mercoledì 25 maggio 2016

Con o senza la tecnologia



Chiesa e comunicazione al tempo di internet. 

(Silvina Pérez) Il segreto del successo e della popolarità di cui Francesco gode oggi sta nel suo particolare modo di comunicare. Usa strumenti infallibili e potenti per attirare gli interlocutori: identificazione, inclusione e trasparenza. È un Papa normale che, come dice egli stesso, «ride, piange, ha amici» e «commette persino peccati». 
Quando Francesco parla e agisce, credenti e non credenti s’identificano con lui: un uomo comune a cui piacciono il calcio, la musica e la pasta, che non giudica ma ha uno sguardo inclusivo. Si tratta di una strategia potente per avvicinarsi alla gente. Inoltre usa un linguaggio semplice, diretto, che arriva al cuore delle persone. I suoi messaggi sono pieni di aneddoti, di esperienze, e si possono applicare alla vita quotidiana. In tal senso Jorge Oesterheld, nel suo libro No basta con un click (Buenos Aires, Ppc, 2016, pagine 120, con prefazione di Antonio Pelayo), del quale pubblichiamo uno stralcio in questa pagina, ci conduce, attraverso un’analisi della situazione mediatica, alla radice del problema che ci interessa: come comunicare in modo credibile ed efficace la persona di Gesù Cristo, la sua Buona Novella? Come evangelizzare in un mondo di trasformazioni tecnologiche in costante evoluzione? E qui il nostro autore ci dà una risposta: «Il Vangelo abita in uomini e donne in carne e ossa, e non in fogli di carta». Noi comunicatori lavoriamo sul filo dell’attualità e questo ha fatto sì che nella Chiesa abbiamo ottenuto un posto «di scarso valore», per dirlo con una certa eleganza. Questa ossessione per l’attualità, che è tanto valorizzata in altri contesti, è poco apprezzata e in molti casi screditata nell’ambiente ecclesiastico. Vediamolo da un altro punto di vista: in un’istituzione con duemila anni di storia e consacrata alle verità eterne, dedicarsi all’“attualità” è come occuparsi di cose poco importanti. È interessante collegare questi pregiudizi sull’“attualità” a quello che Francesco a Rio de Janeiro ha detto sull’“oggi”: «Dio è reale e si manifesta nell’“oggi” (...) L’“oggi” è il più simile all’eternità; ancora di più: l’“oggi” è scintilla di eternità. Nell’“oggi” si gioca la vita eterna». Una frase molto potente per noi che vogliamo rendere presente il Signore nei media, assicura l’autore.
«Dio non si stanca di perdonare. Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua Misericordia». È una delle frasi ricorrenti di Francesco, che caratterizza il suo pontificato. La Chiesa smette di essere una fortezza assediata per diventare “ospedale da campo” per le numerose ferite del mondo. Francesco vuole trasformare la misericordia e il perdono in strumenti della politica e della diplomazia. Vuole affermare la logica del perdono. Un perdono che, a suo giudizio, non dipende da quello che l’altro fa. È un dono asimmetrico, disinteressato, assoluto, che non esige contropartite e va ben al di là della logica del do ut des.
Misericordia e perdono che si plasmano a livello personale nella tenerezza. Tenerezza che, da buon psicologo, predica agli altri, e al tempo stesso, pratica. Perché Bergoglio elimina le distanze, tocca i sentimenti. Non ha paura di baciare, abbracciare e accarezzare. Non ha paura del suo corpo. Al contrario, lo utilizza come strumento per dimostrare amore e tenerezza.


