domenica 26 giugno 2016

Tele che sono storie, le nostre storie, e gesti, i nostri gesti



di ENZO BIANCHI
Zec ha la capacità di narrare attraverso i particolari. Le sue composizioni non sono mai descrittive, le figure emergono da un fondo indistinto di pennellate decise. C’è la scabrosità della materia pittorica a rendere le tele vivide e movimentate. Pochi dettagli bastano a raccontare all’osservatore una storia che dal suo occhio, attraverso la sensibilità personale, diviene un racconto più che mai personale. Da queste tele possiamo riconoscere due elementi fondamentali della narrazione di Zec: mantenere l’attenzione su ciò che è essenziale alla narrazione evitando ogni elemento decorativo inutile, e cogliere l’estrema conoscenza del fare pittorico nelle scelte compositive e nell’uso del colore.
In Crocifissione, sono due semplici dettagli a farsi portatori dell’intera narrazione delle vicende di Gesù: il busto e le gambe. Zec con le sue tele fa un patto non scritto con il nostro sguardo: pochi elementi che bastano a riportarci alla mente la ricostruzione dell’intera figura. Bisogna aver imparato osservando le opere dei grandi maestri per saper raccontare visivamente in questo modo.
I particolari del Cristo si staccano dal fondo in maniera progressiva. Prima un semplice tratto di pennello che evidenzia la sicurezza del disegno, poi a mano a mano si aggiunge il colore che s’increspa sulle pagine del collage. La figura sorge come un’alba. Si fa prima spazio nell’indistinto nuvoloso e scuro del fondo, per poi essere lentamente accarezzata dal sole nascente che ne determina inizialmente la sagoma; e solo quando la luce sarà piena, avremo modo di distinguerne i particolari. Questo accade osservando le gambe del Cristo, procedendo dalle tenebre in basso per arrivare al drappo in alto della composizione.
In Mani legate II, la figura sembra addirittura imbrigliata nell’intelaiatura della tela che Zec sottolinea con tratti vigorosi, lasciando che il corpo resti trasparente. Il movimento repentino del braccio risulta visibile come in una foto a lunga esposizione, con forti tratti di colore che segnano la tela e lasciano sottintendere la presenza del braccio. Al vigore di quel movimento Zec pone in parallelo davanti al nostro sguardo l’azione opposta della tensione del laccio che tiene la mano ferma e tesa, così come il braccio con la muscolatura contratta in questo caso non intuito dall’occhio ma descritto dalla pittura. Non vediamo tutto il corpo, ma la sua posizione ben calcolata ci permette di ricostruirne tutta la tensione.
Dando i giusti indizi all’occhio, Zec anche in questo caso lascia a noi la facoltà di generare il quadro nella nostra esperienza. Sono tele che sono già parte dell’osservatore. Nei gesti, nelle tensioni, nei particolari, ritroviamo stralci della nostra storia, come se queste pennellate ci appartenessero, anzi come se ci fossero sempre appartenute in qualche ricordo.
In Fornelli, un semplice elemento come una cucina a legna che occupa tutta la composizione basta a riportare all’occhio dell’osservatore l’immagine di quando un elemento simile ha incrociato la nostra vista. La pittura non è tersa, non cerca di presentare gli oggetti dal vero come in una riproduzione fotografica, ma tutto si sfuma nel ricordo, mai nitido eppure presente. Alla luce radente questo quadro stupisce non solo per la materia pittorica che crea le forme, ma anche per il gioco di pieghe e rientranze dovute all’applicazione del colore sulla carta a sua volta incollata sulla tela. I singoli fogli frammentano gli elementi del quadro come se li osservassimo in tempi differenti. Osservando alcuni particolari, Zec sembra ricostruire la cucina utilizzando ritagli di fotografie diverse fatte in giornate con luci sempre nuove. L’immagine è lì davanti al nostro occhio, ma il tempo che ci racconta è più lungo del nostro sguardo, scava più in profondità nei nostri ricordi.
Il senso del tempo e della storia ci viene narrato in opere come Mani per il pane. Un’immagine che può appartenere a ogni guerra, a ogni carestia del passato come del presente in cui molte braccia si tendono a cercare sussistenza. Queste braccia emergono da fogli di giornale, da elementi non pittorici, ma in un certo senso storici. Nella grande storia che leggiamo sui libri ci sono le tante piccole storie di ogni braccio teso, come la storia di ognuno di noi. In questa tela non sono solo le pagine di giornale a richiamare la realtà di un fatto, ma anche un ritaglio come applicato alla tela che nella composizione richiama il quadro. Zec sta interpretando il ritaglio amplificandolo attraverso la pittura, rendendolo più presente al nostro vissuto grazie ai tratti che in basso prendono il posto del colore culminando in una macchia accesa di rosso, presagio di sangue. Safet non illustra, ma in silenzio rende invocazioni gli abbracci, le mani tese, le mani abbandonate. Raramente si è feriti da altre opere contemporanee come dalle sue: ferite che permettono all’altro di penetrare fino al nostro cuore e ci rendono capaci di com-passione.
Anche in Piccolo pane tondo, la tovaglia bianca e il pane affiorano dai ritagli di giornale. Un gesto semplice come la condivisione del pane si staglia sulla storia raccontata dai giornali. Il ritaglio in alto non ci lascia dubbi sulla chiave con la quale leggere questo pane: Cristo. Il pane della condivisione dei cristiani è all’interno della storia e allo stesso tempo al di sopra di essa, al culmine di ogni singola esistenza. “Il pane” di Safet commuove profondamente, perché dice la “presenza” che il pane richiede per essere spezzato da quelli che si chiamano compagni (da “cum-panis”).
In lavori come Mani (Braco), Mani sul volto (Luigi) e Luigi, le figure si delineano sui ritagli di giornale incrociando i nostri occhi con gesti semplici ed eloquenti che interpellano la nostra immaginazione, ci chiedono di soffermarci sui nostri gesti, su tutte quelle volte che quel gesto di dolore ci è appartenuto o è appartenuto a chi ci era accanto.
È la stessa partecipazione che Zec riesce a comunicarci con gli abbracci. Difficilmentesono i volti a comunicarci questo senso di appartenenza tra i due corpi, sono soprattutto i gesti a farlo. La mancanza di un volto ci dice che quell’abbraccio è ogni volto, è il nostro volto. Il corpo si abbandona a chi lo sorregge. Le pennellate ce ne fanno sentire non solo il peso, ma il calore. Si riesce difficilmente a restare indifferenti di fronte a questi soggetti.
I corpi trasportati sulle carriole ci travolgono nella loro composizione azzardata, totalmente rivolta al nostro sguardo. Attraverso quei piedi protesi verso di noi Zec ci richiama alla partecipazione: non siamo osservatori di qualcosa di distante, la pittura è totalmente rivolta verso di noi, non possiamo sfuggirle, non dobbiamo sfuggirle.
Sono tele intrise di storie, le nostre storie; di gesti, i nostri gesti; del nostro sangue e delle nostre lacrime.
Pubblicato su: La Repubblica

Ieri davanti al Miur, per difendere i nostri figli.

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Sul gender nelle scuole non abbasseremo la guardia


di Costanza Miriano
Ieri davanti al Miur, per difendere i nostri figli.
Per me è stato facile: io e le piccole siamo state fuori di casa un’ora in tutto (c’era un figlio sotto esame da far agitare un po’, per essere certa che la sua ansia non diminuisse troppo). È vero, faceva caldo, ma ho risolto con un patteggiamento: dieci minuti di sole contro tre palline di variegato al cioccolato (il presidio davanti al Miur prevedeva bimbi e zainetti). Ma c’è gente che è venuta da Trieste, Verona, Treviso, Brescia, e chissà quanti altri da dove.  
Bambini lattanti, bambini sui passeggini, all’ombra su una panchina, o con qualche grande che teneva loro un giornale in testa. Sfiniti dal caldo, piccoli e grandi (non come noi privilegiati che abitiamo a due chilometri). C’erano nonni, c’erano maestre. Ancora una volta il sacrificio di gente che a spese sue ha attraversato l’Italia per dire che i genitori, anche quelli che non vogliono o non possono permettersi scuole private, hanno il diritto di sapere cosa viene insegnato ai loro figli, e hanno il dovere di intervenire su tutto ciò che è legato all’affettività e alla sessualità. Se noi cattolici imponessimo a tutti che a insegnare educazione sessuale nelle scuole andassero i sacerdoti, che rivoluzione si scatenerebbe? Perché allora ai nostri figli devono essere imposti attivisti lgbt – come avviene sempre più spesso nelle scuole – senza che noi genitori siamo informati di nulla, programmi, temi, contenuti? Senza che ci venga chiesto di firmare il consenso informato come previsto dalla legge sulla buona scuola, di cui le Linee Guida rischiano di dimenticarsi? Perché la preside che si è opposta è stata messa in mora? Perché si nega l’evidenza del fatto che su quei temi sensibili non c’è un’informazione neutra, ma fortemente influenzata dal proprio orientamento? Perché travestire di oggettività e scientificità le teorie lgbt, mentre l’antropologia cattolica sarebbe infondata e oscurantista? Perché, soprattutto, la necessità di plasmare le teste dei nostri bambini, a scuola?
È evidente, il perché: il lavoro che si fa a scuola è molto invasivo e molto fecondo, in grado di spostare le masse. Noi non vogliamo che qualcuno si approfitti del terreno fertile che sono i nostri figli senza esserne informati (come prevede la nota prot. AOODGSIP n.4321 del 6/07/2015): abbiamo il diritto e il dovere di dire la nostra sui nostri figli, e di scegliere noi come educarli. Chiediamo che si rispetti la circolare ministeriale AOODPIT n.1972 del 15/9/2015 che dice “che tra i diritti e i doveri e tra le conoscenze da trasmettere non rientrano in nessun modo ideologie gender”. Grazie a chi ha attraversato l’Italia, grazie a chi avrebbe voluto ma non ha potuto, grazie a chi ha organizzato, in prima linea Giusi D’Amico, Massimo Gandolfini, Filippo Savarese. Grazie a chi ci sarà la prossima volta, perché noi non abbasseremo la guardia.

