sabato 16 aprile 2016

IV Domenica di Pasqua (Anno C) — 17 aprile 2016. Ambientale, commento al Vangelo e Lectio divina


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AMBIENTALE
Nella quarta Domenica di Pasqua, la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù dice:
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”.
Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io dò loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Ecco l’opera che il Signore compie, particolarmente in questo tempo pasquale, attraverso la Chiesa: far udire la sua voce a tutti e in ogni luogo. In privato o nelle piazze, far risuonare la buona notizia della liberazione dalla morte del peccato: Gesù Cristo può farci uscire dal recinto dell’egoismo, della solitudine e dell’insoddisfazione e condurci, mediante il lavacro del suo sangue, alle fonti del perdono, ai pascoli dell’amore al prossimo, nel dono di se stessi. Questo lieto annuncio trasforma coloro che lo accolgono: la violenza narcisista del lupo lascia il posto, nelle anime, all’onnipotenza mite dell’Agnello: la misericordia prevale sul giustizialismo e la Pace pervade i cuori. Apriamo le porte al Risorto! Ascoltiamo il kerigma con il quale Egli bussa alla porta per donarci eternità e bellezza, per vincere la nostra inerzia, e plasmarci in evangelizzatori. Il Padre e il Figlio infatti sono uniti nello Spirito per un’unica straordinaria  missione: liberare gli uomini dal pericolo dell’inferno, difendere la dignità di ogni singola persona dall’invidia del diavolo che nulla può contro chi si affida alla potente mano del Salvatore. (Sanfilippo)
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COMMENTO AL VANGELO

 La sua mano trapassata dai chiodi ci tiene stretti per l’eternità


Il Vangelo di questa domenica ci annuncia una splendida notizia: ciascuno di noi è al centro dell’intimità e della perfetta unità tra il Padre e il Figlio. E’ vero che tante volte anche noi mormoriamo e ci mettiamo davanti al Signore con lo stesso atteggiamento dei Giudei. Esigiamo che Egli si manifesti secondo i nostri desideri, secondo le voglie del momento.
Anzi, lo facciamo responsabile delle nostre sofferenze. In greco, infatti, invece di “fino a quando ci terrai con l’animo in sospeso” si può leggere anche “fino a quando ci toglierai la vita?”. Confessiamo che è proprio quello che tante volte ci ritroviamo a pensare, quando ci sembra che il Signore resti muto di fronte alle nostre angosce.
In fondo non è vero, come non era vero per i giudei, che siamo con l’animo in sospeso. La verità è che nel cuore abbiamo già deciso, ed è chiara ai nostri occhi l’immagine del salvatore di cui abbiamo bisogno, e non è quella del Servo di Yahwè, l’agnello muto condotto al macello.
E non ci rendiamo conto che stiamo aspettando e desiderando un “mercenario”, un estraneo, uno cui di noi non importa nulla. Aspettiamo Barabba. Aspettiamo un brigante, l’importante è che ci risolva i problemi e ci liberi dal giogo dei politici, del capo ufficio, della suocera.
Per questo, rieccheggiando le parole dei demoni rivolte a Gesù nei sinottici, ci scandalizziamo del Signore, temiamo che venga a distruggerci, a scompaginare i nostri progetti di vita. Soprattutto, i nostri criteri, il nostro sguardo sul mondo, la vita, gli eventi, le persone.
Ma il cristianesimo non è una religione come le altre, perché alla sua origine, come ripeteva Benedetto XVI, vi è un incontro personale capace di sconvolgere, convertire, cambiare e colmare l’esistenza. Dove si dà questo incontro, e dove esso si approfondisce in una conoscenza che superi la buccia dell’apparenza, necessariamente si dà un cambio radicale di mentalità. Appare un nuovo discernimento. Per questo Gesù parla di sé come del buon pastore, del pastore bello, del pastore vero, termini che in greco, non a caso, sono interscambiabili.
E per questo il contesto del Vangelo di questa domenica, è proprio quello della festa di Hanukka’h, la Dedicazione, che celebrava la riconsacrazione del nuovo tempio ad opera di Giuda Maccabeo, dopo la profanazione di Antioco Epifane. E’ la hanukka’h (consacrazione), detta in greco enkaini’a (rinnovazione) (cfr 1 Macc 4, 54-59; 2 Macc 1,8; 2,16; 10,5).
