martedì 21 giugno 2016

La morale dell’amore

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Nuovo tweet del Papa: "I popoli sono i primi artefici del proprio sviluppo, i primi responsabili." (21 giugno 2016)


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La morale della famiglia è la morale dell’amore

L’antropologo Stephan Kampowski, docente al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, spiega il progetto di rilancio della famiglia di papa Francesco, attraverso la Amoris Laetitia
di Giorgia Brambilla*

Perché la famiglia oggi è in crisi? Qual è il rapporto tra la famiglia moderna con realtà come il welfare state o la “rivoluzione biotecnologica”? In che modo, Papa Francesco, in particolare attraverso la sua esortazione apostolica Amoris Laetitia, sta rispondendo a questa crisi? A questa e ad altre domande, ha risposto in esclusiva per ZENIT Stephan Kampowski, docente di antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sulla famiglia e il matrimonio. Il professor Kampowski sarà uno relatori al IX corso internazionale di aggiornamento in bioetica, in programma all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, dal 28 giugno al 9 luglio, durante il quale il docente approfondirà in modo sistematico le tematiche esposte in questa intervista.
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Professor Kampowski, quali sono le reali cause storiche, culturali, ideologiche che rendono il matrimonio poco “desiderabile e attraente”. Secondo l’Amoris Laetitia il problema si può ricondurre in parte all’“ideale teologico” proposto nei secoli dalla Chiesa. In che senso?
Sembra che il problema principale che il Papa vuole affrontare nell’Amoris Laetitia stia nell’odierna crisi della famiglia, una crisi che, tra altro, trova espressione nel fatto che la gente non si sposa più, che il matrimonio e la famiglia non vengono più percepiti come buona novella. Le cause storiche, culturali e ideologiche sono complesse. Potremmo cominciare con l’industrializzazione e la conseguente scissione tra luogo di produzione e luogo di consumo. Una volta, difatti, la famiglia era il luogo principale in cui venivano prodotti i beni e servizi di un Paese. Ricordiamo che la parola “economia” viene dal greco e significa letteralmente “legge della casa” oppure anche “legge della famiglia”. La famiglia oggi ha perso il suo significato per la produzione. Poi, c’è la crescita e, possiamo dire, l’ipertrofia del welfare state che usurpa tante altre funzioni della famiglia, sostituendola nei vari ambiti, in particolare nel fornire la sicurezza sociale. Alla famiglia resta forse ancora il ruolo procreativo e quello educativo, ma anche qui si fanno rapidi “progressi”, per sostituirla tramite le tecniche artificiali della procreazione e con la socializzazione dell’educazione.
La gente di oggi, se sente la parola “famiglia”, non pensa alla produzione economica, alla sicurezza sociale, al rinnovamento della società oppure alla trasmissione di un patrimonio culturale. Al massimo pensa a una culla affettiva. Anche i nostri bisogni emozionali, tuttavia, si lasciano soddisfare in diversi modi. Non a caso la “famiglia affettiva” conosce una grande diversità di configurazioni. Inoltre, non dimentichiamo che ci sono anche forti interessi economici e ideologici che sfidano la famiglia. In economia, i mezzi di produzione di massa sono ormai così potenti che l’unico limite della produzione sembra essere quello del consumo (cfr. Hannah Arendt, Vita activa). Per far crescere l’economia occorre far aumentare i consumi. Gli individui che abitano da soli tendono a consumare di più, dello stesso numero di persone che vivono insieme in famiglia.
In politica, lo Stato paternalista occidentale riesce a provvedere più comodamente per gli abitanti del suo territorio, se essi sono isolati e con ciò manipolabili e impotenti. La famiglia, invece, è una forza che delimita l’influsso dello Stato, aprendo uno spazio indipendente nel quale vengono formate le opinioni e nel quale viene trasmessa una cultura (una memoria storica, dei significati e dei simboli con rilevanza personale). Secondo l’ottica di uno Stato totalizzante ed ideologico, sarebbe perciò nell’interesse di tutti la più estrema privatizzazione della famiglia oppure la sua abolizione se questa fosse possibile.
Rispetto alla seconda parte della Sua domanda: è importante sottolineare che nel numero 36 di Amoris Laetitia, al quale accenna Lei, il Santo Padre non si riferisce al Magistero della Chiesa lungo i secoli. Parla molto generalmente di noi “cristiani” (cfr. AL 35) e ci propone una sana autocritica.
Rispetto all’“accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione” (AL 36), c’è da dire che in Europa nel passato (parliamo di forse due o tre generazioni fa) è talvolta capitato che si sentiva dal parroco l’opinione, evidentemente erronea, che il sesso sarebbe sempre cattivo – persino tra i coniugi – e che sarebbe scusato soltanto dall’intenzione di concepire figli. Oggi i cristiani europei hanno certamente problemi ben diversi ma sembra che il Papa abbia in mente altre parti della Terra, dove questa faccenda potrebbe essere ancora attuale tra i credenti dei nostri giorni.