Guida ai tempi delle rovine



di Luigino Bruni
L’incontro con i profeti è una tappa fondamentale nel cammino spirituale e morale della persona. Molti vivono e muoiono senza raggiungere questo incontro, come molti uomini e donne terminano la propria esistenza senza aver fatto una esperienza di bellezza di fronte ad un’opera d’arte, senza aver letto una poesia, senza aver sentito il respiro dell’universo in una notte stellata, senza essersi mai innamorato, senza aver recitato una preghiera, senza aver mai lavorato. Si può vivere anche senza tutto questo, anche senza Leopardi, Fernando Pessoa e Shakespeare, ma la vita allarga i suoi orizzonti e attinge a falde più profonde quando riusciamo a incontrare questi e i tanti altri doni spirituali disseminati nel mondo, che sono lì anche per noi. Tutto ciò è solo grazia, tutta gratuità, non c’è nessun merito. Per questa ragione, la prima e più vera esperienza che facciamo quando riceviamo questi grandi doni, è sentire nella carne il dolore per i tanti, troppi, uomini e donne che restano esclusi da questa gratuità, e senza alcuna colpa. L’esistenza umana è anche, forse soprattutto, un processo di scoperta della gratuità che ci circonda, spesso ricoperta da involucri di dolore, una caccia ai tesori che terminerà solo con la morte, neanche un solo attimo prima (e uno dei doni più grandi sarà scoprire di avere imparato a morire, e non lo sapevamo).


Molti, quasi tutti, vivono senza incontrare Isaia. Anche il suo libro è un puro, grandissimo dono, da millenni custodito nel cuore della Bibbia, in compagnia degli altri profeti. Basterebbe anche un solo capitolo di questo libro per non smettere mai di ringraziare gli antichi scribi e cantori per aver salvato i testi biblici da assedi, persecuzioni, incendi, deportazioni, stermini. Solo l’esperienza del valore assoluto della parola poteva proteggere dal fuoco e dalla spada quelle fragilissime parole scritte. Avendo soltanto la parola, l’hanno potuta salvare. L’umanesimo biblico non si svela senza i profeti. Ci resta precluso senza Isaia, che tra i profeti svetta nella sua immensità. Isaia è una cima massima del genio umano. Le sue pagine più belle non dovrebbero mancare da nessuna antologia di letteratura per la scuola, dove resta invece totalmente escluso per una radicale mancanza di laicità vera, in una cultura troppo di pianura per poter vedere e anelare le vette. Senza Isaia non capiamo Cristo, neanche i personaggi del suo presepe (Isaia 1,3). I Vangeli sono stati scritti sul retro del rotolo di Isaia, e se lo dimentichiamo li trasformiamo in una raccolta di testi morali o una collezione di miracoli.

La profezia biblica è un "bene comune" dell’umanità di tutti i tempi. Tutti i profeti sono potatura, concime, sarchiatura, mietitura, raccolto, vendemmia, dello spirito e quindi della vita, che è vita umana perché spirituale. Tutti lo sono, ma prima e sopra tutti lo è Isaia. La sua meditazione è un esercizio prezioso per trovare o ritrovare il senso e la verità dell’anima, della salvezza, per cominciare o ricominciare a sperare dopo le distruzioni, le rovine, i lutti, le speranze vane e le false consolazioni che accompagnano sempre questi eventi. Accanto alla grandezza, bellezza e poesia di Isaia resistono in pochi. Giobbe è certamente tra questi, anche perché come Isaia ci aiuta molto a comprendere che cosa Dio non è e non deve diventare se non vogliamo trasformarlo in un idolo nel quale credere o non credere (come ci sono molti credenti di idoli, ci sono anche molti non-credenti di idoli).
Il libro di Isaia è più grande del testo scritto da Isaia «figlio di Amoz» (Isaia 1,1). Il testo che è giunto fino a noi è il frutto di molte mani. Tre sono ormai note come quelle del primo (capitoli 1-39), del secondo (40-55) e del terzo Isaia (56-66). Ma per circa due secoli (tra l’VIII e il VI secolo avanti Cristo) una tradizione profetica ha ripreso il primo testo, lo ha arricchito facendolo dialogare con le vicende delle varie stagioni della storia di Israele e dei popoli vicini, e così lo ha reso sempre più poetico, geniale, immenso. Come è accaduto per molti grandi testi del genio umano, al termine di questo lungo processo di creazione ci siamo ritrovati con un’opera collettiva eccedente il genio del suo primo autore. L’Isaia dopo Isaia ama e arricchisce il Libro di Isaia.


È scrivendo parole più grandi degli autori dei libri che lo spirito ha ispirato la parola biblica, e tante altre parole umane. Non è necessaria l’azione di molte mani per rendere un testo grande, spesso ne basta una buona; ma per i testi biblici l’azione collettiva accresce la forza della parola, la fa diventare comunità, edifica l’ekklesia. Questa azione corale non si è mai arrestata, perché quei testi continuano ad arricchirsi tutte le volte che qualcuno tenta un nuovo commento, osa scrivere una nota, usa quelle parole per imparare a pregare. È stata questa libertà spirituale di emendare, di aggiornare, di "toccare" i testi, anche quelli immensi di Isaia, che ha fatto sì che in Israele la parola non sia diventata idolo - e poteva diventarlo, dato il suo valore assoluto.


Il libro inizia con lsaia che chiama il cielo e la terra (1,2) come testimoni per l’accusa di corruzione che YHWH, tramite la stessa parola di Isaia, inizia a rivolgere al suo popolo: «Che me ne faccio di tanti sacrifici? - dice il Signore. Sono stufo degli olocausti di montoni e del grasso di grassi vitelli. … Smettete di presentare offerte inutili. Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue» (1, 11-15). Come Qohelet, Isaia ci dice semplicemente che i sacrifici sono inutili e sciocchi. E sono inutili e sbagliati non perché vengono offerti senza essere giusti, ma perché sono sbagliati e basta.


E lo dice all’inizio del suo canto, perché sa che non potrà annunciare la parola se prima non libera il campo dall’idea errata di Dio, affamato di sacrifici, che agisce dentro la logica contabile del dare e dell’avere. Ogni riforma religiosa inizia negando il dio economico, il dio commerciante con gli uomini, cacciando il mercato dal tempio.


I profeti non sono equilibrati, né tantomeno educati e prudenti. Diversamente da noi, loro non terminano le loro critiche e le loro accuse con i "comunque" e gli "anche se …", al fine di smorzare con il buon senso la forza della loro denuncia. Sono sempre di parte, esagerati, eccessivi. Qui Isaia non dice, come forse vorremmo, "comunque i sacrifici vanno fatti, al tempio occorre andare". No, Isaia non cede al buon senso religioso del suo tempo/tempio, e resiste nella sua denuncia di parte. La prima fatica della profezia è non concedere nulla al buon senso e alla prudenza: se i profeti smorzano la forza delle loro denunce anto-censurandosi per non apparire eccessivi o imprudenti, o per non essere troppo sconvenienti nei confronti delle istituzioni oggetto delle loro critiche, rinnegano la loro vocazione. L’unico modo che i profeti hanno di amare il loro popolo, incluse le istituzioni e i capi, è non attenuare la forza radicale ed eccessiva della parola. Il buon senso, la prudenza e la moderazione sono le virtù delle istituzioni, non quelle dei profeti. Ma senza l’eccesso e l’imprudenza dei profeti, le istituzioni diventano tristi uffici di burocrati, il potere solo sopruso, i poveri non si vedono più e restano abbandonati nelle periferie. I profeti con la loro voce ci fanno vedere ciò che i potenti non riescono a vedere o che non vogliono vedere. Tutti i profeti. Soprattutto Isaia.
Per sperare di poter incontrare veramente Isaia - i grandi incontri della vita non possono essere programmati: possiamo solo sperarli e attenderli -, è necessario iniziare la sua lettura come fossimo nati oggi. Dobbiamo far di tutto per cercare di liberarci dalle ideologie religiose e anti-religiose con le quali siamo cresciuti e con le quali abbiamo costruito il senso del nostro stare al mondo. Isaia è un dono per tutti, ma lo è soprattutto per chi non ha mai creduto e, soprattutto, per chi non crede più pur desiderando ancora di credere. Il suo è un canto aurorale, una brezza dell’alba, una stella mattutina. È una introduzione alla vita nel tempo delle rovine, di ogni rovina e in ogni tempo.


Nel corso dei secoli molti hanno cominciato o ricominciato a credere, a sperare, ad amare insieme ad Isaia. Dovremmo avvicinarlo ignoranti delle parole della nostra religione e della nostra non-religione. Iniziare a leggerlo come se non avessimo mai ascoltato la parola "Dio". Tornare "nel principio", aprire gli occhi, e insieme all’Adam sentire risuonare per la prima volta nel mondo la parola: "Elohim". Sperimentare la forza originaria e assoluta di quella parola, pronunciata per noi da uno che l’ha "vista" (Isaia 2,1). I profetivedono la parola che poi dicono perché anche noi vediamo.


È questa la possibilità per poter vedere sulla terra un Dio che non si può vedere, perché se lo vediamo è semplicemente un idolo. I sensi della parola sono le orecchie e gli occhi. La parola che i profeti ci annunciano non èvanitas, non è soffio, non è fiato, non è vento né nebbia: è carne.
Isaia è allora il profeta del nostro tempo. Abbiamo dimenticato le prime parole, lo sappiamo. Ma questa immensa povertà può diventare la nostra ricchezza: possiamo fare l’esperienza di ascoltarle per la prima volta. E poi reimparare ad ascoltare la vita.
Avvenire

Sobrietà che libera



Approvato dal concilio ortodosso il testo sul digiuno. 