In questa festa, secondo i rabbini e la tradizione ebraica, tra i tanti, vi sono due elementi che crediamo essere fondamentali per l’intelligenza delle parole di Gesù: “Il decreto promulgato dai Greci Siriani, era di far “dimenticare la Tua Tora’ e violare i decreti della Tua volontà” agli Ebrei. I Greci adoravano la conoscenza. A loro non importava se gli Ebrei apprendevano la saggezza della Torà. Ciò che obiettavano violentemente era l’idea che la Torà provenisse da Dio – “la Tua Torà”… Per questa ragione i Greci contaminarono l’olio nel Beit Hamikdash”. “La radice Hanukkah, da cui derivano Hanukkah e hinnukh (educazione), significa anche “educare”.
La rivolta ebraica scoppiò quando il nemico greco tentò di colpire proprio le radici culturali e religiose del popolo e più precisamente, quando i Seleucidi, dominatori della Giudea, imposero agli ebrei di abbandonare progressivamente le proprie tradizioni, costringendoli ad adorare gli idoli nel Tempio di Gerusalemme. Di fronte al pericolo della perdita della propria identità, gli ebrei si opposero e organizzarono una resistenza che fondava le proprie basi sull’adesione all’educazione ebraica”.
Gesù, nel mezzo di questa festa, passeggia nel tempio, sotto il portico di Salomone. Passeggia come Dio nel paradiso, alla ricerca di Adamo. La sua presenza e le sue parole sono per ciascuno di noi un interrogativo: “dove sei?”. E’ lui che interroga, e ci mette a nudo, per questo la reazione è scomposta, e sembra che le domande del Signore ci tolgano la vita. Gesù ci chiede conto della mentalità che guida la nostra vita.
Siamo sue pecore, oppure siamo sballottate qua e là da qualunque vento di dottrina, afferrate da uno dei tanti Barabba che attentano alle anime? Quali sono le nostre reazioni di fronte all’ingiustizia, alla malattia, all’umiliazione, alla solitudine, al disprezzo, al fallimento? Con quali occhi, con quale mente, con quale cuore guardiamo oggi alla Croce? Chi ci sta educando?
L’olio dello Spirito Santo, quello della sapienza della Croce, non è stato per caso profanato, e oggi giace inutilizzabile e ci troviamo come le vergini stolte, impossibilitate ad entrare al banchetto delle nozze con il Signore? Non abbiamo forse dimenticato la Parola che abbiamo ricevuto, consegnando il tempio della nostra vita agli idoli e al principe di questo mondo? Non siamo per caso oggi immondi, inadatti al culto, schiavi di mercenari e ingannatori?
Se così fosse, la parola del Vangelo e’ proprio per noi, ed e’ una buona notizia. E’ la sua voce, quella per la quale siamo nati, per la quale siamo stati creati. E’ il Pastore vero, bello, buono, che ci strappa dall’inganno, che distrugge nella sua morte, la menzogna e l’inganno.
E’ Lui che riconsacra il suo tempio, la nostra vita. E’ Lui che ci attira nella stessa intimità divina, nel Santo dei Santi, il cuore di Dio. E’ Lui che si fa nostro condottiero, che torna a guidare le nostre menti e i nostri cuori per i cammini della giustizia, della sapienza crocifissa.
E’ la sua voce che schiude i nostri occhi sulle sue opere, i segni dell’amore di Dio nella nostra vita. E’ la sua voce colma delle sue parole che che ci dona la fede per credere e ottenere la vita che non muore. E’ la sua mano trapassata dai chiodi che ci tiene stretti per l’eternità. Sono stati i nostri peccati a scrivere, a tatuare con il sangue i nostri nomi nelle mani del Signore.
E Lui, con il suo sangue, li ha scritti in Cielo, per l’eternità, ed e’ questa la verità che si fa unica fonte di vera gioia, il pascolo che ci sazia perché ci dona il perdono eterno.
E’ la “conoscenza” di Dio in questo amore sperimentato mille volte, la conoscenza della misericordia, che scende sino al fondo più fondo delle nostre esistenze, e’ questa intimità che ci fa sue pecore, gregge del suo pascolo.
La conoscenza crocifissa, che e’ la stessa sapienza con la quale guardare ogni istante della storia come una nota sullo spartito della sinfonia d’amore che Dio sta eseguendo per tutto il creato. E la nostra vita, il nostro corpo, il nostro cuore, la nostra mente, costituiscono così il nuovo tempio riconsacrato per il culto nuovo, quello della Chiesa, quello del Figlio: la lode di una vita perduta per amore, seguendo il Pastore, insieme al Pastore. Perché nessuno, nel mondo, vada perduto.

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Il Pastore della vita e i mercenari della morte
 Lectio Divina sulle letture per la IV Domenica di Pasqua – Anno C – 17 aprile 2016

di Mons. Francesco Follo*
Premessa.
