domenica 26 giugno 2016

Guida ai tempi delle rovine



di Luigino Bruni
L’incontro con i profeti è una tappa fondamentale nel cammino spirituale e morale della persona. Molti vivono e muoiono senza raggiungere questo incontro, come molti uomini e donne terminano la propria esistenza senza aver fatto una esperienza di bellezza di fronte ad un’opera d’arte, senza aver letto una poesia, senza aver sentito il respiro dell’universo in una notte stellata, senza essersi mai innamorato, senza aver recitato una preghiera, senza aver mai lavorato. Si può vivere anche senza tutto questo, anche senza Leopardi, Fernando Pessoa e Shakespeare, ma la vita allarga i suoi orizzonti e attinge a falde più profonde quando riusciamo a incontrare questi e i tanti altri doni spirituali disseminati nel mondo, che sono lì anche per noi. Tutto ciò è solo grazia, tutta gratuità, non c’è nessun merito. Per questa ragione, la prima e più vera esperienza che facciamo quando riceviamo questi grandi doni, è sentire nella carne il dolore per i tanti, troppi, uomini e donne che restano esclusi da questa gratuità, e senza alcuna colpa. L’esistenza umana è anche, forse soprattutto, un processo di scoperta della gratuità che ci circonda, spesso ricoperta da involucri di dolore, una caccia ai tesori che terminerà solo con la morte, neanche un solo attimo prima (e uno dei doni più grandi sarà scoprire di avere imparato a morire, e non lo sapevamo).


Molti, quasi tutti, vivono senza incontrare Isaia. Anche il suo libro è un puro, grandissimo dono, da millenni custodito nel cuore della Bibbia, in compagnia degli altri profeti. Basterebbe anche un solo capitolo di questo libro per non smettere mai di ringraziare gli antichi scribi e cantori per aver salvato i testi biblici da assedi, persecuzioni, incendi, deportazioni, stermini. Solo l’esperienza del valore assoluto della parola poteva proteggere dal fuoco e dalla spada quelle fragilissime parole scritte. Avendo soltanto la parola, l’hanno potuta salvare. L’umanesimo biblico non si svela senza i profeti. Ci resta precluso senza Isaia, che tra i profeti svetta nella sua immensità. Isaia è una cima massima del genio umano. Le sue pagine più belle non dovrebbero mancare da nessuna antologia di letteratura per la scuola, dove resta invece totalmente escluso per una radicale mancanza di laicità vera, in una cultura troppo di pianura per poter vedere e anelare le vette. Senza Isaia non capiamo Cristo, neanche i personaggi del suo presepe (Isaia 1,3). I Vangeli sono stati scritti sul retro del rotolo di Isaia, e se lo dimentichiamo li trasformiamo in una raccolta di testi morali o una collezione di miracoli.

La profezia biblica è un "bene comune" dell’umanità di tutti i tempi. Tutti i profeti sono potatura, concime, sarchiatura, mietitura, raccolto, vendemmia, dello spirito e quindi della vita, che è vita umana perché spirituale. Tutti lo sono, ma prima e sopra tutti lo è Isaia. La sua meditazione è un esercizio prezioso per trovare o ritrovare il senso e la verità dell’anima, della salvezza, per cominciare o ricominciare a sperare dopo le distruzioni, le rovine, i lutti, le speranze vane e le false consolazioni che accompagnano sempre questi eventi. Accanto alla grandezza, bellezza e poesia di Isaia resistono in pochi. Giobbe è certamente tra questi, anche perché come Isaia ci aiuta molto a comprendere che cosa Dio non è e non deve diventare se non vogliamo trasformarlo in un idolo nel quale credere o non credere (come ci sono molti credenti di idoli, ci sono anche molti non-credenti di idoli).
Il libro di Isaia è più grande del testo scritto da Isaia «figlio di Amoz» (Isaia 1,1). Il testo che è giunto fino a noi è il frutto di molte mani. Tre sono ormai note come quelle del primo (capitoli 1-39), del secondo (40-55) e del terzo Isaia (56-66). Ma per circa due secoli (tra l’VIII e il VI secolo avanti Cristo) una tradizione profetica ha ripreso il primo testo, lo ha arricchito facendolo dialogare con le vicende delle varie stagioni della storia di Israele e dei popoli vicini, e così lo ha reso sempre più poetico, geniale, immenso. Come è accaduto per molti grandi testi del genio umano, al termine di questo lungo processo di creazione ci siamo ritrovati con un’opera collettiva eccedente il genio del suo primo autore. L’Isaia dopo Isaia ama e arricchisce il Libro di Isaia.