(da Chania Hyacinthe Destivelle) Il Santo e grande concilio della Chiesa ortodossa ha dedicato una parte dei suoi dibattiti del 22 e 23 giugno alla questione del digiuno, inclusa nell’agenda fin dall’inizio della sua preparazione. Nel 1961 si pensava di adattare le regole del digiuno, ispirate in gran parte dall’ideale monastico, alle condizioni di vita dei fedeli. Con il titolo «Adattamento del regolamento del digiuno alle esigenze della nostra epoca», le prime bozze dei documenti preconciliari sul tema proponevano regole generali abbreviando o rendendo meno rigidi alcuni digiuni.
La terza conferenza panortodossa preconciliare del 1986 pubblicò per la prima volta il documento esaminato in questi ultimi giorni dal concilio, con un titolo nuovo: L’importanza del digiuno e la sua osservanza oggi. Il cambiamento del titolo era significativo: l’accento non veniva più posto sull’adattamento delle regole — il che resta comunque un elemento importante del documento attuale — ma sull’importanza del digiuno nella vita spirituale del cristiano. L’adattamento non dovrebbe dunque avvenire attraverso una modifica delle regole, ma mediante l’applicazione del principio dell’oikonomìa, vale a dire rendendo meno rigida l’applicazione della regola canonica (akribìa) per il bene spirituale dei credenti, caso per caso. Nel gennaio 2016, la sinassi dei primati ha inserito questo tema al quarto posto nell’ordine del giorno del concilio.
Il digiuno «è una istituzione antichissima [...] stabilita sin dal paradiso». È con questa citazione di san Basilio che inizia il documento, il quale dichiara che il digiuno è «l’espressione migliore dell’ideale ascetico dell’ortodossia», e ricorda che la Chiesa ortodossa «ha sempre proclamato il grande valore del digiuno per la vita spirituale dell’uomo e la sua salvezza». Basandosi sulle fonti bibliche e apostoliche del digiuno, e soprattutto sul suo «significato cristologico», il documento afferma che «tutti i fedeli sono chiamati a conformarvisi, ognuno secondo le proprie forze e le proprie possibilità, senza però avere la libertà di ignorare questa istituzione sacra» al fine di «raggiungere la theòsis durante la loro vita». In effetti, «è impossibile accedere alla vita spirituale ortodossa senza la lotta spirituale del digiuno».
Il digiuno, prosegue il testo, è legato alla preghiera, al pentimento e alla beneficenza, «soprattutto nella nostra epoca in cui la distribuzione ineguale e ingiusta dei beni giunge a privare interi popoli del loro pane quotidiano». Ma «digiunare non significa astenersi semplicemente da alcuni alimenti precisi»: di fatto, «l’astinenza da alcuni alimenti e la frugalità […] costituiscono gli elementi visibili di quella lotta spirituale che è il digiuno».
Il testo ricorda i digiuni prescritti dalla Chiesa ortodossa. Si tratta di quattro periodi dell’anno liturgico che precedono le festività di Pasqua (Grande Quaresima), dei santi apostoli Pietro e Paolo, della Dormizione, di Natale, ma anche i digiuni giornalieri dell’Esaltazione della Santa Croce, della vigilia dell’Epifania e della Decollazione di san Giovanni il Precursore, e i digiuni infrasettimanali del mercoledì e del venerdì. Infine il documento ricorda l’esigenza del digiuno eucaristico (prima della mezzanotte), come pure i benefici spirituali del digiuno «in segno di pentimento, per la realizzazione di un voto spirituale, per il successo di un santo intento, in un periodo di tentazione, per accompagnare una supplica a Dio, prima del battesimo (quello degli adulti), prima dell’ordinazione, in caso di penitenza, durante i santi pellegrinaggi e in altri casi analoghi».
Tuttavia, precisa il testo, «con clemenza pastorale» la Chiesa ortodossa applica anche «il principio ecclesiastico di economia». In effetti, «oggi è un dato di fatto che molti fedeli, sia per negligenza sia a causa delle condizioni di vita, quali che siano, non rispettano tutte le prescrizioni che riguardano il digiuno». Questi casi, «siano essi generali o individuali», devono essere trattati dalla Chiesa «con sollecitudine pastorale».
La Chiesa «lascia dunque alle Chiese ortodosse locali la cura di fissare la misura di economia misericordiosa e di indulgenza da applicare al fine di alleggerire il “peso” dei digiuni sacri per quanti hanno difficoltà a rispettare tutto ciò che questi prescrivono, sia per motivi personali (malattia, servizio militare, condizioni di lavoro, e così via), sia per motivi generali (condizioni climatiche, difficoltà di trovare alcuni alimenti magri)».
Come si può vedere, il documento non apporta alcun cambiamento alle regole ortodosse riguardanti il digiuno: al contrario, le conferma e le promuove. Quanto alla possibilità di renderle meno rigide, dà prova di realismo: piuttosto che fissare regole generali, come era stato previsto, lascia a ogni Chiesa locale la cura di fissare, mediante l’applicazione del principio di economia, eventuali adattamenti in funzione del contesto.
Dalla sua pubblicazione nel 1986 il testo in pratica non è stato modificato e, di tutti i testi preconciliari, è l’unico a non essere stato contestato in questi ultimi mesi dall’una o dall’altra Chiesa autocefala. Al momento della sua prima pubblicazione, il teologo ortodosso Olivier Clément sottolineava la necessità, per parlare di digiuno, «di utilizzare il linguaggio contemporaneo, particolarmente suggestivo, del desiderio e del bisogno: limitare i bisogni per liberare il desiderio, che è desiderio di Dio». Proseguiva dicendo: «In una civiltà circondata dal nulla e dove molti cercano le vie del silenzio, della pace delle profondità, di una consapevolezza del corpo, parlare di ascesi permetterebbe di portare lontano la testimonianza dell’ortodossia, attualizzando l’immensa esperienza spirituale di cui essa dispone».
Il documento del Santo e grande concilio sul digiuno è una profonda testimonianza della tradizione ascetica ortodossa e un incoraggiamento per tutti i cristiani. Tale testimonianza è particolarmente necessaria in un’epoca segnata al tempo stesso da una cultura consumistica e dalla ricerca di uno stile di vita più moderato e più frugale. Allargando la prospettiva al rapporto del cristiano con il suo corpo e con la creazione, si è tentati di fare un parallelismo con l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, che in essa lancia un appello alla sobrietà: «La sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante. Non è meno vita, non è bassa intensità, ma tutto il contrario» (n. 223).
Tale parallelismo è ancor più giustificato in quanto Papa Francesco, all’inizio della sua enciclica, cita il patriarca ecumenico Bartolomeo: «[Bartolomeo] ci ha proposto di passare dal consumo al sacrificio, dall’avidità alla generosità, dallo spreco alla capacità di condividere, in un’ascesi che “significa imparare a dare, e non semplicemente a rinunciare. È un modo di amare, di passare gradualmente da ciò che io voglio a ciò di cui ha bisogno il mondo di Dio”» (n. 9).
L'Osservatore Romano

Incontro Ecumenico e Preghiera per la Pace, nella Piazza della Repubblica di Yerevan. Discorso del Santo Padre



Incontro Ecumenico e Preghiera per la Pace, nella Piazza della Repubblica di Yerevan. Discorso del Santo Padre. 
"L’unità non è infatti un vantaggio strategico da ricercare per mutuo interesse, ma quello che Gesù ci chiede e che sta a noi adempiere con la buona volontà e con tutte le forze, per realizzare la nostra missione: donare al mondo, con coerenza, il Vangelo" 

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-"Voglio ribadire che le vostre sofferenze ci appartengono: «sono le sofferenze delle membra del Corpo mistico di Cristo» (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica in occasione del 1700° anniversario del Battesimo del Popolo armeno: Insegnamenti XXIV, 1 [2001], 275); ricordarle non è solo opportuno, è doveroso: siano un monito in ogni tempo, perché il mondo non ricada mai più nella spirale di simili orrori!"
-"Cari giovani, questo futuro vi appartiene: facendo tesoro della grande saggezza dei vostri anziani, ambite a diventare costruttori di pace: non notai dello status quo, ma promotori attivi di una cultura dell’incontro e della riconciliazione"

 Alle ore 18 di ieri, nella Piazza della Repubblica di Yerevan, ha luogo l’Incontro Ecumenico e la Preghiera per la Pace. È presente il Presidente della Repubblica. Nel corso della celebrazione in armeno e in italiano, dopo la recita del “Padre Nostro” (ognuno nella propria lingua) e le letture, Sua Santità Karekin II pronuncia un discorso a cui fa seguito quello del Santo Padre Francesco. Pubblichiamo di seguito il discorso del Santo Padre:

Discorso del Santo Padre
Venerato e carissimo Fratello, Supremo Patriarca e Catholicos di Tutti gli Armeni, Signor Presidente, cari fratelli e sorelle,
la benedizione e la pace di Dio siano con voi!
Ho tanto desiderato visitare questa terra amata, il vostro Paese che per primo abbracciò la fede cristiana. È una grazia per me trovarmi su queste alture, dove, sotto lo sguardo del monte Ararat, anche il silenzio sembra parlarci; dove i khatchkar – le croci di pietra – raccontano una storia unica, intrisa di fede rocciosa e di sofferenza immane, una storia ricca di magnifici testimoni del Vangelo, di cui voi siete gli eredi. Sono venuto pellegrino da Roma per incontrarvi e per esprimervi un sentimento che sale dalle profondità del cuore: è l’affetto del vostro fratello, è l’abbraccio fraterno della Chiesa Cattolica intera, che vi vuole bene e vi è vicina.

