venerdì 3 giugno 2016

Come curare le ferite dei pastori?




Come comportarsi con i sacerdoti che si macchiano di gravi delitti?

di Maurizio Di Paolo*
In questo anno Santo della Misericordia il Santo Padre Francesco non ha smesso di condannare con fermezza lo scandalo dei sacerdoti pedofili, o corrotti per il troppo attaccamento al denaro e alla sessualità. A queste parole, con altrettanta fermezza profetica annunciate da Papa Benedetto, soprattutto in occasione dell’Anno sacerdotale, continua da diversi anni l’applicazione delle Normae de Gravioribus delictis del 21 maggio 2010.
Queste norme particolari regolano il procedimento penale nei confronti dei sacerdoti accusati dei delitti più gravi contro la santità del sacramento del sacerdozio: in sintesi i delitti di profanazione del Santissimo Sacramento, contro il sacramento della penitenza (assoluzione del complice, la sollecitazione al peccato contro il sesto comandamento etc.), l’abuso sessuale con un minore per difetto di età (meno di 18 anni) o di uso di ragione (minorato).
Riguardo a questi procedimenti si registrano comunemente due reazioni: i giustizialisti chiedono pene severe, fino alla dimissione dallo stato clericale e dall’Ordine religioso, e i più tolleranti si orientano verso pene mitigate in nome della misericordia, o addirittura declassano il “delitto” ad un mero “incidente di percorso” da dimenticare e non deferire al Dicastero vaticano. La questione, che può apparire esclusivamente di carattere giuridico, è invece strettamente ecclesiale ed esistenziale.
È ecclesiale perché il sacerdote che commette un delitto grave ferisce e scandalizza la comunità cristiana in cui vive ed opera; è esistenziale, perché il sacerdote religioso rischia di tornare allo stato laicale, perdendo non solo il suo ufficio ecclesiastico, ma anche ogni fonte di sostentamento. Come agire da parte della autorità? Quali criteri per procedere in giudizio? La prima preoccupazione che deve avere l’autorità è la salvezza delle anime, ovvero evitare che il delitto si ripeta, che ci sia la “recidività”.
In conseguenza è necessario capire se il sacerdote che ha commesso il delitto sia consapevole della gravità della sua azione, e sia disponibile ad un cammino di guarigione spirituale, psicologico e umano. In questo caso l’autorità può agire per misericordia, ossia dare al sacerdote una penitenza che consista in un cammino di recupero di alcuni anni, e le limitazioni nell’esercizio del ministero, come ad esempio la revoca della Facoltà di confessare o di celebrare la Santa Messa in pubblico.
Se invece nel procedimento si evince che il sacerdote è recidivo, non ha intenzione di ammettere le sue responsabilità, non è consapevole del male arrecato alla Chiesa e alle vittime, e di conseguenza non è ben disposto ad accogliere un cammino di recupero e di conversione, a quel punto l’autorità ha il dovere di procedere con la pena più severa che è la Dimissione dallo stato clericale e dall’Ordine religioso.
La misericordia dunque non è per tutti? Certamente si, ma non è vera misericordia la tolleranza verso le “persone corrotte”, ossia coloro che familiarizzano con il peccato fino a viverlo con abitudine reiterata, tanto che hanno la coscienza obnubilata, incapace di giudizio sereno e agire corretto. La persona corrotta non cerca affatto la Misericordia divina, ma la complicità, la connivenza, l’omertà. In questi casi il Superiore deve agire con fermezza, e se necessario con coraggio.
Come il buon Pastore, deve proteggere la comunità cristiana, ossia l’Ordine religioso e le comunità dei fedeli, e ammettere che il sacerdote non è né idoneo né degno per esercitare il Sacramento, e dunque suo malgrado, è tenuto a procedere con la Dimissione. Fino ad alcuni anni fa, immerso nella quiete di una parrocchia dinamica e serena, vagamente immaginavo dell’esistenza di questi procedimenti. Arrivato a Roma ho potuto sperimentare la delicatezza di certe procedure, l’importanza del relazionarsi con fratelli che hanno commesso gravi delitti per la propria debolezza, ed hanno bisogno di aiuto, sebbene non ne siano a volte neppure consapevoli. Tutti noi pensiamo che sia sempre l’altro a sbagliare, ma quando ci si avvicina ad un confratello che ha compiuto un delitto grave, ci si accorge che potrebbe capitare a tutti un momento di debolezza e fragilità, o avere le problematiche psicologiche e affettive che motivano comportamenti gravemente delittuosi.
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Maurizio Di Paolo, OFMConv, è procuratore generale dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali
Fonte: San Bonaventura informa