venerdì 15 aprile 2016

Donne invisibili



Frontiere teologiche. Pubblichiamo un intervento tenuto presso la Pontificia università Urbaniana, sul tema: «La Chiesa e le donne. Una nuova alleanza da rivisitare» nell’ambito di una giornata di studio dell’area di teologia fondamentale dedicata alla nuove frontiere della ricerca teologica.
(Caterina Ciriello) Non c’è molto da girarci intorno: il binomio tra la Chiesa e le donne è piuttosto disarmonico. Perché? Il tema dell’alleanza ci aiuta a capire le cause di questo problema che assume aspetti concreti.

La storia della salvezza è costellata dalla parola alleanza. Il termine ebraico usato per designarla è berit, che si trova circa 287 volte nella Bibbia; la sua etimologia è piuttosto discussa: all’origine ci sarebbero due verbi bārā h I (mangiare) e bārā h II (guardare, scegliere). Ipotizzando un’evoluzione del vocabolo si arriva al senso usuale di alleanza e patto. La corrispondente traduzione greca è diathkē, che non ha proprio il significato di alleanza, ma più di disposizione, accordo, da cui la scelta teologica del termine testamento. Nelle lettere paoline ricorre 8 volte con particolare attenzione in Galati 4, 24 in cui si parla delle due alleanze, e 2 Corinzi 3, 6 unico punto in cui Paolo usa l’espressione “nuova alleanza”, e 2 Corinzi 3, 14 in cui si riferisce all’antica alleanza.
L’alleanza è un concetto centrale nella Bibbia in quanto designa il legame che unisce Dio all’umanità. Non è un patto tra eguali, come accade tra le persone, ma è un dono che Dio misericordia — ricordiamo che la misericordia in Dio è il suo stesso essere, è la sua natura ed essenza — fa all’umanità. Quale lo scopo di questa alleanza? Il concilio Vaticano II nella Dei Verbum lo chiarisce: «invitarli (gli uomini) e ammetterli alla comunione con sé». Questo desiderio di comunione con l’umanità sta all’origine della creazione, e si rende possibile solo perché l’uomo e la donna vengono plasmati a sua immagine e somiglianza. Essa è il messaggio dell’amore di Dio all’umanità.
Dopo il peccato di Adamo ed Eva, il mondo è sconvolto dalla violenza che sta per distruggere la creazione: Dio interviene con il diluvio, ma salva Noè (e la sua famiglia) con cui sancisce un patto unilaterale ed eterno (Genesi 9, 8-13): Dio, infatti, non rimangia la sua parola. L’uomo però lo fa, tanto è vero che Dio reitera la sua alleanza con l’umanità innumerevoli volte, come racconta la Scrittura, finché, nel Nuovo Testamento, l’alleanza si rinnova definitivamente in Cristo.
Insieme al concetto di alleanza va considerato anche quello di comunione (Koinōnìa). Dio ci chiama a entrare in comunione con lui in virtù dell’atto creazionale. In Genesi 2, 18 leggiamo: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». Dio si rende conto che l’uomo ha bisogno di comunicare ed essere in comunione con un suo simile; e dal momento in cui il secondo narratore biblico racconta che Dio plasma la donna dalla costola di Adamo, l’uomo e la donna saranno una cosa sola, creati alla piena comunione tra di loro e con il loro creatore.
Ma torniamo sul tema dell’immagine e somiglianza. Nel 1996 così si pronunciava il cardinale Ratzinger: «Dire che Dio ci ha creati a sua immagine, significa dire che egli ha voluto che ciascuno di noi manifesti un aspetto del suo splendore infinito, che egli ha un progetto su ciascuno di noi, che ciascuno di noi è destinato a entrare, per un itinerario che gli è proprio, nell’eternità beata». Quel “ciascuno di noi” non è per l’esclusione, ma al contrario chiama tutta l’umanità a manifestare nel suo proprio essere maschile e femminile la bellezza del Creatore, realizzando quanto egli stesso aveva pensato per ognuno sin dall’eternità. Perché parliamo di una nuova alleanza da rivisitare? Qui non voglio assolutamente chiamare in causa il Signore (alleanza eterna è e sarà, sino alla fine dei tempi), ma l’umanità, in special modo il maschio che non ha più rispettato quanto detto da Dio in Genesi 1, 26-27: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”». Ritroviamo, infatti, un problema, non solo di relazione, ma di dignità, altra parola chiave, indispensabile per leggere correttamente il rapporto uomo-donna. Che fine ha fatto la dignità della donna?
Nella Familiaris consortio Giovanni Paolo II riprende il tema della uguale dignità tra i sessi: «Dio dona la dignità personale in eguale modo all’uomo e alla donna, arricchendoli dei diritti inalienabili e delle responsabilità che sono proprie della persona umana». Nel 2004 la Commissione teologica internazionale ha voluto ribadire con forza il pensiero del Papa affermando che «la Bibbia non dà alcun adito al concetto di una superiorità naturale del sesso maschile rispetto a quello femminile. Nonostante le loro differenze, i due sessi godono di una implicita eguaglianza». E ancora Benedetto XVI: «Questa unità-duale dell’uomo e della donna si basa sul fondamento della dignità di ogni persona, creata a immagine e somiglianza di Dio, evitando tanto una uniformità indistinta e una uguaglianza appiattita e impoverente quanto una differenza abissale e conflittuale».
Come mai queste dichiarazioni rimangono lettera morta? La Chiesa istituzione non sta certo dando un buon esempio: nella questione femminile si sta giocando buona parte della sua reputazione, tanto è vero che le donne fuggono e le giovani non si ritrovano negli stereotipi guida somministrati dai sacerdoti, un buon numero dei quali sembra accettare tacitamente questa eredità scellerata. Eppure lo Spirito Santo da secoli continua a effondersi anche sulle donne perché «Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (Atti 10, 34-35).