Negli anni scorsi le visite e gli incontri tra le nostre Chiese, sempre tanto cordiali e spesso memorabili, si sono, grazie a Dio, intensificati; la Provvidenza vuole che, proprio nel giorno in cui qui si ricordano i santi Apostoli di Cristo, siamo nuovamente insieme per rinforzare la comunione apostolica fra di noi. Sono molto grato a Dio per la «reale ed intima unità» fra le nostre Chiese (cfr Giovanni Paolo II, Celebrazione ecumenica, Yerevan, 26 settembre 2001: Insegnamenti XXIV, 2 [2001], 466) e vi ringrazio per la vostra fedeltà al Vangelo, spesso eroica, che è un dono inestimabile per tutti i cristiani. Il nostro ritrovarci non è uno scambio di idee, è uno scambio di doni (cfr Id., Lett. enc. Ut unum sint, 28): raccogliamo quello che lo Spirito ha seminato in noi, come un dono per ciascuno (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 246). Condividiamo con grande gioia i tanti passi di un cammino comune già molto avanzato, e guardiamo davvero con fiducia al giorno in cui, con l’aiuto di Dio, saremo uniti presso l’altare del sacrificio di Cristo, nella pienezza della comunione eucaristica. Verso quella meta tanto desiderata «siamo pellegrini, e peregriniamo insieme […] affidando il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze» (ibid., 244).
In questo tragitto ci precedono e accompagnano molti testimoni, in particolare i tanti martiri che hanno sigillato col sangue la comune fede in Cristo: sono le nostre stelle in cielo, che risplendono su di noi e indicano il cammino che ci resta da percorrere in terra, verso la comunione piena. Tra i grandi Padri, vorrei riferirmi al santo Catholicos Nerses Shnorhali. Egli nutriva un amore straordinario nei confronti del suo popolo e delle sue tradizioni, ed era al contempo proteso verso le altre Chiese, instancabile nella ricerca dell’unità, desideroso di attuare la volontà di Cristo: che i credenti «siano una sola cosa» (Gv 17,21). L’unità non è infatti un vantaggio strategico da ricercare per mutuo interesse, ma quello che Gesù ci chiede e che sta a noi adempiere con la buona volontà e con tutte le forze, per realizzare la nostra missione: donare al mondo, con coerenza, il Vangelo.
Per realizzare la necessaria unità non basta, secondo san Nerses, la buona volontà di qualcuno nella Chiesa: è indispensabile la preghiera di tutti. È bello essere qui radunati per pregare gli uni per gli altri, gli uni con gli altri. Ed è anzitutto il dono della preghiera che io sono venuto stasera a domandarvi. Da parte mia, vi assicuro che, nell’offrire il Pane e il Calice all’altare, non manco di presentare al Signore la Chiesa di Armenia e il vostro caro popolo.
San Nerses avvertiva anche il bisogno di accrescere l’amore reciproco, perché solo la carità è in grado di sanare la memoria e guarire le ferite del passato: solo l’amore cancella i pregiudizi e permette di riconoscere che l’apertura al fratello purifica e migliora le proprie convinzioni. Per quel santo Catholicos, nel cammino verso l’unità è essenziale imitare lo stile dell’amore di Cristo, che «da ricco che era» (2 Cor 8,9), «umiliò sé stesso» (Fil 2,8). Sul suo esempio, siamo chiamati ad avere il coraggio di lasciare i convincimenti rigidi e gli interessi propri, in nome dell’amore che si abbassa e si dona, in nome dell’amore umile: esso è l’olio benedetto della vita cristiana, l’unguento spirituale prezioso che risana, fortifica e santifica. «Alle mancanze suppliamo con carità unanime», scriveva san Nerses (Lettere del signore Nerses Shnorhali, Catholicos degli Armeni, Venezia 1873, 316), e persino – faceva intendere – con una particolare dolcezza d’amore, che ammorbidisca la durezza dei cuori dei cristiani, anch’essi non di rado ripiegati su sé stessi e sui propri tornaconti. Non i calcoli e i vantaggi, ma l’amore umile e generoso attira la misericordia del Padre, la benedizione di Cristo e l’abbondanza dello Spirito Santo. Pregando e «amandoci intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri» (cfr 1 Pt 1,22), con umiltà e apertura d’animo disponiamoci a ricevere il dono divino dell’unità. Proseguiamo il nostro cammino con determinazione, anzi corriamo verso la piena comunione tra noi!
«Vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Abbiamo ascoltato queste parole del Vangelo, che ci dispongono a implorare da Dio quella pace che il mondo tanto fatica a trovare. Quanto sono grandi oggi gli ostacoli sulla via della pace, e quanto tragiche le conseguenze delle guerre! Penso alle popolazioni costrette ad abbandonare tutto, in particolare in Medio Oriente, dove tanti nostri fratelli e sorelle soffrono violenza e persecuzione, a causa dell’odio e di conflitti sempre fomentati dalla piaga della proliferazione e del commercio di armi, dalla tentazione di ricorrere alla forza e dalla mancanza di rispetto per la persona umana, specialmente per i deboli, per i poveri e per coloro che chiedono solo una vita dignitosa.
Non riesco a non pensare alle prove terribili che il vostro popolo ha sperimentato: un secolo è appena passato dal “Grande Male” che si è abbattuto sopra di voi. Questo «immane e folle sterminio» (Saluto all’inizio della Santa Messa per i fedeli di rito armeno, 12 aprile 2015), questo tragico mistero di iniquità che il vostro popolo ha provato nella sua carne, rimane impresso nella memoria e brucia nel cuore. Voglio ribadire che le vostre sofferenze ci appartengono: «sono le sofferenze delle membra del Corpo mistico di Cristo» (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica in occasione del 1700° anniversario del Battesimo del Popolo armeno: Insegnamenti XXIV, 1 [2001], 275); ricordarle non è solo opportuno, è doveroso: siano un monito in ogni tempo, perché il mondo non ricada mai più nella spirale di simili orrori!
Desidero, al tempo stesso, ricordare con ammirazione come la fede cristiana, «anche nei momenti più tragici della storia armena, è stata la molla propulsiva che ha segnato l’inizio della rinascita del popolo provato» (ibid., 276). Essa è la vostra vera forza, che permette di aprirsi alla via misteriosa e salvifica della Pasqua: le ferite rimaste aperte e causate dall’odio feroce e insensato, possono in qualche modo conformarsi a quelle di Cristo risorto, a quelle ferite che gli furono inferte e che porta ancora impresse nella sua carne. Egli le mostrò gloriose ai discepoli la sera di Pasqua (cfr Gv 20,20): quelle terribili piaghe di dolore patite sulla croce, trasfigurate dall’amore, sono divenute sorgenti di perdono e di pace. Così, anche il dolore più grande, trasformato dalla potenza salvifica della Croce, di cui gli Armeni sono araldi e testimoni, può diventare un seme di pace per il futuro.
La memoria, attraversata dall’amore, diventa infatti capace di incamminarsi per sentieri nuovi e sorprendenti, dove le trame di odio si volgono in progetti di riconciliazione, dove si può sperare in un avvenire migliore per tutti, dove sono «beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). Farà bene a tutti impegnarsi per porre le basi di un futuro che non si lasci assorbire dalla forza ingannatrice della vendetta; un futuro, dove non ci si stanchi mai di creare le condizioni per la pace: un lavoro dignitoso per tutti, la cura dei più bisognosi e la lotta senza tregua alla corruzione, che va estirpata.
Cari giovani, questo futuro vi appartiene: facendo tesoro della grande saggezza dei vostri anziani, ambite a diventare costruttori di pace: non notai dello status quo, ma promotori attivi di una cultura dell’incontro e della riconciliazione. Dio benedica il vostro avvenire e «conceda che si riprenda il cammino di riconciliazione tra il popolo armeno e quello turco, e la pace sorga anche nel Nagorno Karabakh» (Messaggio agli Armeni, 12 aprile 2015).
In quest’ottica vorrei infine evocare un altro grande testimone e artefice della pace di Cristo, san Gregorio di Narek, che ho proclamato Dottore della Chiesa. Egli potrebbe essere definito anche “Dottore della pace”. Così ha scritto in quello straordinario Libro che mi piace pensare come la “costituzione spirituale del popolo armeno”: «Ricordati, [Signore,…] di quelli che nella stirpe umana sono nostri nemici, ma per il loro bene: compi in loro perdono e misericordia. [...] Non sterminare coloro che mi mordono: trasformali! Estirpa la viziosa condotta terrena e radica quella buona in me e in loro» (Libro delle Lamentazioni, 83,1-2). Narek, «partecipe profondamente consapevole di ogni necessità» (ibid., 3,2), ha voluto persino identificarsi con i deboli e i peccatori di ogni tempo e luogo, per intercedere a favore di tutti (cfr ibid., 31,3; 32,1; 47,2): si è fatto «l’offripreghiera di tutto il mondo» (ibid., 28,2). Questa sua solidarietà universale con l’umanità è un grande messaggio cristiano di pace, un grido accorato che implora misericordia per tutti. Gli Armeni, presenti in tanti Paesi e che desidero da qui abbracciare fraternamente, siano messaggeri di questo anelito di comunione, «ambasciatori di pace» (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica in occasione del 1700° anniversario del Battesimo del Popolo armeno, 7: Insegnamenti XXIV, 1 [2001], 278). Il mondo intero ha bisogno di questo vostro annuncio, ha bisogno della vostra presenza, ha bisogno della vostra testimonianza più pura. Kha’ra’rutiun amenetzun! (Pace a voi!)

Viaggio Apostolico di Francesco in Armenia. Incontro con i Vescovi Armeni Cattolici e partecipazione alla Divina Liturgia


Nuovo tweet del Papa: "Le sofferenze degli Armeni ci appartengono, sono le sofferenze delle membra del Corpo mistico di Cristo. #PopeInArmenia" (25 giugno 2016)

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Viaggio Apostolico di Francesco in Armenia. Incontro con i Vescovi Armeni Cattolici e partecipazione alla Divina Liturgia a Etchmiadzin. Saluto del Papa
Sala stampa della Santa Sede

