mercoledì 8 giugno 2016

Il ruolo del cristiano in un mondo segnato dall’odio.



Anticipiamo un ampio stralcio dal libro del cardinale presidente del Pontificio Consiglio della cultura «Le beatitudini. Il più grande discorso all’umanità di ogni tempo» (Milano, Mondadori, 2016, pagine 209, euro 19).
(Gianfranco Ravasi) «La pace è per il mondo quello che il lievito è per la pasta». Questa bella comparazione del Talmud, il testo che raccoglie l’eredità spirituale e culturale della tradizione giudaica, può idealmente introdurci nella settima beatitudine dedicata agli eironopoioí, gli artefici, gli operatori, i costruttori dell’eiréne, la «pace».

È curioso notare che questo aggettivo sostantivato risuona soltanto qui in tutto il Nuovo Testamento, così come accade per il verbo che lo genera, eirenopoieîn, «costruire, edificare la pace», applicato solo all’opera di redenzione di Cristo nell’inno che apre la Lettera di Paolo ai Colossesi (1, 20), mentre il vocabolo eiréne appare ben 99 volte, così come il famoso equivalente ebraico shalôm echeggia 245 volte nell’Antico Testamento.
Il cristiano dovrebbe essere come un’oasi di pace in un mondo striato dal sangue dell’odio e della guerra. È ciò che rappresentavano, ad esempio, i monaci martiri di Tibhirine in Algeria secondo la testimonianza di una musulmana nel film Uomini di Dio (2010) di Xavier Beauvois: «Noi siamo gli uccelli, voi i rami sui quali riposiamo in pace». Infatti, come scriveva san Paolo ai cristiani di Roma, «il Regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Romani 14, 17). E anche per l’antica tradizione giudaica erano tre le vie che conducono al Regno di Dio: «Onorare il padre e la madre, praticare la misericordia e riportare la pace tra un uomo e il suo prossimo» (Mishnah, Pe’a 1, 1).
Purtroppo, però, la storia umana è segnata costantemente dal sangue di guerre e di violenze e la Bibbia, che è la rivelazione di Dio nella storia e sulla storia, non può non essere attraversata dalle battaglie e dalle ingiustizie: almeno seicento passi evocano guerre e uccisioni e oltre mille descrivono l’ira divina giudicatrice sul male perpetrato dall’umanità. Eppure il progetto divino, descritto nel capitolo 2 della Genesi, comprendeva una triplice e perfetta armonia dell’uomo con Dio, con la natura e col proprio simile (la donna).
Anzi, la meta verso cui converge l’intero itinerario della storia è, per la Bibbia, la pace messianica, lo shalôm (in arabo salam), l’eiréne neotestamentaria. La concezione dello shalôm è poliedrica, perché il vocabolo nella sua radice suppone qualcosa di «compiuto, perfetto» e, allora, la pace biblica comprende non solo l’assenza della guerra ma anche benessere, prosperità, giustizia, gioia, pienezza di vita. Come diceva il Salmo 85, 11 «giustizia e pace si baceranno», mentre il filosofo ebreo olandese Baruc Spinoza nel suo Trattato telogico-politico (1670) affermava giustamente che «la pace non è assenza di guerra soltanto, è una virtù, uno stato d’animo che dispone alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia».
Emblematica in questo senso è la proclamazione angelica del Natale di Gesù: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Luca 2, 14). Terra e cielo sono uniti in un’armonia d’amore, come aveva annunziato Isaia in quell’affresco in cui gli animali tra loro ostili si sarebbero rappacificati con l’arrivo del re-Emmanuele messianico (11, 6-8). Il volere della parola di Dio è, infatti, che tutti i popoli abbiano a «forgiare le loro spade in vomeri, le loro lance in falci e che un popolo non alzi più la spada contro un altro popolo e non si esercitino più nell’arte della guerra» (Isaia 2, 4). Il re messianico per primo è colui che fa sparire carri e cavalleria, infrange l’arco di guerra e «annunzia pace a tutte le genti» (Zaccaria 9, 10).
È significativo registrare un dato biblico costante: il nome simbolico di Dio, del Messia e di Cristo è proprio «pace», per cui si intuisce che questa realtà è per eccellenza dono divino, essendo qualità personale di Dio, che la irradia sull’umanità. Infatti la definizione che una delle guide d’Israele durante il periodo dei Giudici, Gedeone, impone all’altare da lui eretto è proprio Jhwh-shalóm, «il Signore è pace» (Giudici 6, 24) e Isaia chiama il Signore con l’equivalente ebraico del termine greco eironopoiós usato dalla nostra beatitudine: egli è ’aseh shalôm, «operatore, artefice, costruttore di pace» (Isaia 45, 7). Attraverso la benedizione dei sacerdoti egli irradia la pace sul popolo: «Il Signore rivolga su te il suo volto e ti conceda pace» (Numeri 6, 26). Una pace che si effonde su tutto l’orizzonte umano, a partire da coloro che sono destinatari di una beatitudine evangelica, i sofferenti, per allargarsi a tutti i popoli della terra: «A quanti sono afflitti io pongo sulle loro labbra: Pace! Pace ai lontani e ai vicini!» (Isaia 57, 18-19).
Anche il Messia ha come titolo «Principe della pace» (Isaia 9, 5) ed è per questo, come si diceva, che il suo avvento vede la nascita di un mondo pacificato e armonico. In esso si attua quel progetto che il Creatore aveva in mente al momento della creazione e che è descritto simbolicamente nel «paradiso» primordiale (Genesi 2). La libertà umana ha sfregiato e infranto questo disegno di armonie tra lo stesso Dio e l’umanità, tra l’uomo e la donna, tra le creature umane e il mondo. Il Messia è colui che ripropone questo progetto, restaurando le rovine della storia in un disegno finale escatologico. È ciò che il Nuovo Testamento vede instaurarsi nel Regno di Dio annunciato da Gesù.
