domenica 26 giugno 2016

Incontro Ecumenico e Preghiera per la Pace, nella Piazza della Repubblica di Yerevan. Discorso del Santo Padre



Incontro Ecumenico e Preghiera per la Pace, nella Piazza della Repubblica di Yerevan. Discorso del Santo Padre. 
"L’unità non è infatti un vantaggio strategico da ricercare per mutuo interesse, ma quello che Gesù ci chiede e che sta a noi adempiere con la buona volontà e con tutte le forze, per realizzare la nostra missione: donare al mondo, con coerenza, il Vangelo" 

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-"Voglio ribadire che le vostre sofferenze ci appartengono: «sono le sofferenze delle membra del Corpo mistico di Cristo» (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica in occasione del 1700° anniversario del Battesimo del Popolo armeno: Insegnamenti XXIV, 1 [2001], 275); ricordarle non è solo opportuno, è doveroso: siano un monito in ogni tempo, perché il mondo non ricada mai più nella spirale di simili orrori!"
-"Cari giovani, questo futuro vi appartiene: facendo tesoro della grande saggezza dei vostri anziani, ambite a diventare costruttori di pace: non notai dello status quo, ma promotori attivi di una cultura dell’incontro e della riconciliazione"

 Alle ore 18 di ieri, nella Piazza della Repubblica di Yerevan, ha luogo l’Incontro Ecumenico e la Preghiera per la Pace. È presente il Presidente della Repubblica. Nel corso della celebrazione in armeno e in italiano, dopo la recita del “Padre Nostro” (ognuno nella propria lingua) e le letture, Sua Santità Karekin II pronuncia un discorso a cui fa seguito quello del Santo Padre Francesco. Pubblichiamo di seguito il discorso del Santo Padre:

Discorso del Santo Padre
Venerato e carissimo Fratello, Supremo Patriarca e Catholicos di Tutti gli Armeni, Signor Presidente, cari fratelli e sorelle,
la benedizione e la pace di Dio siano con voi!
Ho tanto desiderato visitare questa terra amata, il vostro Paese che per primo abbracciò la fede cristiana. È una grazia per me trovarmi su queste alture, dove, sotto lo sguardo del monte Ararat, anche il silenzio sembra parlarci; dove i khatchkar – le croci di pietra – raccontano una storia unica, intrisa di fede rocciosa e di sofferenza immane, una storia ricca di magnifici testimoni del Vangelo, di cui voi siete gli eredi. Sono venuto pellegrino da Roma per incontrarvi e per esprimervi un sentimento che sale dalle profondità del cuore: è l’affetto del vostro fratello, è l’abbraccio fraterno della Chiesa Cattolica intera, che vi vuole bene e vi è vicina.