Questa mattina, dopo aver celebrato la Santa Messa in privato nella Cappella allestita presso il Palazzo Apostolico di Etchmiadzin, il Santo Padre Francesco ha incontrato i 14 Vescovi armeni cattolici insieme ai sacerdoti che svolgono il loro ministero nel Paese. Quindi si è trasferito in auto al Piazzale di San Tiridate per partecipare alla Divina Liturgia. Alle ore 10 di questa mattina, il Santo Padre Francesco ha partecipato alla Divina Liturgia presieduta da Sua Santità Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di Tutti gli Armeni, nel Piazzale di San Tiridate del Palazzo Apostolico di Etchmiadzin. Al termine della celebrazione, dopo il saluto del Catholicos, il Papa ha pronunciato il saluto che riportiamo di seguito:
Santità, carissimi Vescovi,
cari fratelli e sorelle,
al culmine di questa visita tanto desiderata e per me già indimenticabile, desidero elevare al Signore la mia gratitudine, che unisco al grande inno di lode e di ringraziamento salito da questo altare. Vostra Santità, in questi giorni, mi ha aperto le porte della Sua casa e abbiamo sperimentato «come è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme» (Sal 133,1). 
Ci siamo incontrati, ci siamo abbracciati fraternamente, abbiamo pregato insieme, abbiamo condiviso i doni, le speranze e le preoccupazioni della Chiesa di Cristo, di cui avvertiamo all’unisono i battiti del cuore, e che crediamo e sentiamo una. «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza […]; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,4-6): possiamo davvero fare nostre con gioia queste parole dell’apostolo Paolo! È proprio nel segno dei santi Apostoli che ci siamo incontrati. I santi Bartolomeo e Taddeo, che proclamarono per la prima volta il Vangelo in queste terre, e i santi Pietro e Paolo, che diedero la vita per il Signore a Roma, mentre regnano con Cristo in cielo, certamente si rallegrano nel vedere il nostro affetto e la nostra aspirazione concreta alla piena comunione. Di tutto ciò ringrazio il Signore, per voi e con voi: Park astutsò! (Gloria a Dio!)
In questa Divina Liturgia il solenne canto del trisagio si è elevato al cielo, inneggiando alla santità di Dio; scenda copiosa la benedizione dell’Altissimo in terra, per l’intercessione della Madre di Dio, dei grandi santi e dottori, dei martiri, specialmente dei tanti martiri che in questo luogo avete canonizzato lo scorso anno. “L’Unigenito che qui discese” benedica il nostro cammino. Lo Spirito Santo faccia dei credenti un cuore solo e un’anima sola: venga a rifondarci nell’unità. Per questo vorrei nuovamente invocarlo, facendo mie alcune splendide parole che sono entrate nella vostra Liturgia. Vieni, o Spirito, Tu «che con gemiti incessanti sei il nostro intercessore presso il Padre misericordioso, Tu che custodisci i santi e purifichi i peccatori»; effondi su di noi il tuo fuoco di amore e unità, e «vengano sciolti da questo fuoco i motivi del nostro scandalo» (Gregorio di Narek, Libro delle Lamentazioni, 33, 5), anzitutto la mancanza di unità tra i discepoli di Cristo.
La Chiesa armena cammini in pace e la comunione tra noi sia piena. In tutti sorga un forte anelito all’unità, a un’unità che non deve essere «né sottomissione l’uno dell’altro, né assorbimento, ma piuttosto accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno per manifestare al mondo intero il grande mistero della salvezza realizzato da Cristo Signore per mezzo dello Spirito Santo» (Parole al termine della Divina Liturgia, Chiesa Patriarcale di San Giorgio, Istanbul, 30 novembre 2014).
Accogliamo il richiamo dei santi, ascoltiamo la voce degli umili e dei poveri, delle tante vittime dell’odio, che hanno sofferto e sacrificato la vita per la fede; tendiamo l’orecchio alle giovani generazioni, che implorano un futuro libero dalle divisioni del passato. Da questo luogo santo si diffonda nuovamente una luce radiosa; a quella della fede, che da san Gregorio, vostro padre secondo il Vangelo, ha illuminato queste terre, si unisca la luce dell’amore che perdona e riconcilia.
Come gli Apostoli il mattino di Pasqua, nonostante i dubbi e le incertezze, corsero verso il luogo della risurrezione, attirati dall’alba felice di una speranza nuova (cfr Gv 20,3-4), così anche noi, in questa santa domenica, seguiamo la chiamata di Dio alla piena comunione e acceleriamo il passo verso di essa.
Ed ora, Santità, in nome di Dio, Vi chiedo di benedirmi, di benedire me e la Chiesa Cattolica, di benedire questa nostra corsa verso la piena unità.

sabato 25 giugno 2016

MISERICORDIA SEI con testo, edizioni RnS 2016

XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) — 26 giugno 2016. Ambientale e commento al Vangelo

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Il Vangelo della 13.ma Domenica del Tempo ordinario presenta il brano in cui Gesù esorta i suoi discepoli a seguirlo verso Gerusalemme dove “sarebbe stato tolto dal mondo”. Il Signore, di fronte alle resistenze di alcuni, afferma:
“Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”.
Cristo ci ha creati per amare liberamente e per accogliere il Suo invito all’evangelizzazione, perché il perdono divinizzi ogni uomo rendendolo eterno. In gioventù e nel fidanzamento, sposati o meno, nella vedovanza o nella vita religiosa, come nel sacerdozio ministeriale, tutti possiamo testimoniare la vittoria di Cristo sulla morte, con una vita dove risplenda la bontà di Dio, talvolta abbandonando ogni cosa per una risposta autentica alla sua chiamata. Ma è Lui che ci rivela questa missione, stravolgendo sogni e progetti, le sue vie, infatti, non sono le nostre. Ogni invito a seguirlo comporta una totale novità, è vagliato attraverso diffidenze, incomprensioni e, non di rado, l’aperto rifiuto, delle persone più care. La radicalità nel rompere questi legami affettivi, unita alla mitezza nelle avversità, distinguono i veri discepoli del Signore che salgono con Lui a Gerusalemme, ed è questa pacata determinazione che scandalizza e attrae. Decidersi per la Volontà del Padre richiede, però, l’ascolto della Parola di Dio, una liturgia profondamente rinnovata, una catechesi kerigmatica, in un contesto comunitario, in altre parole: tutta la ricchezza dell’iniziazione cristiana. Tu puoi attingere con pienezza a queste fonti, e non accontentarti solo della messa domenicale e di poco altro! (Sanfilippo)


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La sequela di Gesù è un esodo d’amore Commento al Vangelo della XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) — 26 giugno 2016
L'amore autentico desidera il bene dell’amato, per questo conosce il dolore del rifiuto. Per «compiersi» ed «elevare» al Cielo ciò che sta marcendo sotto terra, l’amore di Dio deve farsi pellegrino e scendere nell’abisso del male che incatena il cuore. Con il «volto saldo», pronto per ricevere insulti, sputi e bestemmie, Gesù si reca a Gerusalemme, la Città della Pace che uccide i profeti, la santa e prostituta nella quale si riflette la contraddizione che caratterizza ogni uomo: amato come un figlio, è condannato a vivere come un orfano. Passo dopo passo, villaggio dopo villaggio, rifiuto dopo rifiuto, Gesù si reca pellegrino a Gerusalemme come al cuore malato di ciascuno di noi, dove salire sulla Croce e «compiere» la Pasqua, il passaggio dalla schiavitù alla libertà per ogni uomo.
Secondo la tradizione ebraica, la Pasqua esigeva «preparativi» accurati e lunghi, quanto il cammino di Gesù verso Gerusalemme, e «messaggeri» scelti per realizzarli. Essi, come i membri di uno staff che conosce intimamente il presidente e ne condivide la missione, sono inviati per bonificare e preparare la visita. Anche noi, «angeli inviati davanti al volto» di Gesù, ci «incamminiamo» ogni giorno verso il «villaggio dei samaritani» eretici che rifiutavano scandalizzati il Tempio di Gerusalemme. Siamo inviati in famiglia, al lavoro, a scuola, ovunque la Croce sia di scandalo, per prepararvi la Pasqua del Signore, bonificando la menzogna con l’annuncio del Vangelo caricandoci del rifiuto. E questo non ci piace, piuttosto vorremmo bruciare peccati e peccatori, fraintendendo il fuoco di Elia che incendiò l’idolatria per mostrarne l’inganno e così annunciare la Verità. Ma non è questa la missione di Gesù, e il suo sguardo che ci ha sempre perdonato ce lo ricorda. Siamo inviati a cercare hametz, il lievito vecchio dell’ipocrisia che rifiuta la verità, e a prenderlo su di noi, perché Gesù possa compiere la sua Pasqua.
E non vi è altro modo per rinvenire e smascherare l’ipocrisia che “seguire” Gesù; seguire significa innanzi tutto consegnare la propria vita a un altro. Nello scalare una montagna è fondamentale avere fiducia del capocordata. Seguire Gesù è rinunciare ad aprire il cammino, a decidere strategie e rotte: è fidarsi e seguire le orme, fissare le sue spalle, il segno dell’amore che ci ha chiamati caricando la Croce. Seguire Gesù è affidargli la vita sul concreto legno della Croce che ci accompagna ogni giorno, rinunciando a se stessi in ogni relazione per vivere la sua vita.
Ma questo è possibile solo se si ama. Non si è discepoli in virtù di una propria scelta, neanche di un desiderio, per sublime che sia, come nessuno decide se, quando e dove innamorarsi. E’ un’elezione gratuita per “vivere disposti al volo, pronti a qualunque partenza. È il futuro inimmaginabile, l’irraggiungibile futuro di quella promessa di vita vera che l’amore insinua in chi lo sente» (Maria Zambrano). La sequela di Gesù è unesodo d’amore alla ricerca della libertà, come fu per il Popolo d’Israele. Nessun merito, nessun requisito se non quello di essere il più insignificante e testardo della terra, e, per questo, amato gratuitamente.
Il “discepolo” è l’uomo della Pasqua, si nutre del pane della fretta, non ha luogo dove riposare; è attratto in un esodo che lo strappa alla schiavitù insieme a un popolo che mostrerà al mondo il destino di libertà preparato per ogni uomo. Per questo si lascia alle spalle gli Egiziani, il mondo, non ha tempo per guardarsi indietro e salutare e seppellire il passato di catene e schiavitù, i legami di carne destinati a corrompersi. Non perde tempo cercando di ricomporre le relazioni morbose, idolatriche, carnali: le seppellirà Dio affogandole nel mare per non rivederle mai più… Il discepolo di Gesù è un innamorato, immerso in un amore che lo ha raggiunto senza vedersi porre condizioni, laddove egli si trovava, come Matteo, come Zaccheo, senza il tempo di riordinare, di farsi belli, piacevoli, attraenti. Come Israele, sposa infedele raggiunta, amata e perdonata dal Signore.
Lo stesso amore di Dio che “dei due fa una cosa sola” è la sorgente della sequela: ogni vocazione è un sacramento, una Parola di Dio che crea una novità celeste nella carne e nella storia degli uomini. Così il matrimonio, il presbiterato, la vita religiosa, la vita missionaria e itinerante, tutto scaturisce dalla stessa Parola creatrice: solo in essa un uomo e una donna possono lasciare suo padre e sua madre. Non si può seguire Cristo rimanendo con cuore, mente e carne nella propria casa, cercando sempre negli affetti e negli idoli mondani un “luogo dove reclinare il capo”.
Così come chi, pur sposandosi, non abbandona mai la propria casa di origine, e cerca di farne una replica. Seguire Cristo è lanciarsi in un’avventura di cui non si conosce nulla, se non l’amore che ci ha raggiunti, salvati e liberati. Un amore infinito presuppone spazi, prospettive, esiti senza limiti. Seguire Gesù, non è altro che essere cercati, ritrovati, amati e caricati sulle spalle dal Buon Pastore, e imparare, ogni giorno, a posare lo sguardo esattamente dove lo posa Lui, perché “amarsi non vuol dire guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione” (Antoine de Saint-Exupéry).