Occorre considerare la rottura di quella chiamata alla reciprocità che è frutto della creazione e della comunione con Dio: questa lacerazione è la manifestazione esplicita di quel desiderio di onnipotenza che da sempre convive con l’essere umano. Non possiamo ignorare la parte che in tutto questo gioca la struttura patriarcale, tutt’ora presente e che non accenna a cedere malgrado le contingenze culturali e temporali: lo stesso Francesco ha più volte sottolineato con enfasi l’inaccettabilità del ruolo invisibile che la donna ancora riveste nel mondo e nella Chiesa. Il Papa ha voluto sfatare — ed è la cosa più bella e rincuorante — quel fastidioso e obsoleto luogo comune che per secoli ha permesso che si travisasse la stessa interpretazione biblica della creazione, attribuendo il marchio di peccato e, conseguentemente, di inferiorità alla donna, volutamente incolpata di essere alleata del male.
Il modello maschile-femminile nelle metafore profetiche riporta solo ed esclusivamente l’elemento femminile come fonte di infedeltà (cfr. Isaia 54, 4-6; Ezechiele 16, 8; Geremia 2, 2.32). Eppure nella Bibbia ci sono almeno una ventina di immagini che richiamano la maternità di Dio: insistere sulla visione prevalentemente maschile di Dio inchioda la donna in una posizione di subalternità.
Una delle proposte fatte da Gesù — scandalose per la società e la religione del tempo — fu quella di amare indistintamente le persone. «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento» (Matteo 5, 17-20), affermazione che segue immediatamente il discorso della montagna (Matteo 5, 1-11), che potremmo definire la sua enciclica programmatica, e precede i versetti di condanna di omicidio, legge del taglione, adulterio e ripudio (Matteo 5, 27-32). Gesù volutamente abbraccia la condizione dei poveri di Yahvè, cioè dei senza voce e degli esclusi, e la fa sua: tra questi vi sono anche le donne. In tal senso Elżbieta Adamiak nota che Papa Francesco quando parla di una «profonda teologia della donna» si riferisce proprio a questa particolare scelta di Gesù, a una «Chiesa povera per i poveri» nella quale le donne sono i poveri.
Scribi e farisei si guardavano bene dal lasciarsi contaminare: l’impurità della donna nei giorni del ciclo faceva drizzare i capelli in testa a chiunque. Eppure Gesù si è lasciato toccare dall’emorroissa guarendola (Matteo 9, 20-22): egli, cioè, accetta di essere considerato impuro per amore del suo popolo, in barba alle prescrizioni di una legge che, anziché salvare, discriminava. È voluto andare al di là della cultura e della tradizione per presentare le donne come esseri umani nella loro completezza.
Il Vangelo dovrebbe segnare una netta linea di demarcazione nei confronti di ogni cultura di esclusione e violenza: se non succede è perché i cristiani ne hanno perduto il senso autentico, aggiustandolo a criteri e desideri personali. Ciò capita, purtroppo, anche tra coloro che dovrebbero esserne i maggiori garanti, e cioè clero e persone consacrate.
Ritengo vi sia stata una sorta di infedeltà messa in atto dalla Chiesa nei confronti della donna: non parlo della Chiesa spirituale, prolungamento di Cristo, ma della Chiesa istituzione, della chiesa carnale, umana. Il cristianesimo delle origini, seguendo il comandamento di Gesù, ha adottato innumerevoli forme controculturali rispetto al ruolo delle donne: nel I e II secolo, specie in Oriente, esse hanno avuto la possibilità di svolgere un ruolo attivo nella missione, nell’insegnamento e nella leadership cristiana. Il successivo processo di patriarcalizzazione ha invece portato alla crescita del ruolo degli apostoli e alla diminuzione di quello delle donne: in questo senso si può dire che il Vangelo è stato tradito perché è stato addomesticato alle tradizioni culturali delle società patriarcali, le quali hanno trasformato, come ha scritto Lucetta Scaraffia, «anche il cristianesimo in una religione a prevalente egemonia maschile».
Se oggi le donne nella Chiesa devono alzare la voce per essere ascoltate allora la reciprocità e il rispetto sono morti come un bambino appena nato nella culla. Se la Chiesa è una madre sorda (materialmente e spiritualmente) quella speranza di rinascita per l’umanità, fortemente invocata da Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio, segnato dalla «medicina della misericordia», è scomparsa con lui.
Il ruolo della donna nella Chiesa è come il “già” e il “non ancora”; come chi sta dentro e fuori. La donna sta “dentro” la Chiesa per quello che Papa Francesco ha definito un servizio da serva; sta fuori quando vorrebbe dare il suo specifico apporto nella vita pastorale, accademica, teologica, cioè quando si mostra capace di pensare e agire autonomamente, sfuggendo al controllo di una gerarchia di uomini, anche laici.
Non voglio essere negativa, ma realista: c’è ancora molta strada da fare perché la donna trovi il posto che le spetta di diritto nella Chiesa. Ed è un cammino che dobbiamo fare insieme, con impegno e responsabilità avendo la capacità di dire sì sì e no no, come ci chiede Gesù. Perché, ricordiamolo, chi «mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio» (Luca 9, 62).

L'Osservatore Romano