venerdì 25 marzo 2016

DIO AMA PERSONALMENTE LA CREATURA

Il Magistero di Papa Benedetto XVI e la sofferenza

Benedetto XVI nella Deus Caritas est descrive un Dio, che ama personalmente la creatura a fronte di una mentalità del mondo antico, che concepiva non tanto un dio impassibile, quanto estraneo alla creatura. Impassibileed estraneo non sono sinonimi.

[9]«… Egli stesso, è l’autore dell’intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui fattaE così appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l’uomo. La potenza divina che Aristotele,
al culmine della filosofia greca, cercò di cogliere mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e dell’amore — come realtà amata questa divinità muove il mondo[1]—, ma essa stessa non ha bisogno di niente e non ama, soltanto viene amata. L’unico Dio in cui Israele crede, invece, ama personalmente. Il suo amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti i popoli Egli sceglie Israele e lo ama — con lo scopo però di guarire, proprio in tal modo, l’intera umanità. Egli ama, e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape[2].
Contestualmente Papa Benedetto sottolinea drammaticamente che l’uomo, che dimentica Dio, pone la radice più profonda della sofferenza …
[31]… Spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza … [38]. Certo Giobbe può lamentarsi di fronte a Dio per la sofferenza incomprensibile, e apparentemente ingiustificabile, presente nel mondo. Così egli parla nel suo dolore: « Oh, potessi sapere dove trovarlo, potessi arrivare fino al suo trono! … Verrei a sapere le parole che mi risponde e capirei che cosa mi deve dire. Con sfoggio di potenza discuterebbe con me? … Per questo davanti a lui sono atterrito, ci penso ed ho paura di lui. Dio ha fiaccato il mio cuore, l’Onnipotente mi ha atterrito » (23, 3. 5-6. 15-16). Spesso non ci è dato di conoscere il motivo per cui Dio trattiene il suo braccio invece di intervenire. Del resto, Egli neppure ci impedisce di gridare, come Gesù in croce: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mt 27, 46). Noi dovremmo rimanere con questa domanda di fronte al suo volto, in dialogo orante: « Fino a quando esiterai ancora, Signore, tu che sei santo e verace? » (Ap 6, 10). È sant’Agostino che dà a questa nostra sofferenza la risposta della fede: « Si comprehendis, non est Deus » — Se tu lo comprendi, allora non è Dio[3]. La nostra protesta non vuole sfidare Dio, né insinuare la presenza in Lui di errore, debolezza o indifferenza. Per il credente non è possibile pensare che Egli sia impotente, oppure che « stia dormendo » (cfr 1 Re 18, 27). Piuttosto è vero che perfino il nostro gridare è, come sulla bocca di Gesù in croce, il modo estremo e più profondo per affermare la nostra fede nella sua sovrana potestà. I cristiani infatti continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella « bontà di Dio » e nel « suo amore per gli uomini » (Tt 3, 4). Essi, pur immersi come gli altri uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi».
Nella Enciclica  Spe Salvi Papa Benedetto non manca di ricordare che, pur cercando di limitare la sofferenza ed i suoi danni, non possiamo eliminarla. Anzi, cercare di eliminarla spesso porta l’uomo a percorrere le strade di una vita senza senso.
«37. … Possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell’amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l’oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore. Vorrei in questo contesto citare alcune frasi di una lettera del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin († 1857), nelle quali diventa evidente questa trasformazione della sofferenza mediante la

 