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Lectio divina sulle letture per la XIII domenica del Tempo Ordinario (Anno C) — 26 giugno 2016

di  Francesco Follo*
XIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 26 giugno 2016
1) Il cammino definitivo verso Gerusalemme.
Nel capitolo 9 di San Luca, di cui la liturgia della Messa di oggi ci propone l’ultima parte, sono riferiti alcuni momenti importanti della vita di Cristo, che è utile ricordare.
Li richiamo brevemente.
Prima di tutto Gesù invia in missione i Dodici Apostoli. Questi hanno ascoltato e accolto il suo annuncio quindi, a loro volta, possono diffonderlo (cfr Lc 9,1-6). Al loro ritorno li coinvolge nella moltiplicazione dei pani, che non è solamente un’anticipazione simbolica dell’Eucaristia., ma una vera e profonda rivelazione di Gesù e della sua esistenza e, quindi, di una vera rivelazione del gesto eucaristico. Per l’evangelista San Luca la distribuzione dei pani, l’ultima Cena e la cena di Emmaus sono i pilastri che manifestano la logica dell’esistenza di Gesù: una vita in dono.(cfr Ibid. 9,10-17).
Poi, Pietro riconosce Gesù come il Cristo, il Messia atteso dal popolo di Israele (cfr Ibid.  9,18-21). E questo è un momento molto importante perché Gesù è riconosciuto come il Cristo di Dio. Tuttavia per scoprirlo completamente sono necessarie la morte e la risurrezione, quindi Gesù comincia ad annunciare ai suoi il proprio destino di passione (cfr. Ibid. 9,22-23). E’ una vocazione che richiede certe rinunce. Chi vuole seguire Gesù deve come Lui rinunciare alla propria vita, per poi ritrovarla (cfr Ibid. 9,23-26).
Inoltre, per sostenere i suoi Apostoli in questo cammino, Gesù dà un “assaggio” della sua gloria futura ai tre Apostoli da lui preferiti: è la Trasfigurazione (cfr. Ibid. 9,28-36). Disceso dal monte, rivela ancora una volta la sua forza nei confronti del maligno (guarigione del ragazzo epilettico: Ibid. 9,37-43) e annuncia di nuovo la sua passione e morte (cfr. Ibid. 9,43-45), ma i discepoli non comprendono e si mettono a discutere su chi sia il più grande tra di loro (cfr Ibid. 9, 46-50).
Ed eccoci alla fine del capitolo 9. In questo brano (vv. 51-62), letto durante la liturgia per questa domenica, sono descritte la ferma decisione di Cristo di compiere il suo esodo andando a Gerusalemme  e tre risposte di come il discepolo debba seguire il Maestro.
Vale la pena di notare che in questa parte definitiva dell’esodo di Cristo verso il Padre, i gesti di misericordia, i miracoli e gli insegnamenti continuano. 
2) Le esigenze della sequela.
Gesù intraprende la strada verso Gerusalemme dove -con consapevolezza, coraggio e decisione – va per dare la vita per chi lo ammazza (cfr. Ibid. 9,51). Il Figlio di Dio cammina risolutamente verso Gerusalemme, volge il suo volto, fermo e deciso (in effetti il testo greco usa questa espressione: “Rese di pietra il suo volto”, così il testo greco che è stato tradotto con: “Gesù prese la ferma decisione”) verso la sua Pasqua di liberazione per noi. È un cammino, fatto non senza gran fatica e con decisione ferma., ma è un cammino libero e di libertà.
Cristo ci ha liberati per la libertà di figli di Dio. Per essere liberi, dietro Gesù, bisogna camminare secondo lo Spirito e nell’osservanza dei comandamenti donati da Dio per amore. I Dieci Comandamenti non sono un inno al “no”, sono sul “sì”. Un “sì” a Dio, il “sì” all’amore, e poiché io dico di “sì” all’amore, dico “no” al non amore, ma il “no” è una conseguenza di quel “sì” che viene da Dio e ci fa amare.
Riscopriamo e viviamo le Dieci Parole di Dio (in greco c’è “logoi” che di solito è tradotto con comandamenti ma letteralmente significa “parole”). Diciamo “sì” a queste “dieci vie d’amore” perfezionate da Cristo, per difendere l’uomo e guidarlo alla vera libertà.
Se poi vogliamo vivere con pienezza queste vie non ci resta che seguire Cristo nel suo esodo a Gerusalemme, che non è solo quella in Terra santa, ma è quella nel Cielo.
Questa sequela ha almeno tre caratteristiche.
La prima caratteristica è quella del distacco o del vero rapporto con i beni materiali.
In effetti, nel vangelo di oggi vediamo che un uomo, lungo la strada verso la libertà, chiede a Gesù di volerlo seguire. Quest’uomo è già consapevole che la sequela comporti una vita itinerante: “Ti seguirò dovunque tu vada” (Ibid. 9, 57). Ma c’è qualcosa in più che deve sapere: non semplicemente la povertà materiale ci è richiesta, né semplicemente la fatica di una vita pellegrinante. Il primo dono che Gesù ci fa se lo seguiamo poveramente è  quello della libertà dalle cose: se vogliamo possederle ci possiedono, se ne facciamo il fine della nostra vita siamo usati come mezzi di produzione di cose. Se invece non sono fini, ma mezzi, li possiamo usare e servono. Servono, per fare una vita umana che è una vita da figli e da fratelli. E’ la vita di comunione, mentre troppo spesso si lotta anche fino alla morte. La prima condizione per seguire Cristo ed essere persone libere, il primo dono che Dio vuole farci è la povertà spirituale e se qualcuno è chiamato, anche la povertà materiale, che è un gran dono di Dio. Questa povertà significa che non siamo ciò che abbiamo, altrimenti ci identifichiamo con le cose, che diventano il nostro dio o, per essere più precisi, il nostro idolo, il nostro fine,  a causa del quale distruggiamo gli altri e, infine, noi stessi.
La seconda caratteristica è quella del rapporto con le persone e che nulla sia anteposto a Dio.
Di fronte alla richiesta di Gesù: “Seguimi” per vivere nella luce e nell’amore, il secondo uomo del Vangelo di oggi chiede un rinvio. La risposta di Gesù è categorica: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Ibid. 9, 59 -60). Certamente si tratta di un linguaggio paradossale. Non è questione di seppellire o no i propri cari. È questione di accorgersi che è arrivata una novità che tutto fa impallidire.
Spero di non sbagliarmi se affermo che è un invito alla castità, a cui tutti siamo chiamati: nessuna persona, nessun dovere, nessun affetto è assoluto. Solo Dio, che non abbiamo mai visto, è assoluto. Tutto il resto è relativo e soprattutto non è mai da possedere. Quella relazione di amore reciproco, cioè quello stesso amore che Dio ha per noi gratuito, di dono, è lo stesso amore che abbiamo con l’altro, di dono reciproco e di perdono.
Se la prima caratteristica della sequela è il distacco dalle cose e la seconda è il distacco dalle persone, la terza è il distacco da se stessi, che non si riduce alla storia passata. L’essere umano è struttura di domanda, desiderio di infinito, apertura alla promessa di Dio.
In effetti, nel terzo dialogo leggiamo di un altro sconosciuto che è disposto a seguire Gesù ma chiede il tempo di salutare quelli di casa. Il verbo greco significa salutare e lasciare. Gesù risponde con una specie di proverbio: “Chi ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, non è adatto per il regno di Dio”. Se il contadino vuole arare va diritto, non può permettersi di guardare indietro. In altre parole, la sequela non sopporta rinvii, né distrazioni, né nostalgie,
Detto sinteticamente: il seguire Cristo è una scelta di libertà che deriva dal distacco dalle cose e dalle persone, il distacco dalle cose, e dalla fiducia in Dio.
3) La sequela della vergini consacrate nel mondo.
Capiamo con la mente ed anche con il cuore che seguire Gesù vuol dire quindi radicarsi nella sua parola e accogliere la sua Persona di Messia e Figlio di Dio senza riserve, senza anteporre a lui i nostri pensieri e i nostri affetti famigliari
A questo riguardo le Vergini consacrate nel mondo testimoniano che nessunaffetto viene prima di Dio. È la castità dell’anima e del corpo, il loro essere “spose” di un Dio da amare in modo assoluto. Al primo posto è Dio. Volgersi indietro è rimpianto, esitazione. La scelta per Cristo è la conversione continua che la verginità rende costante e trasforma in offerta, in sacrificio gradito a Dio.
Seguire Gesù verginalmente vuol dire seguirlo incondizionatamente. Il seguire Cristo  esige una fedeltà ed un amore, che mettano sempre al primo posto Dio e il Suo regno. L’esito è una vita feconda e gioiosa. Infatti, il Redentore ha detto: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la propria croce ogni giorno, e mi segua; perché, chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà” (Lc 9,23-24). Dunque, la sequela di Cristo è una via Crucis non perché il dolore e la morte debbano essere l’approdo ultimo della vita, ma perché, come fu per Cristo, mistico chicco di grano caduto nella terra, da quella morte redentrice nascesse nuova vita.
Così ogni rinuncia fatta per seguire il Figlio di Dio, non segna semplicemente un cammino di sterile mortificazione, ma apre la via ad un’esistenza che, incessantemente, si rinnova nella grazia e rende la persona capace di percorrere il cammino della libertà più vera, quella che ci è donata in Cristo. Le persone vergini ce lo testimoniano in modo significativo, perché tutti i cristiani rispondano a questa vocazione: “Voi, fratelli siete stati chiamati a libertà, purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri…Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito …”
Dunque la vocazione di ciascuno di noi alla sequela di Cristo è vocazione alla libertà autentica, che è dono del Padre nel Figlio per mezzo dello Spirito, il quale illumina e conduce alla pienezza della vita.
Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi

Celebrazione della memoria di San Josemaria… Omelia del card. Scola (2013)

Buongiornissimo! Domani è la festa di San Josemaría Escrivá. Mi è stata segnalata quest'omelia del Cardinal Scola durante la S.Messa di San Josemaría del 2013. Un'omelia forte e chiara che mi fa piacere divulgare.
Corigliano

Andiamocene anche noi. E alla svelta.


Non ho la pretesa di fare valutazioni tecniche in ambito economico sulle conseguenze di Brexit. Di sicuro sul piano antropologico è un avvenimento decisamente positivo: il Leviatano europeo si è dimostrato negli ultimi anni un mostro burocratico disumano ed antiumano, in cui le popolazioni non hanno avuto nessuna rappresentatività mentre le lobby hanno spadroneggiato. 
Tra i commenti, il più assurdo mi sembra quello secondo il quale i giovani, avendo più anni da vivere, dovrebbero essere quelli ad avere più diritto a decidere: quindi cosa facciamo, il voto ponderato per età? A parte che questo contraddice l'idea ancestrale secondo cui la saggezza e quindi la capacità di prendere decisioni giuste sono caratteristiche tipiche della maturità, la prevalenza tra i giovani del "remain" mi sembra piuttosto testimoniare come l'ideologia dominante sia riuscita a penetrare meglio nelle menti ingenue e non formate dei giovani, mentre i più stagionati sono meno condizionati.