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Chiesa e comunicazione al tempo di internet. Con o senza la tecnologia
di JORGE OESTERHELD
Ci siamo pian piano abituati a un linguaggio nuovo, nel nostro vocabolario sono apparse parole sconosciute e il cui significato abbiamo appreso con qualche difficoltà. Ci siamo pure abituati a un certo numero di termini che non capiamo ma che utilizziamo perché ci servono per compiere alcune azioni con i computer, i telefoni o altri dispositivi. Ascoltiamo anche parole, e talvolta c’imbattiamo in alcuni simboli e sigle, il cui significato ignoriamo completamente e non siamo disposti a fare lo sforzo di assimilare.
Da un po’ di tempo abbiamo imparato che possiamo “scaricare” archivi da internet e che possiamo anche “caricarli” in quello stesso luogo indeterminato. “Scaricare” e “caricare” sono verbi che ci collocano “sotto”, non sappiamo a che cosa, ma “questa cosa” che possiede la nostra informazione, sta “sopra”. Non c’è voluto molto tempo perché questo misterioso luogo ricevesse un nome apparentemente meno enigmatico: cloud, nuvola. I contenuti stanno nella “nuvola” e noi stiamo nelle nuvole. Scarichiamo e carichiamo i nostri dati, i nostri pensieri, persino i nostri soldi e qualche dichiarazione d’amore, senza sapere con chiarezza né dove sta tutto ciò né chi lo legge e lo utilizza. Quella che prima era una conversazione che iniziava e terminava con un abbraccio o un bacio e che trascorreva tra sguardi, silenzi e gesti, ora è un breve messaggio popolato da abbreviazioni e simboli sconosciuti fino a poco tempo fa.
Siamo di fronte a uno sconcertante regresso? Abbiamo disumanizzato le comunicazioni? Se così fosse, perché l’abbiamo fatto? Perché milioni e milioni di persone hanno adottato questo nuovo modo di comunicare in così poco tempo?
Il Papa emerito Benedetto XVI, che non è stato un Papa formato nella “nuvola” di internet e ancor meno una persone che vive “nelle nuvole”, dice che «sebbene sia motivo di meraviglia la velocità con cui le nuove tecnologie si sono evolute (...) la loro popolarità tra gli utenti non dovrebbe sorprenderci, poiché esse rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre. Questo desiderio di comunicazione e amicizia è radicato nella nostra stessa natura di esseri umani e non può essere adeguatamente compreso solo come risposta alle innovazioni tecnologiche» (Messaggio per la XLIII Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, 24 maggio 2009). Vale a dire che la motivazione non sta nel fascino esercitato dai dispositivi ma nel «desiderio di comunicazione e di amicizia» che ha la sua origine nella nostra stessa natura. Tutte le tecnologie che stanno cambiando il pianeta servono solo per incanalare questo bisogno di comunicazione che c’è in ogni essere umano.
Le parole sono importanti e il modo in cui parliamo di qualunque problema incide sulla possibilità di trovare una soluzione. Parlare di “ciberspazio” o di “continente digitale”, o di altre espressioni simili, racchiude il pericolo d’installare nel nostro modo di esprimerci e di pensare l’illusione che stiamo parlando di una realtà in qualche maniera “extraterrestre”. La realtà è che tali dispositivi e noi persone che li usiamo stiamo in questo mondo in cui ci sono fame, guerre, ingiustizie e anche amore, solidarietà, impegno. Quanti, a partire dalla Chiesa, sono presenti e impegnati nella società e vicini a chi soffre, utilizzano le attuali tecnologie e sanno con chiarezza di non stare nelle nuvole.
C’è un tranello nell’espressione “il mondo delle comunicazioni”. Non ci sono diversi mondi e il compito della Chiesa si concretizza nell’unico mondo che esiste. Evangelizzare attraverso le tecnologie della comunicazione significa evangelizzare questo mondo in cui vivono le nostre famiglie e comunità e in cui abitiamo con i nostri corpi. Pertanto il compito del comunicatore, tra le altre cose, non può essere isolato dalla vita di una comunità concreta, nella quale si alimenta e si arricchisce.
La questione non è se le tecnologie ci alienano e allontanano dalla realtà, ma se abbiamo deciso o meno di impegnarci nella realtà, con o senza la tecnologia. Quanti sono disposti a vivere “nelle nuvole” trovano nella tecnologia un buon aiuto per la loro alienazione. Quanti decidono di vivere in questo mondo trovano nella nuvola un aiuto straordinario per il loro compito trasformatore; un ausilio accessibile ed economico per lavorare alla costruzione di una società più giusta; un buono strumento per fare di questo mondo un luogo in cui tutti possano vivere con dignità. Lo stesso accade in altri ambiti. Quando le università diventano “il mondo universitario”, perdono tutta la loro ricchezza e la loro forza trasformatrice della realtà, in quanto quelli che vi lavorano vedono se stessi come “un mondo” e non come parte della realtà che tutti noi mortali viviamo, e la loro stessa esistenza si svuota del suo significato. Lo stesso accade nel “mondo della politica”, nel “mondo sindacale” e in diversi altri mondi.
Quando Papa Francesco ci invita ad andare nelle periferie, ci sta esortando a uscire da questi piccoli mondi che si creano nelle sacrestie, o in altri luoghi simili, per inviarci a fare nostra la tragedia dell’unico mondo che esiste. Anche l’ambito delle comunicazioni ecclesiali può cadere in questo errore quando parla di se stesso come di “un mondo” speciale. Allora sì che stiamo nelle nuvole e l’evangelizzazione sarà solo un’illusione.
L'Osservatore Romano