mercoledì 13 aprile 2016

La bellezza e il fango

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di Costanza Miriano
Quando lavoravo al telegiornale ero timidissima e molto impacciata perché allora – il mio lavoro è così, soprattutto per chi è agli inizi – mi veniva chiesto di occuparmi ogni giorno di una notizia diversa, di cui spesso sapevo, all’inizio, abbastanza poco. Con grandi attacchi di mal di pancia poi ovviamente cercavo di elaborare qualcosa di decente, e ammiravo i miei colleghi che si buttavano con coraggio in cose nuove. È un talento indispensabile per i giornalisti televisivi, che per forza di cose hanno tempi stretti e cambi di tema veloci. Un talento che io non ho: se non sono sicurissima di quello che dico non lo so nascondere, ho la certezza che mi compaiano automaticamente degli spinaci fra i denti se vado in giro a parlare di cose che non conosco quasi alla perfezione.
Invidiavo, invece, i grandi vecchi delle redazioni, quelli che seguivano un’inchiesta per anni, o quelli specializzati su un tema, che sull’argomento leggevano ogni singola virgola prodotta sull’orbe terracqueo. Questa premessa fuori tema è per dire che anche se mi piacerebbe talora fare la teologa, tanto mi interessa l’argomento Dio, e tanto mi infiammano certe castronerie che leggo sui giornali, non me la sento. Non ho gli strumenti culturali, dispongo solo del mio sensus fidei e di un catechismo fatto in parrocchia, e so bene di confrontarmi con persone molto più titolate di me. (Improvvisarmi ct di calcio, quello sì, lo faccio sempre quando guardo la Champions con Bernardo, e gli do pareri sempre illuminanti, tipo: “secondo me i celesti devono segnare da quella parte, verso la finestra”, o anche “ma guarda quello con la barba che sederone che ha”).
Posso però parlare di quello che vivo e che vedo vivere, questo sì. Sull’esperienza, sulla carne di ciascuno di noi non è che si possa discutere tanto. Tutto ciò per dire che pur avendo qualche mia idea sui temi della fede di cui si dibatte all’interno, ma anche molto all’esterno della Chiesa ultimamente, preferisco partire da quello che riguarda me, il mio cuore, e quello delle persone che mi raccontano qualche pezzetto della loro vita.
Io vedo chiaramente che c’è in me una inclinazione al male con la quale non posso smettere di combattere. La teoria la so tutta, so quello che devo fare, come e perché, lo so talmente bene che vado in giro a spiegarlo agli altri. Eppure non lo faccio. Non quanto vorrei, potrei, dovrei. So anche che c’è un vuoto, un bisogno, una nostalgia che non riesce a farsi consolare facilmente: anche la ricerca di intimità con il Signore mi rimanda a una disciplina, a una sorta di combattimento spirituale da fare tenendo la trincea, minuto per minuto. Vedo anche che c’è un nemico che attivamente interviene nella mia vita, che mi insidia e mi tenta. Capisco chiaramente quanto sono incapace di amare mio marito come lui desidera essere amato (lo amo a modo mio, ma non basta), addirittura so che non sono brava ad amare i miei figli – che pure sono l’affetto più istintivo e viscerale che ho – come vorrei, come hanno diritto. Non parliamo poi dei miei genitori, dei fratelli, degli amici: è un amore povero, incostante, egoista il mio, così sproporzionatamente più piccolo di come lo vorrei. Lo vedo, lo sperimento ogni giorno che senza lo Spirito Santo nulla è in me “nulla senza colpa”, neppure le “buone” azioni, perché come dice il Vangelo solo Dio è buono. Riscopro ogni giorno l’intuizione che la vita secondo il battesimo è un’altra vita, che solo riesco a desiderare ma mai a compiere. Vedo lo iato tra la bellezza possibile e quella che vivo, una sua ombra “confusa come in uno specchio”, direbbe san Paolo. Vedo, soprattutto, tanta bruttezza in me. Ma proprio tanta. E non ho neppure la consolazione di San Francesco, o di san Giovanni Maria Vianney, a cui la grazia di vedere la propria bruttezza era concessa proprio da Dio (si dice che al santo Curato d’Ars fu concesso di vedere la sua anima nella verità, in una visione, e quasi svenne per quanto era piena di peccato). Ecco, loro vedevano perché erano ai vertici della santità, io sono mediocre anche nel vedere la mia bruttezza: cioè la vedo ma alla fine non è che mi dia tanta pena, mi ci accomodo abbastanza confortevolmente, e mi do da fare per migliorarla solo finché non fa troppo male…
Ecco perché c’è qualcosa che non mi convince nell’ansia che percepisco, tra diversi uomini di fede, di comunicare la buona notizia, il Vangelo, raccontandone solo la bellezza, tacendo della drammaticità della lotta, omettendo tutto ciò che possa anche lontanamente ricordare la croce, il dolore, la bruttezza, la fatica. Non ho gli strumenti necessari a dare un nome a questa cosa: non so se si tratti di una corrente teologica, di una scelta pastorale, oppure di una strategia solo comunicativa (a chi è lontano tu cerchi prima di parlare della bellezza, poi casomai della fatica che tocca fare per vestirsene stabilmente). Non posso neppure dire che si tratti di un errore, perché se guardo ai sacerdoti che compiono queste scelte penso sempre che hanno una sapienza e una conoscenza di molto superiori alla mia, che ho solo, come dicevo, il mio sensus fidei. Sono certa che chi sceglie di mettersi di fronte al mondo usando uno stile che definirei eufemistico, lo faccia perché vuole stare in una posizione amica, vuole conquistare non per piacere ma per entrare nei cuori e, da dentro, condurli a Cristo.
Mi chiedo solo questo: funziona? Serve dire della bellezza a persone che non la sperimentano? E soprattutto, se c’è del bene in tutto, nel mondo, nei nostri cuori, in tutte le nostre vicende, a cosa serve il battesimo? Io posso dire che se qualcuno venisse a dirmi solo quanto è bella la vita e quanto è facile salvarsi io penserei che allora forse sono sbagliata io, perché questa bellezza non mi balza agli occhi con tanta evidenza, e devo scavare nel fango come Bernadette alla ricerca dell’acqua (grazie, don Antonello!). Posso dire che a tante delle donne che incontro, che mi raccontano fatica e dolore e dubbio e scoramento e difficoltà e tradimenti grandi e piccoli, io cerco di dire non che amare è bello e facile, ma che è l’acqua che si trova scavando, se si vuole amare veramente, ma veramente, tutti quelli che ci sono dati.
Io capisco l’ansia di tanti di superare le ostilità col mondo, di far cadere le inimicizie, di aprire e dialogare e fare ponti, ma il problema è che il nemico ce l’ho io, dentro di me, e la vita che mi è data, con la sua croce che ogni giorno viene fornita col pacchetto base, è esattamente l’unica occasione che ho di entrare in un’altra qualità di vita, in un altro livello di amore, quello secondo Cristo, che a volte è persino contro il nostro sentimento. È per questo che sto imparando sempre di più a diffidare di me stessa, e vorrei tanto una buona volta entrare in un cammino di fede e obbedienza, dove cominciare (sarà ora, forse, alle soglie della terza età) ad ascoltare un’altra voce che non sia la mia, della quale diffido sempre di più man mano che la conosco. Questo è quello che vivo, questo è quello che so. E posso dire, semplicemente, che a me chi parla solo di bellezza senza parlare di fango non è molto utile.