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«C'è da chiedersi poi ancora perché si continua invece a magnificare l'entrata in Europa come una sorta di miraggio, dietro il quale si delineano le delizie del Paradiso terrestre.
Non sarà così. 
Alle condizioni attuali, dal quadro dei vincoli così come sono stati definiti, ad aspettare l'Italia non c'è affatto un Paradiso terrestre.
Senza una nuova trattativa e senza una definizione di nuove condizioni, l'Italia nella migliore delle ipotesi finirà in un limbo, ma nella peggiore andrà all'inferno». (Bettino Craxi, 1992)


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La politica inglese, la city inglese, la speculazione bancaria inglese, la massoneria inglese, la stampa inglese... nessuno aveva considerato attentamente la forza e la determinazione del popolo inglese.
Abituato a secoli di democrazia il popolo inglese non si è fatto incantare dai pifferai di Londra né da quelli di Bruxelles e di Washington e ha gloriosamente deciso di testa sua.
Va detto che a occhio e croce nessun altro popolo europeo avrebbe avuto gli attributi per una simile decisione oltretutto per primo.
E ora?
Oggi un giornale solitamente vicino a posizioni cattoliche è riuscito a prendersela con l'istituto stesso del referendum, quasi a dire che se togliessimo al popolo il diritto di votare finalmente avremmo paesi stabili e governabili.
Più o meno quel che dice Renzi che oltre a togliere il referendum vuol eliminare per maggior sicurezza anche il parlamento.
Io non sono d'accordo.
Credo invece che dovremmo ripartire dai popoli europei dando loro spazio e riscoprendone identità e peculiarità.
Un'autentica Europa di popoli fondata sulle comuni radici giudaico cristiane che la pianti di occuparsi di spread gender lobbies e si prenda a cuore le famiglie contrastando la denatalità, investendo sui figli e sul proprio futuro.
Un'Europa che sappia avere una politica unitaria sugli aiuti internazionali e che sappia regolare l'immigrazione con norme semplici serie umane e giuste.
Un'Europa che metta da parte l'austerity fine a sé stessa ma che sappia investire coraggiosamente e sostenere lo sviluppo economico.
Un'Europa che costi di meno e aiuti di più. ...
Rivediamo insieme la carta di Nizza... ritroviamo insieme le ragioni del nostro stare insieme e restituiamo speranza alle nazioni...
Oppure andiamocene alla svelta da questo che in neppure trent'anni diventerà un ospizio e poi un cimitero
Simone Pillon

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É un’Europa da rifondare: parla Benedetto XVI
di Robi Ronza

Poi si tratta di andare a vedere che prezzo cercheranno di farci pagare le élites che erano sin qui riuscite con successo a costruirsi la loro Europa pretendendo che fosse anche la nostra. La prima cosa da dire però è che l’esito del referendum britannico pro o contro l’Unione Europea è un  atto di grande libertà; e apre a grandi speranze. L’altro ieri in Gran Bretagna gli elettori hanno votato innanzitutto contro un ordine costituito politico e mediatico che voleva votassero diversamente; e che aveva per questo fatto letteralmente di tutto.
Parlando alla Rai in un’ascoltatissima trasmissione del mattino, l’ex-presidente della  Repubblica Giorgio Napolitano si è permesso ieri di definire “incauto” il premier britannico Cameron per aver sottoposto a referendum popolare la questione della permanenza o meno del suo Paese nell’Ue.  Da questioni di questa importanza, secondo Napolitano, è meglio che il popolo venga lasciato fuori. Dando prova di una notevole mancanza di comune senso del pudore, il suo pupillo Mario Monti ha detto anche di peggio. Capo di governo imposto al Parlamento, e nominato allo scopo senatore a vita pochi giorni prima della sua entrata in carica, Monti ha affermato che indicendo il referendum Cameron avrebbe nientemeno che «abusato della democrazia».  
Quando insomma un popolo vota di testa sua, e non come avrebbero voluto loro, alle élites abituate a considerare “cosa nostra” le istituzioni europee casca la maschera. Da due giorni a questa parte i Napolitano e i Monti di ogni parte d’Europa sono fuori di sé al punto da non riuscire più a nascondere l’autoritarismo recondito, post-comunista o massonico che sia, che caratterizza non da oggi la loro visione politica. Anche se a mio avviso la Brexit è uno shock salutare per l’Unione Europea, senza dubbio non è ordinaria amministrazione. Come si diceva, le élites che non la volevano cercheranno di far pagare al mondo il fallimento del loro progetto facendone il capro espiatorio su cui scaricare emergenze che con essa non hanno nulla a che vedere. 
É il caso ad esempio dei titoli dei grandi gruppi bancari italiani sulle cui sorti non si vede che cosa possa pesare l’esodo di Londra dall’Unione. Si deve quindi dare per scontato che ci attendono giorni di turbolenza sui mercati finanziari internazionali; e chi è in  grado di farlo ha il preciso dovere di intervenire per stabilizzarli. Frattanto è già scattata la “macchina” della mistificazione del significato profondo della Brexit. In ultima analisi l’episodio è un segno clamoroso del fallimento della pretesa di costruire l’Europa politica basandola solo sugli interessi e prescindendo testardamente dalla sua storia e dai valori che la caratterizzano. L’Europa si può salvare soltanto se cambia risolutamente strada riscoprendo il meglio di se stessa. Viceversa già si sta tentando di far passare l’idea che dalla crisi evidenziata dalla Brexit si possa uscire non cambiando strada bensì andando avanti a testa bassa come se niente fosse.
Per evidenti motivi le chiavi della soluzione di questa crisi stanno in gran parte nelle mani della gentedi fede. Purché però la gente di fede sia a sua volta fedele a ciò che ha incontrato. È il caso in tale prospettiva di riandare a un documento oggi perciò quanto mai attuale: il discorso di Benedetto XVI ai partecipanti al congresso della Commissione degli Episcopati della Comunità Europea riunita a Roma il 24 marzo 2007 alla vigilia del 50° anniversario dei trattati istitutivi delle prime organizzazioni europee. Dopo aver messo in luce gli aspetti positivi del processo allora avviatosi Benedetto XVI osservava però che l’Europa sta «di fatto perdendo fiducia nel proprio avvenire. (…) Il processo stesso di unificazione europea si rivela non da tutti condiviso, per l’impressione diffusa che vari “capitoli” del progetto europeo siano stati “scritti” senza tener adeguato conto delle attese dei cittadini».
«Da tutto ciò emerge chiaramente», continuava Benedetto XVI, «che non si può pensare di edificareun’autentica “casa comune” europea trascurando l’identità propria dei popoli di questo nostro Continente. Si tratta, infatti, di un’identità storica, culturale e morale, prima ancora che geografica, economica o politica; un’identità costituita da un insieme di valori universali, che il Cristianesimo ha contribuito a forgiare, acquisendo così un ruolo non soltanto storico, ma fondativo nei confronti dell’Europa. Tali valori, che costituiscono l’anima del Continente, devono restare nell’Europa del terzo millennio come “fermento” di civiltà. Se infatti essi dovessero venir meno, come potrebbe il “vecchio” Continente continuare a svolgere la funzione di “lievito” per il mondo intero? Se, in occasione del 50.mo dei Trattati di Roma, i Governi dell’Unione desiderano “avvicinarsi” ai loro cittadini, come potrebbero escludere un elemento essenziale dell’identità europea qual è il Cristianesimo, in cui una vasta maggioranza di loro continua a identificarsi?».
«Non è motivo di sorpresa che l’Europa odierna», continua Ratzinger, «mentre ambisce di porsi comeuna comunità di valori, sembri sempre più spesso contestare che ci siano valori universali ed assoluti? Questa singolare forma di “apostasia” da se stessa, prima ancora che da Dio, non la induce forse a dubitare della sua stessa identità? (….) Una comunità che si costruisce senza rispettare l’autentica dignità dell’essere umano, dimenticando che ogni persona è creata ad immagine di Dio, finisce per non fare il bene di nessuno (…). Nell’attuale momento storico e di fronte alle molte sfide che lo segnano, l’Unione Europea per essere valida garante dello stato di diritto ed efficace promotrice di valori universali, non può non riconoscere con chiarezza l’esistenza certa di una natura umana stabile e permanente, fonte di diritti comuni a tutti gli individui, compresi coloro stessi che li negano. In tale contesto, va salvaguardato il diritto all’obiezione di coscienza, ogniqualvolta i diritti umani fondamentali fossero violati».
Sembra poi più che mai rivolto a ciascuno di noi oggi l’invito e l’incoraggiamento con cui il discorso siconcludeva: «so quanto difficile sia per i cristiani difendere strenuamente questa verità dell’uomo. Non stancatevi però e non scoraggiatevi! Voi sapete di avere il compito di contribuire a edificare con l’aiuto di Dio una nuova Europa, realistica ma non cinica, ricca d’ideali e libera da ingenue illusioni, ispirata alla perenne e vivificante verità del Vangelo. Per questo siate presenti in modo attivo nel dibattito pubblico a livello europeo, consapevoli che esso fa ormai parte integrante di quello nazionale, e affiancate a tale impegno un’efficace azione culturale. Non piegatevi alla logica del potere fine a se stesso! Vi sia di costante stimolo e sostegno l’ammonimento di Cristo: se il sale perde il suo sapore a null’altro serve che ad essere buttato via e calpestato (cfr Mt 5,13)». 
Sono urgenze – osserviamo infine -- già al centro delle riflessioni che l’allora cardinale Joseph Ratzinger aveva affidato nel 1992 a un libro Svolta per l’Europa: Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti (Edizioni Paoline, Milano, 1992) oggi tutto da riscoprire.

Santa Messa nella Piazza Vartanants di Gyumri. Omelia del Santo Padre.



