sua divino-umanità in Cristo». E il Padre è «l’unico che può coprire la distanza che separa l’uomo perduto, peccatore, morto, da Dio vivente. L’uomo, da solo, non può farlo: tale capacità di Dio di raggiungerci è la stessa identità di Dio verso di noi e verso la creazione, cioè la misericordia».

L'Osservatore Romano