Negli anni scorsi le visite e gli incontri tra le nostre Chiese, sempre tanto cordiali e spesso memorabili, si sono, grazie a Dio, intensificati; la Provvidenza vuole che, proprio nel giorno in cui qui si ricordano i santi Apostoli di Cristo, siamo nuovamente insieme per rinforzare la comunione apostolica fra di noi. Sono molto grato a Dio per la «reale ed intima unità» fra le nostre Chiese (cfr Giovanni Paolo II, Celebrazione ecumenica, Yerevan, 26 settembre 2001: Insegnamenti XXIV, 2 [2001], 466) e vi ringrazio per la vostra fedeltà al Vangelo, spesso eroica, che è un dono inestimabile per tutti i cristiani. Il nostro ritrovarci non è uno scambio di idee, è uno scambio di doni (cfr Id., Lett. enc. Ut unum sint, 28): raccogliamo quello che lo Spirito ha seminato in noi, come un dono per ciascuno (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 246). Condividiamo con grande gioia i tanti passi di un cammino comune già molto avanzato, e guardiamo davvero con fiducia al giorno in cui, con l’aiuto di Dio, saremo uniti presso l’altare del sacrificio di Cristo, nella pienezza della comunione eucaristica. Verso quella meta tanto desiderata «siamo pellegrini, e peregriniamo insieme […] affidando il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze» (ibid., 244).
In questo tragitto ci precedono e accompagnano molti testimoni, in particolare i tanti martiri che hanno sigillato col sangue la comune fede in Cristo: sono le nostre stelle in cielo, che risplendono su di noi e indicano il cammino che ci resta da percorrere in terra, verso la comunione piena. Tra i grandi Padri, vorrei riferirmi al santo Catholicos Nerses Shnorhali. Egli nutriva un amore straordinario nei confronti del suo popolo e delle sue tradizioni, ed era al contempo proteso verso le altre Chiese, instancabile nella ricerca dell’unità, desideroso di attuare la volontà di Cristo: che i credenti «siano una sola cosa» (Gv 17,21). L’unità non è infatti un vantaggio strategico da ricercare per mutuo interesse, ma quello che Gesù ci chiede e che sta a noi adempiere con la buona volontà e con tutte le forze, per realizzare la nostra missione: donare al mondo, con coerenza, il Vangelo.
Per realizzare la necessaria unità non basta, secondo san Nerses, la buona volontà di qualcuno nella Chiesa: è indispensabile la preghiera di tutti. È bello essere qui radunati per pregare gli uni per gli altri, gli uni con gli altri. Ed è anzitutto il dono della preghiera che io sono venuto stasera a domandarvi. Da parte mia, vi assicuro che, nell’offrire il Pane e il Calice all’altare, non manco di presentare al Signore la Chiesa di Armenia e il vostro caro popolo.
San Nerses avvertiva anche il bisogno di accrescere l’amore reciproco, perché solo la carità è in grado di sanare la memoria e guarire le ferite del passato: solo l’amore cancella i pregiudizi e permette di riconoscere che l’apertura al fratello purifica e migliora le proprie convinzioni. Per quel santo Catholicos, nel cammino verso l’unità è essenziale imitare lo stile dell’amore di Cristo, che «da ricco che era» (2 Cor 8,9), «umiliò sé stesso» (Fil 2,8). Sul suo esempio, siamo chiamati ad avere il coraggio di lasciare i convincimenti rigidi e gli interessi propri, in nome dell’amore che si abbassa e si dona, in nome dell’amore umile: esso è l’olio benedetto della vita cristiana, l’unguento spirituale prezioso che risana, fortifica e santifica. «Alle mancanze suppliamo con carità unanime», scriveva san Nerses (Lettere del signore Nerses Shnorhali, Catholicos degli Armeni, Venezia 1873, 316), e persino – faceva intendere – con una particolare dolcezza d’amore, che ammorbidisca la durezza dei cuori dei cristiani, anch’essi non di rado ripiegati su sé stessi e sui propri tornaconti. Non i calcoli e i vantaggi, ma l’amore umile e generoso attira la misericordia del Padre, la benedizione di Cristo e l’abbondanza dello Spirito Santo. Pregando e «amandoci intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri» (cfr 1 Pt 1,22), con umiltà e apertura d’animo disponiamoci a ricevere il dono divino dell’unità. Proseguiamo il nostro cammino con determinazione, anzi corriamo verso la piena comunione tra noi!
«Vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Abbiamo ascoltato queste parole del Vangelo, che ci dispongono a implorare da Dio quella pace che il mondo tanto fatica a trovare. Quanto sono grandi oggi gli ostacoli sulla via della pace, e quanto tragiche le conseguenze delle guerre! Penso alle popolazioni costrette ad abbandonare tutto, in particolare in Medio Oriente, dove tanti nostri fratelli e sorelle soffrono violenza e persecuzione, a causa dell’odio e di conflitti sempre fomentati dalla piaga della proliferazione e del commercio di armi, dalla tentazione di ricorrere alla forza e dalla mancanza di rispetto per la persona umana, specialmente per i deboli, per i poveri e per coloro che chiedono solo una vita dignitosa.