Nel Vangelo di San Giovanni Cristo parla di se stesso come Pane di vita (cap. 6), Luce del mondo (cap. 8) e nel breve brano di oggi (cap. 10) come buon Pastore.
Per capire quest’immagine chiara nel passato e per gli appartenenti al mondo rurale, ma non così evidente per chi vive oggi in aeree urbane, è utile ricordare che ai tempi della vita terrena di Cristo, al calare della sera, i pastori conducevano i loro greggi in un grande recinto comune per passarvi la notte. Al mattino ogni pastore gridava il suo particolare richiamo e le pecore, riconoscendone la voce, lo seguivano fiduciosamente fuori dal recinto senza affatto sbagliare.
1) Il Pastore vero dà la vita.
La figura del pastore e del gregge a cui Gesù si ispira, si trova già nell’Antico Testamento. Jahvé è il pastore che fa pascolare il suo gregge (Is 40,11) e nel corso della storia lo affida successivamente ai suoi servi Abramo, Mosè, Giosuè, i Giudici e i re di Israele. Questi ultimi però spesso e volentieri non hanno ottemperato al loro compito e allora Ezechiele, in un testo che si leggeva durante la Festa della Dedicazione, pronuncia il famoso oracolo: Guai ai pastori di Israele, che pascolano se stessi! … Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura … Ricondurrò all’ovile la pecora smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata … Susciterò per loro un pastore che le pascerà”(Ez 34, 1, 11, 16, 23).
Ed ecco la realizzazione di questa profezia: secoli dopo, durante la Festa della Dedicazione, Gesù definisce se stesso come il vero Pastore buono, che finalmente si prende cura con amore del gregge di Israele. A differenza del mercenario, cui non importa nulla delle pecore, Lui, il Pastore vero, conosce bene quelle che gli appartengono, se ne prende cura con amore e loro ascoltano la sua voce.
Conoscere e ascoltare sono verbi che indicano un dialogo profondo, una comunione nell’esistenza, non soltanto nelle idee. Dunque, tra Gesù, Pastore, e i suoi discepoli, le pecore che il Padre gli ha dato, c’è una profonda comunione. Gesù è il Pastore perché dà (=offre) la vita per le sue pecore, per dare loro la vita eterna e nessuno può strappargliele.
Nessuno, né angeli né uomini, né vita né morte, né presente né futuro, nulla potrà mai separarci dall’amore di Cristo, ci ripete l’apostolo Paolo (cfr. Rm 8, 38). La forza e la consolazione di questa parola assoluta, “nessuno”, è subito raddoppiata: “le strapperà”. Verbo, questo, che non è al presente, ma al futuro per indicare un’intera storia, lunga quanto il “tempo” di Dio. L’uomo, ogni “umana pecorella” è, per Cristo, una passione eterna.
Per tutte e per ciascuna ha “pagato” con la sua vita e le tiene con il suo amore che la condotto come agnello al macello. Il Buon Pastore è nello stesso tempo l’Agnello. Così leggiamo in Gv 2,36: “Ecco l’agnello di Dio!”; e così ci rivela l’Apocalisse: “L’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita”(Ap 7,17). Gesù svolge la sua vocazione di pastore che guida e custodisce le sue pecore, non dal di fuori, ma dall’interno della condizione umana di debolezza e di prova, simboleggiata dall’agnello: lui stesso l’ha condivisa fino in fondo, fino alla morte di croce. Vivendola con amore, ne ha fatto scaturire una possibilità di vita, e di vita piena ed eterna.
Il fatto che l’Agnello Gesù si identifichi con il Pastore è perché nessuno può guidare alla fonti della vita se non facendosi modello del gregge. Questa Guida, che conduce le pecore a pascoli di vita, è l’Agnello che si è immolato perché le sue pecore che ama singolarmente (di ciascuna conosce il nome e di ciascuna ha cura) esprime la comunione fra Gesù e i suoi discepoli, le cui persone sono coinvolte nella loro integralità: intelligenza, cuore, modo di essere e di agire.
2) Ascoltare e seguire chi ci conosce.
Nel breve brano evangelico di oggi Gesù, Agnello-buon Pastore indica due caratteristiche delle sue pecore: l’ascolto e la sequela. Dunque, se vogliamo essere sale e luce anche in un mondo che cambia, come oggi si è abituati dire, non dobbiamo principalmente affannarci in ricerche e progetti diversi: la voce di Gesù è già risuonata e la direzione del suo cammino è già tracciata. A noi singolarmente e in comunione tra noi è richiesta anzitutto la fedeltà alla sua presenza da portare nel mondo.