forza della speranza che proviene dalla fede. “Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perché infiammati dal divino amore innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna è la sua misericordia (cfr Sal 136 [135]). Questo carcere è davvero un’immagine dell’inferno eterno: ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene di ferro, le funi, si aggiungono odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni e infine angoscia e tristezza. Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace ardente, mi è sempre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna è la sua misericordia[4]. In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me […] Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro cortigiani, che bestemmiano il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini (cfr Sal 80 [79], 2) e i Serafini? Ecco, la tua croce è calpestata dai piedi dei pagani! Dov’è la tua gloria? Vedendo tutto questo preferisco, nell’ardore della tua carità, aver tagliate le membra e morire in testimonianza del tuo amore. Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella mia debolezza sia manifestata e glorificata la tua forza davanti alle genti […]. Fratelli carissimi, nell’udire queste cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e beneditelo con me: eterna è la sua misericordia. […] Vi scrivo tutto questo, perché la vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la tempesta, getto l’ancora fino al trono di Dio: speranza viva, che è nel mio cuore…” . Questa è una lettera dall’ inferno [5]. Si palesa tutto l’orrore di un campo di concentramento, in cui ai tormenti da parte dei tiranni s’aggiunge lo scatenamento del male nelle stesse vittime che, in questo modo, diventano pure esse ulteriori strumenti della crudeltà degli aguzzini. È una lettera dall’inferno, ma in essa si avvera la parola del Salmo: « Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti […]. Se dico: “Almeno l’oscurità mi copra” […] nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce » (Sal 139 [138] 8-12; cfr anche Sal 23 [22],4). Cristo è disceso nell’ inferno  e così è vicino a chi vi viene gettato, trasformando per lui le tenebre in luce. La sofferenza, i tormenti restano terribili e quasi insopportabili. È sorta, tuttavia, la stella della speranza – l’ancora del cuore giunge fino al trono di Dio. Non viene scatenato il male nell’uomo, ma vince la luce: la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode.
Quale sia il valore dell’umanità si descrive proprio nella sofferenza. Quando l’oggetto dell’amore è lontano, allora, nel cuore attento, ritorna, esaltato, l’affetto per la persona che prima, collocata nella dimensione della quotidianità, risultava scontata. Per un figlio è scontato che il genitore ci sia, ma quando manca … Per uno sposo è scontato che la sposa ci sia, ma quando manca … ? Non solo rapporto con la sofferenza, ma anche con il sofferente. Così Papa Benedetto nella Spe Salvi continua:
38. La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d’altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell’altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l’altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine. Ma anche la capacità di accettare la sofferenza per amore del bene, della verità e della giustizia è costitutiva per la misura dell’umanità,
 
La Pietà di Michelangelo esprime la capacità di
stare con il dolore, nel dolore.

 perché se, in definitiva, il mio benessere, la mia incolumità è più importante della verità e della giustizia, allora vige il dominio del più forte; allora regnano la violenza e la menzogna. La verità e la giustizia devono stare al di sopra della mia comodità ed incolumità fisica, altrimenti la mia stessa vita diventa menzogna.
Noi penseremmo che con l’amore la sofferenza abbia fine e che l’amore sia assenza di sofferenza. E,  invece, più si ama e più si soffre, tanto che nelle filosofie orientali l’amore, inteso come affezione e passione, deve essere evitato come attaccamento, in quanto renderebbe impossibile la liberazione, l’illuminazione.
Continua Papa Benedetto: E infine, anche il sì  all’amore è fonte di sofferenza, perché l’amore esige sempre espropriazioni del mio io, nelle quali mi lascio potare e ferire. L’amore non può affatto esistere senza questa rinuncia anche dolorosa a me stesso, altrimenti diventa puro egoismo e, con ciò, annulla se stesso come tale.
Addirittura per il Papa Emerito il soffrire diventa la condizione per amare. Se dico ti voglio bene e, intanto, non soffro per te, il mio volerti bene è vuoto!
Il soffrire per amore della verità e della giustizia ed il soffrire a causa dell’amore per diventare capaci di amore vero, sono virtù di umanità!
  1. Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso. Ma ancora una volta sorge la domanda: ne siamo capaci? È l’altro sufficientemente importante, perché per lui io diventi una persona che soffre? È per me la verità tanto importante da ripagare la sofferenza? È così grande la promessa dell’amore da giustificare il dono di me stesso? Alla fede cristiana, nella storia dell’umanità, spetta proprio questo merito di aver suscitato nell’uomo in maniera nuova e a una profondità nuova la capacità di tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanità.

Questo grande Papa Teologo indica nella profondità del Dottore San Bernardo la connessione tra il Dio impassibile, che per sua natura non può soffrire, con il Dio che sa compatire nella sua dimensione di Dio ri-voltoverso la creatura. Non il Padre o lo Spirito, in quanto tali, ma il Verbo in quanto incarnato, per l’identità della persona divina soggetto dell’uomo-Gesù. Le parole seguenti sembrano un canto di come Dio, fattosi carne, senza smettere di essere Dio, è vicino a questa sofferenza, che, mai dobbiamo dimenticarlo, fa crescere l’uomo, come le doglie del parto fanno crescere l’amore di una donna per la propria creatura, facendo diventare la donna madre,colei che sa generare!
 La fede cristiana ci ha mostrato che verità, giustizia, amore non sono semplicemente ideali, ma realtà di grandissima densità. Ci ha mostrato, infatti, che Dio – la Verità e l’Amore in persona – ha voluto soffrire per noi e con noi. Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis[6] [29] – Dio non può patire, ma può compatire. L’uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l’uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell’amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza. Certo, nelle nostre molteplici sofferenze e prove abbiamo sempre bisogno anche delle nostre piccole o grandi speranze – di una visita benevola, della guarigione da ferite interne ed esterne, della risoluzione positiva di una crisi, e così via. Nelle prove minori questi tipi di speranza possono anche essere sufficienti.
 La sofferenza cristiana diventa speranza per il cristiano e per colui che si apre, neofita, alla fede. La capacità di soffrire dipende dalla misura della speranza che è nell’uomo.
Ma nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria. Anche per questo abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare – giorno dopo giorno[7]. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità – sapendo che proprio così viviamo veramente la vita. Diciamolo ancora una volta: la capacità di soffrire per amore della verità è misura di umanità. Questa capacità di soffrire, tuttavia, dipende dal genere e dalla misura della speranza che portiamo dentro di noi e sulla quale costruiamo. I santi poterono percorrere il grande cammino dell’essere-uomo nel modo in cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perché erano ricolmi della grande speranza.
E nella speranza vissuta quotidianamente, il Papa ripropone all’uomo sofferente l’antica abitudine-virtù di saper offrire le sofferenze.
40. Vorrei aggiungere ancora una piccola annotazione, non del tutto irrilevante per le vicende di ogni giorno. Faceva parte di una forma di devozione, oggi forse meno praticata, ma non molto tempo fa ancora assai diffusa, il pensiero di poter offrire  le piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un senso. In questa devozione c’erano senz’altro cose esagerate e, forse, anche malsane, ma bisogna domandarsi se non vi era contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale che potrebbe essere di aiuto. Che cosa vuol dire offrire ? Queste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all’economia del bene, dell’amore tra gli uomini. Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi».
Il  nostro problema, quindi,  è capire se, nel disegno di Dio, l’uomo sia un essere mortale e destinato alla sofferenza illuminata dalla Speranza.
Il CCC 374-379  dice, riguardo all’uomo, di una giustizia originale, -che ritengo vada intensa in senso meta-temporale-, possibile solo nella dimensione dell’armonia con il Creatore. Solo la perdita di tale armonia farà perdere questo stato di immortalità, dono di Dio, come  è suo dono ogni cosa della quale l’uomo possa avere esperienza e conoscenza.
L’uomo, nell’attuale condizione di peccato, è privo dell’armonia con il Creatore e, quindi, sperimenta la sofferenza, la fatica, la discordia e la morte. Ciò significa che Dio, nella sua scienza e amore, ha previsto per l’uomo due possibilità, come ben sappiamo, legate alla libertà, -altro nodo problematico nell’uomo di tutti i tempi e della teologia-. Ma, anche qui, il N. T. più che chiedersi cosa sia la libertà, indica come essere liberi.
Marcello Giuliano
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[1] Cf Aristotele, Metafisica, XII, 7.
[2] Cfr Pseudo Dionigi Areopagita che, nel suo Sui nomi divini, IV, 12-14: PG 3, 709-713, chiama Dio nello stesso tempo eros agape.
[3] Cf S. Agostino, Sermo 52, 16: PL 38, 360.
[4] La sottolineatura è nostra.
[5] Breviario Romano, Ufficio delle Letture, 24 novembre.
[6] Sermones in Cant., Serm. 26,5: PL 183, 906.

[7] Pensiamo all’esempio di un S. Thomas Backet o di San Thomas More.