È scrivendo parole più grandi degli autori dei libri che lo spirito ha ispirato la parola biblica, e tante altre parole umane. Non è necessaria l’azione di molte mani per rendere un testo grande, spesso ne basta una buona; ma per i testi biblici l’azione collettiva accresce la forza della parola, la fa diventare comunità, edifica l’ekklesia. Questa azione corale non si è mai arrestata, perché quei testi continuano ad arricchirsi tutte le volte che qualcuno tenta un nuovo commento, osa scrivere una nota, usa quelle parole per imparare a pregare. È stata questa libertà spirituale di emendare, di aggiornare, di "toccare" i testi, anche quelli immensi di Isaia, che ha fatto sì che in Israele la parola non sia diventata idolo - e poteva diventarlo, dato il suo valore assoluto.


Il libro inizia con lsaia che chiama il cielo e la terra (1,2) come testimoni per l’accusa di corruzione che YHWH, tramite la stessa parola di Isaia, inizia a rivolgere al suo popolo: «Che me ne faccio di tanti sacrifici? - dice il Signore. Sono stufo degli olocausti di montoni e del grasso di grassi vitelli. … Smettete di presentare offerte inutili. Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue» (1, 11-15). Come Qohelet, Isaia ci dice semplicemente che i sacrifici sono inutili e sciocchi. E sono inutili e sbagliati non perché vengono offerti senza essere giusti, ma perché sono sbagliati e basta.


E lo dice all’inizio del suo canto, perché sa che non potrà annunciare la parola se prima non libera il campo dall’idea errata di Dio, affamato di sacrifici, che agisce dentro la logica contabile del dare e dell’avere. Ogni riforma religiosa inizia negando il dio economico, il dio commerciante con gli uomini, cacciando il mercato dal tempio.


I profeti non sono equilibrati, né tantomeno educati e prudenti. Diversamente da noi, loro non terminano le loro critiche e le loro accuse con i "comunque" e gli "anche se …", al fine di smorzare con il buon senso la forza della loro denuncia. Sono sempre di parte, esagerati, eccessivi. Qui Isaia non dice, come forse vorremmo, "comunque i sacrifici vanno fatti, al tempio occorre andare". No, Isaia non cede al buon senso religioso del suo tempo/tempio, e resiste nella sua denuncia di parte. La prima fatica della profezia è non concedere nulla al buon senso e alla prudenza: se i profeti smorzano la forza delle loro denunce anto-censurandosi per non apparire eccessivi o imprudenti, o per non essere troppo sconvenienti nei confronti delle istituzioni oggetto delle loro critiche, rinnegano la loro vocazione. L’unico modo che i profeti hanno di amare il loro popolo, incluse le istituzioni e i capi, è non attenuare la forza radicale ed eccessiva della parola. Il buon senso, la prudenza e la moderazione sono le virtù delle istituzioni, non quelle dei profeti. Ma senza l’eccesso e l’imprudenza dei profeti, le istituzioni diventano tristi uffici di burocrati, il potere solo sopruso, i poveri non si vedono più e restano abbandonati nelle periferie. I profeti con la loro voce ci fanno vedere ciò che i potenti non riescono a vedere o che non vogliono vedere. Tutti i profeti. Soprattutto Isaia.
Per sperare di poter incontrare veramente Isaia - i grandi incontri della vita non possono essere programmati: possiamo solo sperarli e attenderli -, è necessario iniziare la sua lettura come fossimo nati oggi. Dobbiamo far di tutto per cercare di liberarci dalle ideologie religiose e anti-religiose con le quali siamo cresciuti e con le quali abbiamo costruito il senso del nostro stare al mondo. Isaia è un dono per tutti, ma lo è soprattutto per chi non ha mai creduto e, soprattutto, per chi non crede più pur desiderando ancora di credere. Il suo è un canto aurorale, una brezza dell’alba, una stella mattutina. È una introduzione alla vita nel tempo delle rovine, di ogni rovina e in ogni tempo.


Nel corso dei secoli molti hanno cominciato o ricominciato a credere, a sperare, ad amare insieme ad Isaia. Dovremmo avvicinarlo ignoranti delle parole della nostra religione e della nostra non-religione. Iniziare a leggerlo come se non avessimo mai ascoltato la parola "Dio". Tornare "nel principio", aprire gli occhi, e insieme all’Adam sentire risuonare per la prima volta nel mondo la parola: "Elohim". Sperimentare la forza originaria e assoluta di quella parola, pronunciata per noi da uno che l’ha "vista" (Isaia 2,1). I profetivedono la parola che poi dicono perché anche noi vediamo.


È questa la possibilità per poter vedere sulla terra un Dio che non si può vedere, perché se lo vediamo è semplicemente un idolo. I sensi della parola sono le orecchie e gli occhi. La parola che i profeti ci annunciano non èvanitas, non è soffio, non è fiato, non è vento né nebbia: è carne.
Isaia è allora il profeta del nostro tempo. Abbiamo dimenticato le prime parole, lo sappiamo. Ma questa immensa povertà può diventare la nostra ricchezza: possiamo fare l’esperienza di ascoltarle per la prima volta. E poi reimparare ad ascoltare la vita.
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