Noi pecorelle di Cristo lo ascoltiamo perché solo Lui ha parola di vita eterna, di vita piena, di vita che non muore e umilmente lo seguiamo perché sappiamo che siamo da lui amati. Lui ancora oggi e fino alla fine dei tempi, presenta se stesso come offerta inesauribile di vita: “Io do loro la vita eterna”. Entrare in rapporto con Lui significa gustare la vita nella sua pienezza: pur nella fragilità, nel peccato, nel dolore, nella violenza subita, Lui è offerta di Amore. Lui per primo, nella sua condizione umana ha sperimentato che persino nella morte è presente un Amore che ridona la Vita. Ed è Lui solo il dono di Amore che non abbandona nessuno, il dono di vita che non muore, il dono di Amore più forte di tutto perfino della morte.
Questo Amore per essere conosciuto ci chiede che il nostro cuore si impegni. Non si conosce veramente se non Chi si ama. E’ l’amore che è capace di andare oltre ad ogni evidenza. E’ un conoscere dal di dentro, dall’intimo. E’ un conoscere l’Essere. E’ una conoscenza nell’Amore. Ma il buon Pastore chiede pure di essere ascoltato. Nell’ascoltare è impegnata la mente, l’intelligenza, la virtù dell’obbedienza. Il vero ascolto si fa obbedienza che implica il seguire.
Nel seguire è impegnata la volontà, capace di far muovere i nostri passi dietro Colui che ascoltiamo e amiamo. SeguendoLo i nostri passi non vacillano, Lui ci porterà ai verdi pascoli, anche se dovessimo attraversare una valle oscura… non temeremo perché lui è con noi (cfr. Sal 23).
Questo andare dietro a Cristo buon Pastore ha una dimensione sponsale. Il tema dell’alleanza nuziale arricchisce quello del Pastore buono da seguire vivendo con Lui un’unità profonda.
Nell’Antico Testamento (cfr. Osea 1-3; Is 54 e 62; Ger 2 e 3; Ez 16 e 23; Mal 2, 13-17; Rut,TobiaCantico dei Cantici), per esprimere il rapporto tra Dio e il popolo si trova spesso l’immagine dell’alleanza nuziale.
Anche nel Nuovo Testamento, si parla di questa alleanza nuziale e il tema di Cristo sposo emerge soprattutto nelle parabole del Regno (cfr. Mt 22, 2; 25, 1; Lc 12, 38). Nessuna meraviglia, dunque, che anche Paolo ricorra all’immagine sponsale per illustrare il rapporto tra Cristo e la comunità cristiana: “Provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2Cor11, 2).
Di questa alleanza San Paolo ha messo in evidenza la fedeltà assoluta di Dio: “Anche se noi manchiamo di fedeltà, egli però rimane fedele” (2Tim 2, 13); “Senza pentimenti sono i doni e la chiamata di Dio” (Rm 11, 29; 1,9)
Un modo specifico e speciale di seguire Cristo Pastore e Sposo è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Queste donne testimoniano con il dono totale di sé e con l’accoglienza totale di Cristo che l’amore sponsale tra Cristo e la Chiesa è riconoscibile da ciò che l’Uno compie per l’Altra. Cristo dona tutto se stesso per lei – sua carne -, purificandola e santificandola con il lavacro battesimale e la Parola, amandola come il proprio corpo, da lui nutrito (Eucaristia, banchetto nuziale) e curata (sotto la guida del Buon Pastore).
A questo riguardo sono illuminanti le parole che il Papa emerito ha rivolto a loro in occasione del congresso del 2008. Benedetto XVI, alludendo al tema “Un dono nella Chiesa e per la Chiesa”, disse: “In questa luce desidero confermarvi nella vostra vocazione e invitarvi a crescere di giorno in giorno nella comprensione di un carisma tanto luminoso e fecondo agli occhi della fede, quanto oscuro e inutile a quelli del mondo”. E aggiunse: “La vostra vita sia una particolare testimonianza di carità e segno visibile del Regno futuro (cfr. Rito della consacrazione delle Vergini, 30). Fate in modo che la vostra persona irradi sempre la dignità dell’essere sposa di Cristo, esprima la novità dell’esistenza cristiana e l’attesa serena della vita futura. Così, con la vostra vita retta, voi potrete essere stelle che orientano il cammino del mondo”.
Le Vergini consacrate testimoniano che non ci sono due amori, quello divino e quello umano, ma solo due aspetti dello stesso amore. Dunque, è giusto affermare che amore sponsale e amore verginale sono due volti dell’unico amore di Gesù Cristo.
Queste donne sono spose per appartenere unicamente nel puro ed esclusivo amore nuziale a Cristo-Sposo (castità), per essere guidate da Cristo-buon Pastore (obbedienza) e per fare affidamento solamente in Cristo Signore (povertà).
* Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi