domenica 19 giugno 2016

Il controcanto dei profeti



Luigino Bruni

La condizione naturale del profeta è l’insuccesso. Sono i falsi profeti a essere ascoltati e seguiti, a rispondere perfettamente alle aspettative del loro tempo. L’essere seguiti, raggiungere fama e onori, è sempre stato un segno inequivocabile di falsa profezia – e continua a esserlo. I veri profeti, invece, sono sempre fuori tempo, scomodi, antipatici, fastidiosi. Chiedono e gridano la difesa dei poveri, degli oppressi, delle vedove, degli orfani, lottano contro l’idolatria; e mentre lo fanno continuano a vivere in una società dove i poveri sono calpestati e sfruttati, dove gli idoli si moltiplicano. Come risposta alla loro denuncia incontrano persecuzioni, lapidazioni, e non di rado sono messi in carcere e uccisi. Conoscere e ripercorrere la storia dei profeti, di ieri e di oggi, è un grande insegnamento sulle dinamiche del potere, e quindi sulla natura di tutte le ideologie che, nella loro essenza, sono strumenti prodotti dalla classe dominante per accrescere potere e privilegi.
I profeti veri non amano la loro condizione di profeta. Non la scelgono, e se potessero farebbero altro. Però – e qui sta l’essenza di questa specifica vocazione – non possono scegliere. Non riescono a fuggire, anche se ci provano. I profeti non sono né migliori né peggiori di tutti gli altri: sono semplicemente diversi. Alcuni hanno addirittura pensato, e continuano a pensare, che i profeti siano inutili se non dannosi, perché le loro parole sono vanitas che non trasforma il mondo. Finiscono per illudere i poveri e gli emarginati promettendo una salvezza che non viene mai. Alcuni, molti, lo pensano. Ma si sbagliano. I profeti non conoscono soltanto l’incomprensione da parte del popolo, dovuta al loro "canto" in controtempo. C’è anche la persecuzione deliberata e intenzionale da parte di chi li comprende molto bene, e per questo li combatte. I Faraoni e gli Erode riconoscono e conoscono i profeti, e per questo li temono più di ogni altra cosa. C’è, però, qualcuno che crede e ama i profeti. Sono i poveri, gli oppressi, gli umili, gli scartati, i lebbrosi. E non soltanto perché vedono nel profeta una speranza di riscatto dalla loro condizione ingiusta, ma perché si trovano nelle condizioni antropologiche e spirituali per capire la loro voce. Il Regno dei cieli è solo dei «poveri» e dei «perseguitati a causa della giustizia» perché nella loro condizione riescono a vederlo, a capirlo, a desiderarlo.
I potenti, invece, amano molto i falsi profeti, fino ad adorarli. Sono loro devoti adulatori, perché la falsa profezia confonde la coscienza collettiva e legittima le posizioni di potere. Ieri e oggi sul mercato abbondano intellettuali, scrittori, a volte uomini religiosi, che generano teorie e ideologie al solo scopo di giustificare il potere di chi li sostiene e li alimenta. Quando è troppo costoso o non conveniente eliminare direttamente i profeti, i potenti lo fanno indirettamente, assoldando i falsi profeti. Si comportano così come quelle piante che per difendersi dagli attacchi di alcuni insetti, generano odori e sostanze per attirare altri insetti predatori di quelli che li stanno minacciando. La principale virtù di chi si trova a svolgere una qualche funzione profetica è allora la capacità di resilienza e di resistenza nel perseverare nella condizione di frustrazione per il non ascolto delle parole che per vocazione si trova a pronunciare. Soprattutto quando i tempi diventano lunghi, le persecuzioni non hanno tregua, e la parola profetica deve continuare a essere pronunciata. Ma perché il profeta continua a dire la sua parola se non vede la fine delle ingiustizie né l’avvento di un nuovo regno dei poveri? Non certamente perché spera di convertire i potenti. Sa molto bene – o lo impara diventando adulto – che i faraoni sono inconvertibili. Non spera neanche nelle rivoluzioni dei poveri, perché sa che una volta diventati potenti, i poveri di oggi si comporteranno esattamente come coloro che ieri li opprimevano. Né sono uomini e donne delle riforme dei piccoli passi, che cercano un miglioramento graduale sul piano del possibile, qui ed ora. Questa visione riformista, altrettanto importante e co-essenziale, è quella delle (buone) istituzioni, non quella dei profeti. Il loro annuncio è troppo diverso dallo status quo, e nessun miglioramento marginale potrebbe rispondere adeguatamente alla loro profezia. Sono eterni insoddisfatti. Perché quello che annunciano è un regno troppo giusto, un Dio troppo vicino, un uomo troppo diverso. Ma la profezia non va confusa con l’utopia, perché a differenza della parola utopica (che spesso viene prodotta per distrarre da quella dei profeti), la denuncia profetica è sempre concreta. Chiama le persone per nome, fa azioni puntuali, compie gesti visibili usando i "vasi" e i "gioghi" di tutti. È un "già" che indica un "non ancora". Per questa ragione la parola dei profeti è sempre tradita, la terra promessa non è mai raggiunta, e la loro esistenza è segnata da una costante e crescente sensazione certa di fallimento e di sofferenza.