Non riesco a non pensare alle prove terribili che il vostro popolo ha sperimentato: un secolo è appena passato dal “Grande Male” che si è abbattuto sopra di voi. Questo «immane e folle sterminio» (Saluto all’inizio della Santa Messa per i fedeli di rito armeno, 12 aprile 2015), questo tragico mistero di iniquità che il vostro popolo ha provato nella sua carne, rimane impresso nella memoria e brucia nel cuore. Voglio ribadire che le vostre sofferenze ci appartengono: «sono le sofferenze delle membra del Corpo mistico di Cristo» (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica in occasione del 1700° anniversario del Battesimo del Popolo armeno: Insegnamenti XXIV, 1 [2001], 275); ricordarle non è solo opportuno, è doveroso: siano un monito in ogni tempo, perché il mondo non ricada mai più nella spirale di simili orrori!
Desidero, al tempo stesso, ricordare con ammirazione come la fede cristiana, «anche nei momenti più tragici della storia armena, è stata la molla propulsiva che ha segnato l’inizio della rinascita del popolo provato» (ibid., 276). Essa è la vostra vera forza, che permette di aprirsi alla via misteriosa e salvifica della Pasqua: le ferite rimaste aperte e causate dall’odio feroce e insensato, possono in qualche modo conformarsi a quelle di Cristo risorto, a quelle ferite che gli furono inferte e che porta ancora impresse nella sua carne. Egli le mostrò gloriose ai discepoli la sera di Pasqua (cfr Gv 20,20): quelle terribili piaghe di dolore patite sulla croce, trasfigurate dall’amore, sono divenute sorgenti di perdono e di pace. Così, anche il dolore più grande, trasformato dalla potenza salvifica della Croce, di cui gli Armeni sono araldi e testimoni, può diventare un seme di pace per il futuro.
La memoria, attraversata dall’amore, diventa infatti capace di incamminarsi per sentieri nuovi e sorprendenti, dove le trame di odio si volgono in progetti di riconciliazione, dove si può sperare in un avvenire migliore per tutti, dove sono «beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). Farà bene a tutti impegnarsi per porre le basi di un futuro che non si lasci assorbire dalla forza ingannatrice della vendetta; un futuro, dove non ci si stanchi mai di creare le condizioni per la pace: un lavoro dignitoso per tutti, la cura dei più bisognosi e la lotta senza tregua alla corruzione, che va estirpata.
Cari giovani, questo futuro vi appartiene: facendo tesoro della grande saggezza dei vostri anziani, ambite a diventare costruttori di pace: non notai dello status quo, ma promotori attivi di una cultura dell’incontro e della riconciliazione. Dio benedica il vostro avvenire e «conceda che si riprenda il cammino di riconciliazione tra il popolo armeno e quello turco, e la pace sorga anche nel Nagorno Karabakh» (Messaggio agli Armeni, 12 aprile 2015).
In quest’ottica vorrei infine evocare un altro grande testimone e artefice della pace di Cristo, san Gregorio di Narek, che ho proclamato Dottore della Chiesa. Egli potrebbe essere definito anche “Dottore della pace”. Così ha scritto in quello straordinario Libro che mi piace pensare come la “costituzione spirituale del popolo armeno”: «Ricordati, [Signore,…] di quelli che nella stirpe umana sono nostri nemici, ma per il loro bene: compi in loro perdono e misericordia. [...] Non sterminare coloro che mi mordono: trasformali! Estirpa la viziosa condotta terrena e radica quella buona in me e in loro» (Libro delle Lamentazioni, 83,1-2). Narek, «partecipe profondamente consapevole di ogni necessità» (ibid., 3,2), ha voluto persino identificarsi con i deboli e i peccatori di ogni tempo e luogo, per intercedere a favore di tutti (cfr ibid., 31,3; 32,1; 47,2): si è fatto «l’offripreghiera di tutto il mondo» (ibid., 28,2). Questa sua solidarietà universale con l’umanità è un grande messaggio cristiano di pace, un grido accorato che implora misericordia per tutti. Gli Armeni, presenti in tanti Paesi e che desidero da qui abbracciare fraternamente, siano messaggeri di questo anelito di comunione, «ambasciatori di pace» (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica in occasione del 1700° anniversario del Battesimo del Popolo armeno, 7: Insegnamenti XXIV, 1 [2001], 278). Il mondo intero ha bisogno di questo vostro annuncio, ha bisogno della vostra presenza, ha bisogno della vostra testimonianza più pura. Kha’ra’rutiun amenetzun! (Pace a voi!)