È per questo che Cristo riceve da san Paolo il nome di «pace»: « Egli è la nostra pace, che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia... per creare in se stesso dei due un solo uomo nuovo facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo ... distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Efesini 2, 14-17). Per questo l’Apostolo — che usa le definizioni «Dio della pace» (1 Tessalonicesi 5, 23) «Signore della pace» (2 Tessalonicesi 3, 16), e paria della «pace di Die» (Filippesi 4, 7) — evoca la «via della pace» (Romani 3, 17), proclama il «vangelo della pace» (Efesini 6, 15) e rivolge ai cristiani questo augurio: «La pace di Cristo regni sovrana nei vostri cuori» (Colossesi 3, 15).
In questa luce la missione di Cristo è quella di «riconciliare in sé tutte le cose, edificando pace con il sangue della sua croce» (Colossesi 1, 20). È dunque dalla Pasqua che si effonde sull’intera umanità e su tutto il creato la pace divina. ll frutto dello Spirito del Cristo risorto è amore, gioia, pace (Galati 5, 22) perché «le aspirazioni dello Spirito sono vita e pace» (Romani 8, 6). È così che la Chiesa diventa segno di unità e di pace tra i popoli, come appare nella scena di Pentecoste allorché in tutte le lingue e culture si cancella la divisione babelica (Atti degli Apostoli 2; cfr. Genesi 11). La meta ultima della storia umana si compirà quando «una moltitudine immensa di ogni nazione, razza, popolo e lingua» intonerà insieme l’inno della salvezza (Apocalisse 7, 9-10) e tutti finalmente ascolteranno «ciò che dice il Signore Dio: egli parla di pace» (Salmi 85, 9).
Gli artefici di pace ricevono secondo la nostra beatitudine un titolo glorioso, hyioí Theoú, «figli di Dio», un appellativo tipico dei giusti biblici (Sapienza 2, 13.18). Cerchiamo allora di approfondire sinteticamente questo epiteto che ha molte sfumature di significato nelle pagine sacre. Quando i cristiani sentono l’espressione «figlio di Dio», spontaneamente ricorrono alla figura di Cristo e questo è basato sullo stesso Nuovo Testamento, anche a livello statistico: Gesù è proclamato «Figlio di Dio» per 31 volte nei tre Vangeli sinottici, per 23 volte in Giovanni, per 42 volte nel corpo delle varie Lettere neotestamentarie, per 3 negli Atti degli Apostoli e per un’ultima volta nell’Apocalisse. C’è, dunque, una specifica attribuzione cristologica a un titolo che ha, però, una storia precedente e susseguente.
Cominciamo con ciò che sta alle spalle di Cristo. Nell’Antico Testamento la locuzione «figli di Dio» rivestiva un valore più generico, tant’è vero che era comunemente assegnata agli angeli (si legga, ad esempio, Giobbe 1, 6; 2, 1; 38, 71. Ma «figli di Dio» erano anche gli Israeliti, come dichiara lo stesso Signore proprio agli esordi della vicenda della liberazione esodica dalla schiavitù egizia: «Israele è il mio figlio primogenito!» (Esodo 4, 22). È, questa, una conseguenza del ritratto di Dio secondo i lineamenti paterni: «Quando Israele era giovinetto» confessa il Signore al profeta Osea «io l'ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio ... Io gli insegnavo a camminare tenendolo per mano» (Osea 11, 1.3).
Proprio perché è padre, Dio deve impegnarsi a liberare il figlio schiavo, espletando quella funzione paterna che è detta in ebraico del go’el, del «redentore», colui che riscatta e libera. Ma c’è un passo ulteriore da compiere: «figli di Dio» possono essere definiti anche i singoli ebrei. È il caso del re davidico nei cui confronti il Signore dichiara: «Io lo costituirò mio primogenito»; «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato» (Salmi 89, 28 e 2, 7). È una sorta di adozione ufficiale che legittima la funzione di luogotenente divino riconosciuta al sovrano davidico. Ma c’è anche una figliolanza divina che viene riconosciuta al semplice fedele «che si dichiara figlio del Signore... e si vanta di aver Dio per padre» (Sapienza 2, 13.16). E «se il giusto è figlio di Dio, egli l’assisterà», e nel giorno del giudizio il fedele sarà «considerato tra i figli di Dio» (2, 18; 5, 5).
È pronto, così, il passaggio al Nuovo Testamento e alla via susseguente alla proclamazione di Cristo come «figlio di Dio». Infatti, è per opera sua che anche i cristiani possono diventare figli adottivi di Dio, come sottolinea san Paolo e come vedremo subito, ricorrendo proprio al titolo giuridico dell’hyiothesía, cioè dell’adozione. Nel Figlio diveniamo anche noi figli, sia pure a un livello diverso. È per questo che san Giovanni usa due diversi vocaboli greci per indicare il Figlio per eccellenza, Cristo, che è l’hyiós unigenito, e i figli che siamo noi, i tékna.
Questa nostra filiazione è reale anch’essa, ha un segno vivo in noi per cui «gli artefici di pace» possono essere a ragione chiamati «figli di Dio», come appunto si dichiara nella nostra beatitudine. Infatti, se — come si è già visto — il nome di Dio e di Cristo è «pace», tutti coloro che si impegnano a edificare il Regno divino di pace e di giustizia sono a ragione figli del Dio della pace. Inoltre, «tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi ma uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abba’, Padre! Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio e, se figli, siamo anche eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Romani 8, 14-17).

L'Osservatore Romano