Per capire veramente che la felicità non è la cosa più importante nella vita, occorre conoscere i profeti. Il profeta non è felice, semplicemente perché la felicità non gli interessa. Non capirebbe né saprebbe rispondere alla domanda: "Sei felice?". Vuole soltanto restare una "voce che grida nel deserto", senza aspettare né sperare di vedere il deserto fiorito. I veri profeti gridano sempre nel deserto, e il molto caldo e la molta sete non riescono a zittire la loro voce. E quando vedono qualche segno di primavera, si chiedono se quei germogli non sono altro che il segno che la loro voce ha perso verità e profezia. Perché, allora, il profeta continua a parlare, a gridare, a perdere salute, benessere e non di rado la stessa vita? Semplicemente perché non può non farlo. È abitato da un mistero che non possiede, non conosce, che non gli ubbidisce. Ma se non dà voce a quella voce, muore davvero. È questo il triste e meraviglioso destino dei profeti. La splendida vicenda di Giona, nella radicale semplicità del suo genere letterario unico e paradossale, è tra le più rivelatrici dell’essenza di questa dimensione della vocazione profetica (le dimensioni della vocazione profetica sono molte, e non è affatto semplice ricondurle tutte a unità). Giona, come accade sovente ai profeti (Mosè, Geremia, Elia...), non risponde subito alla vocazione. Quando Giona riceve la prima chiamata a profetizzare su Ninive, fugge e si imbarca su una nave nella direzione opposta. Dopo essersi miracolosamente salvato dal naufragio (grazie al pesce), risponde alla seconda chiamata di JHWH e porta il suo messaggio alla grande città: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta» (3,4). E, evento eccezionale, la città di Ninive e il suo re si pentono e si convertono totalmente e immediatamente. Osservata la conversione, Dio cambia idea e non distrugge più Ninive, operando diversamente da quanto aveva detto per mezzo di Giona. Nessun profeta è il padrone della parola che deve annunciare per chiamata. Sa che Dio non si lascia ingabbiare neanche dalla profezia, che Lui stesso mette sulla bocca dei profeti.
L’aspetto più misterioso della storia di Giona è la sua delusione e rabbia di fronte al pentimento di Dio: «Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. Disse al Signore: "Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!"» (4,1-3). Questo dolore e questa indignazione di Giona possono dirci qualcosa di molto importante. I profeti sono i grandi amanti della parola. Per questo sono i suoi custodi. Come le donne e le madri sono le esperte e le custodi del corpo, i profeti lo sono della parola. Vivono solo di questo, non sanno fare altro. Ma non sono soltanto amanti e custodi delle parole che dicono: ne sono anche i grandi difensori. Nei confronti degli uomini, ma, ci dice Giona, sono difensori della parola anche nei confronti di JHWH. Siccome non ne sono i padroni, ne possono essere – e ne sono – i protettori. Più di un artista che custodisce la propria opera, il primo compito del profeta è proteggere la parola, anche quando il mittente della parola cambia idea. Se non lo facesse, la parola che annuncia presto si logorerebbe e si svuoterebbe. I profeti possono e difendere la parola di Dio da Dio stesso. La parola è sempre una cosa molto seria: i profeti hanno il compito di ricordarlo a tutti, anche a Dio, pur sapendo che non saranno ascoltati. Se i profeti non amassero la parola che annunciano più di loro stessi, sarebbero falsi profeti, mestieranti di una parola che vendono e non servono. Il paradosso della fine della storia di Giona si apre solo se prendiamo radicalmente sul serio la profezia, e non la trasformiamo in una faccenda soltanto etica o religiosa. La fedeltà alla parola di Dio è per il profeta più radicale dell’obbedienza a Dio stesso. È in questa fedeltà-obbedienza paradossale che il profeta vero è veramente fedele.
Chiunque nella vita abbia avuto un compito, svolgendolo con responsabilità, può intuire questa dimensione misteriosa e paradossale di ogni vocazione. I suoi momenti più preziosi e cruciali sono stati quelli quando ha dovuto proteggere quel compito e quell’opera proprio nei confronti di chi gliela aveva affidata. Continuare a crederci anche quando chi lo aveva "chiamato" non parlava più, o aveva cambiato idea. È su questa fedeltà tremenda e meravigliosa che si gioca molto della verità di un’intera esistenza. Anche per questa loro strana fedeltà non è facile capire i profeti. Ma non è impossibile. Dobbiamo almeno provarci. E così, dopo aver commentato negli anni scorsi Genesi, Esodo, Giobbe e Qohelet, da domenica prossima inizieremo a conoscere il primo profeta scrittore, forse il più grande di tutti: Isaia. E comincerà un nuovo cammino ora imprevedibile, certamente fantastico. Insieme.
l.bruni@lumsa.it