Santa Messa nella Piazza Vartanants di Gyumri. Omelia del Santo Padre. "Nelle vostre voci risuonano quelle dei sapienti santi del passato; nelle vostre parole c’è l’eco di chi ha creato il vostro alfabeto allo scopo di annunciare la Parola di Dio; nei vostri canti si fondono i gemiti e le gioie della vostra storia. Pensando a tutto questo potete riconoscere certamente la presenza di Dio: Egli non vi ha lasciati soli.
Sala stampa della Santa Sede

Verso le 10.30 di questa mattina, il Santo Padre Francesco è giuntoall’aeroporto Internazionale “Shirak” di Gyumri, accolto dal Sindaco della città, dall’Arcivescovo Ordinario per gli Armeni Cattolici dell’Europa Orientale e dal Vescovo Armeno-Apostolico del luogo. A salutare l’arrivo del Papa anche un gruppo di bambini orfani, con un coro. Il Papa si è poi trasferito in piazza Vartanants dove, alle ore 11, ha celebrato la Santa Messa votiva della Misericordia di Dio, secondo il rito latino. Era presente il Catholicos Karekin II, che in apertura di celebrazione ha rivolto un saluto al Santo Padre. Al termine della Santa Messa sarà S.E. Mons. Raphael François Minassian, Arcivescovo titolare di Cesarea di Cappadocia degli Armeni e Ordinario per gli Armeni Cattolici dell’Europa Orientale, con sede a Gyumri, a rivolgere al Papa un indirizzo di saluto. Di seguito riportiamo il testo dell’omelia che Papa Francesco ha pronunciato dopo la proclamazione del Santo Vangelo:
Omelia del Santo Padre 

«Riedificheranno le rovine antiche, restaureranno le città desolate» (Is 61,4). In questi luoghi, cari fratelli e sorelle, possiamo dire che si sono realizzate le parole del profeta Isaia che abbiamo ascoltato. Dopo le terribili devastazioni del terremoto, ci troviamo oggi qui a rendere grazie a Dio per tutto quanto è stato ricostruito.
Potremmo però anche domandarci: che cosa il Signore ci invita a costruire oggi nella vita, e soprattutto: su che cosa ci chiama a costruire la nostra vita? Vorrei proporvi, nel cercare di rispondere a questa domanda, tre basi stabili cu cui possiamo edificare e riedificare la vita cristiana, senza stancarci.
Il primo fondamento è la memoria. Una grazia da chiedere è quella di saper recuperare la memoria, la memoria di quello che il Signore ha compiuto in noi e per noi: richiamare alla mente che, come dice il Vangelo odierno, Egli non ci ha dimenticato, ma «si è ricordato» (Lc 1,72) di noi: ci ha scelti, amati, chiamati e perdonati; ci sono stati grandi avvenimenti nella nostra personale storia di amore con Lui, che vanno ravvivati con la mente e con il cuore. Ma c’è anche un’altra memoria da custodire: la memoria del popolo. I popoli hanno infatti una memoria, come le persone. E la memoria del vostro popolo è molto antica e preziosa. Nelle vostre voci risuonano quelle dei sapienti santi del passato; nelle vostre parole c’è l’eco di chi ha creato il vostro alfabeto allo scopo di annunciare la Parola di Dio; nei vostri canti si fondono i gemiti e le gioie della vostra storia. Pensando a tutto questo potete riconoscere certamente la presenza di Dio: Egli non vi ha lasciati soli. Anche fra tremende avversità, potremmo dire con il Vangelo di oggi, il Signore ha visitato il vostro popolo (cfr Lc 1,68): si è ricordato della vostra fedeltà al Vangelo, della primizia della vostra fede, di tutti coloro che hanno testimoniato, anche a costo del sangue, che l’amore di Dio vale più della vita (cfr Sal 63,4). È bello per voi poter ricordare con gratitudine che la fede cristiana è diventata il respiro del vostro popolo e il cuore della sua memoria.
La fede è anche la speranza per il vostro avvenire, la luce nel cammino della vita, ed è il secondo fondamento di cui vorrei parlarvi. C’è sempre un pericolo, che può far sbiadire la luce della fede: è la tentazione di ridurla a qualcosa del passato, a qualcosa di importante ma che appartiene ad altri tempi, come se la fede fosse un bel libro di miniature da conservare in un museo. Tuttavia, se rinchiusa negli archivi della storia, la fede perde la sua forza trasformante, la sua bellezza vivace, la sua positiva apertura verso tutti. La fede, invece, nasce e rinasce dall’incontro vivificante con Gesù, dall’esperienza della sua misericordia che dà luce a tutte le situazioni della vita. Ci farà bene ravvivare ogni giorno questo incontro vivo con il Signore. Ci farà bene leggere la Parola di Dio e aprirci nella preghiera silenziosa al suo amore. Ci farà bene lasciare che l’incontro con la tenerezza del Signore accenda la gioia nel cuore: una gioia più grande della tristezza, una gioia che resiste anche di fronte al dolore, trasformandosi in pace. Tutto questo rinnova la vita, la rende libera e docile alle sorprese, pronta e disponibile per il Signore e per gli altri. Può succedere anche che Gesù chiami a seguirlo più da vicino, a donare la vita a Lui e ai fratelli: quando invita, specialmente voi giovani, non abbiate paura, ditegli di “sì”! Egli ci conosce, ci ama davvero, e desidera liberare il cuore dai pesi del timore e dell’orgoglio. Facendo spazio a Lui, diventiamo capaci di irradiare amore. Potrete in questo modo dar seguito alla vostra grande storia di evangelizzazione, di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno in questi tempi tribolati, che sono però anche i tempi della misericordia.
Il terzo fondamento, dopo la memoria e la fede, è proprio l’amore misericordioso: è su questa roccia, sulla roccia dell’amore ricevuto da Dio e offerto al prossimo, che si basa la vita del discepolo di Gesù. Ed è vivendo la carità che il volto della Chiesa ringiovanisce e diventa attraente. L’amore concreto è il biglietto da visita del cristiano: altri modi di presentarsi possono essere fuorvianti e persino inutili, perché da questo tutti sapranno che siamo suoi discepoli: se abbiamo amore gli uni per gli altri (cfr Gv 13,35). Siamo chiamati anzitutto a costruire e ricostruire vie di comunione, senza mai stancarci, a edificare ponti di unione e a superare le barriere di separazione. Che i credenti diano sempre l’esempio, collaborando tra di loro nel rispetto reciproco e nel dialogo, sapendo che «l’unica competizione possibile tra i discepoli del Signore è quella di verificare chi è in grado di offrire l’amore più grande!» (Giovanni Paolo II, Omelia, 27 settembre 2001: Insegnamenti XXIV,2 [2001], 478).
Il profeta Isaia, nella prima lettura, ci ha ricordato che lo spirito del Signore è sempre con chi porta il lieto annuncio ai miseri, fascia le piaghe dei cuori spezzati e consola gli afflitti (cfr 61,1-2). Dio dimora nel cuore di chi ama; Dio abita dove si ama, specialmente dove ci si prende cura, con coraggio e compassione, dei deboli e dei poveri. C’è tanto bisogno di questo: c’è bisogno di cristiani che non si lascino abbattere dalle fatiche e non si scoraggino per le avversità, ma siano disponibili e aperti, pronti a servire; c’è bisogno di uomini di buona volontà, che di fatto e non solo a parole aiutino i fratelli e le sorelle in difficoltà; c’è bisogno di società più giuste, nelle quali ciascuno possa avere una vita dignitosa e in primo luogo un lavoro equamente retribuito.
Potremmo però chiederci: come si può diventare misericordiosi, con tutti i difetti e le miserie che ciascuno vede dentro di sé e attorno a sé? Vorrei ispirarmi a un esempio concreto, ad un grande araldo della misericordia divina, che ho voluto proporre all’attenzione di tutti annoverandolo tra i Dottori della Chiesa universale: san Gregorio di Narek, parola e voce dell’Armenia. È difficile trovare qualcuno pari a lui nello scandagliare le abissali miserie che si possono annidare nel cuore dell’uomo. Egli, però, ha sempre posto in dialogo le miserie umane e la misericordia di Dio, elevando un’accorata supplica fatta di lacrime e fiducia al Signore, «datore dei doni, bontà per natura […], voce di consolazione, notizia di conforto, slancio di gioia, […] tenerezza impareggiabile, misericordia traboccante, […] bacio salvifico» (Libro delle lamentazioni, 3,1), nella certezza che «mai è adombrata dalle tenebre della rabbia la luce della [sua] misericordia» (ibid., 16,1). Gregorio di Narek è un maestro di vita, perché ci insegna che è anzitutto importante riconoscerci bisognosi di misericordia e poi, di fronte alle miserie e alle ferite che percepiamo, non chiuderci in noi stessi, ma aprirci con sincerità e fiducia al Signore, «Dio vicino, tenerezza di bontà» (ibid., 17,2), «pieno d’amore per l’uomo, […] fuoco che consuma la sterpaglia del peccato» (ibid., 16,2).
Con le sue parole vorrei infine invocare la misericordia divina e il dono di non stancarci mai di amare: Spirito Santo, «potente protettore, intercessore e pacificatore, noi ti rivolgiamo le nostre suppliche […] Accordaci la grazia di incoraggiarci alla carità e alle opere buone […] Spirito di dolcezza, di compassione, di amore per l’uomo e di misericordia, […] Tu che non sei altro che misericordia, […] abbi pietà di noi, Signore nostro Dio, secondo la tua grande misericordia» (Inno di Pentecoste).


Saluto alla fine della Messa
Al termine di questa Celebrazione desidero esprimere viva gratitudine al Catholicos Karekin II e all’Arcivescovo Minassian per le cortesi parole che mi hanno rivolto, come pure al Patriarca Ghabroyan e ai Vescovi presenti, ai sacerdoti e alle Autorità che ci hanno accolto.
Ringrazio tutti voi che avete partecipato, giungendo a Gyumri anche da diverse regioni e dalla vicina Georgia. Vorrei in particolare salutare chi, con tanta generosità e amore concreto, aiuta quanti si trovano nel bisogno. Penso soprattutto all’ospedale di Ashotsk, inaugurato venticinque anni fa e conosciuto come l’“Ospedale del Papa”: nato dal cuore di san Giovanni Paolo II, è ancora una presenza tanto importante e vicina a chi soffre; penso alle opere portate avanti dalla comunità cattolica locale, dalle Suore Armene dell’Immacolata Concezione e delle Missionarie della Carità della beata Madre Teresa di Calcutta.
La Vergine Maria, nostra Madre, vi accompagni sempre e guidi i passi di tutti sulla via della fraternità e della pace.