È vero che manca un “buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni” (AL 36), come è anche il caso che talvolta si ha a che fare con un’idealizzazione del matrimonio e con poca fiducia nella grazia. Come dice Francesco un po’ più in avanti: “Una delle cause che portano alla rottura dei matrimoni è avere aspettative troppo alte riguardo alla vita coniugale” (AL 221). Anche noi cristiani siamo vulnerabili allo spirito del nostro tempo, che romanticizza il matrimonio e suscita aspettative alle quali nessun essere umano potrà mai corrispondere. La soluzione che Papa Francesco propone è lasciarsi “disilludere” dell’altro e “smettere di attendere da quella persona ciò che è proprio soltanto dell’amore di Dio” (AL 320), aprendosi piuttosto alla grazia di Dio.
È interessante notare come il Papa, da un lato afferma che l’idealizzazione del matrimonio sia tra le cause della scarsa attrattività del matrimonio, mentre dall’altro lato parla tanto dell’ideale del matrimonio (ad es. AL 157, 230, 292). Per quell’ideale del matrimonio, inteso in senso positivo, trova poi anche un altro nome: “progetto di Dio” (AL 307). Questo progetto di Dio non è una cosa astratta ma molto concreta, vivibile e attraente, in particolare per i giovani, come testimonia la ricezione entusiasta della “teologia del corpo” di San Giovanni Paolo II, laddove viene proposta con franchezza e coraggio evangelico.
Sui figli, il Salmp 127 recita: “Beato l’uomo che ne ha piena la faretra”. La famiglia numerosa riflette la cultura di una società antiquata o è una via percorribile ancora oggi?
Sì, certamente ancora oggi la famiglia numerosa non è soltanto percorribile ma, come diceva il salmista, una benedizione. Il salmista qui esprime una sapienza divina, sì, ma anche umana, anche se essa oggi, nell’epoca del welfare state, viene percepita di meno, senza essere in fondo cambiata. Umanamente parlando, non c’è ricchezza più grande che avere tanti figli. Questo vale in diversi sensi, anche in quello molto pratico, che sembra quello cui sta pensando il salmista. Nessun fondo pensionistico, né le azioni, né gli immobili possono sostituire la sicurezza sociale data da una famiglia numerosa. Il welfare state era inizialmente basato sul contratto tra le generazioni. Aveva come premessa che la gente avesse dei figli. Adesso che una generazione ha disdetto il contratto generazionale, rifiutando di trasmettere la vita alla prossima generazione, tutto l’edificio sta per crollare. Le pensioni non sono più sicure e non possono sostituire la sicurezza data da una famiglia numerosa. Oltre a questa prospettiva del salmista, c’è molto più da dire rispetto alla gioia dei genitori nel veder crescere i loro figli e nel vivere insieme con loro: una gioia che sa coesistere anche con i tanti dolori che fanno parte della vita e che sono inevitabili quando amiamo qualcuno veramente.
L’Amoris Laetitia fa riferimento al rapporto tra genitorialità e “rivoluzione biotecnologica nel campo della procreazione umana”. Come può incidere la tecnologia nell’ambito dell’accoglienza della vita nascente?
La tecnologia incide fortemente nel rapporto tra genitori e figli. I figli prodotti artificialmente sono “figli del desiderio”, per usare l’espressione del filosofo francese Marcel Gauchet. La loro vita è in funzione del desiderio dei genitori. Loro ci sono, perché i loro genitori avevano un progetto per loro, sentivano il desiderio di averli come parte della propria autorealizzazione. In questo modo aumenta la disuguaglianza tra genitori e figli e, allo stesso tempo, accresce in modo quasi intollerabile il peso delle aspettative genitoriali. Ogni figlio deve sempre confrontarsi con le aspettative dei suoi genitori per la sua vita. Ma nel caso del figlio del desiderio, prodotto tecnicamente, queste aspettative non sono solo un fattore importante che si deve affrontare: piuttosto sono la ragione per le quali egli esiste. Strutturalmente, dalla logica stessa delle tecnologie di procreazione artificiale, la sua ragione d’essere è di soddisfare i desideri dei suoi genitori. È quella l’unica giustificazione della sua esistenza. Questo è senz’altro pesante. Non dico che i suoi genitori in qualche momento non potrebbero cominciare ad amarlo per se stesso. Ma per quello occorrerebbe un cambiamento nel modo di pensare, una metanoia, una conversione. Si dovrebbe uscire da una logica (cioè la logica del figlio voluto per me) e entrare in un’altra che è direttamente opposta (cioè, il figlio voluto per sé).
Quale può essere il punto di forza di una politica familiare che intenda promuovere la dignità della famiglia?
La politica familiare va ridimensionata. Il che non significa necessariamente che non servano un ministero per la famiglia o varie leggi sulla famiglia. In alcuni paesi, che non hanno un ministero dedicato alla famiglia e che non portano avanti una “politica familiare”, la famiglia sta meglio che in Europa, dove generalmente abbiamo tutto questo. Il principio di fondo che dovrebbe guidare tutta la legislazione sarebbe il riconoscimento della famiglia come soggetto sociale. È qui che intervengono il quoziente familiare e il riconoscimento dei genitori come i primi e principali educatori dei loro figli, un principio rivendicato da papa Francesco nell’Amoris Laetitia (n. 84). Invece politiche e leggi che guardano ai membri della famiglia come individui e non a questa rete di relazioni stessa che è la famiglia, minano la famiglia e fanno sì che lo Stato usurpi sempre più potere. Lo Stato paternalistico vuole proteggere le madri dai padri e i figli dai genitori e si arroga addirittura il diritto di definire lui arbitrariamente cosa sia una famiglia. In questo modo assicura che tutti sempre e ovunque vivano come meri individui. Spesso nella legge la famiglia viene trattato come un aggregato di individui, non qualitativamente differente da un’associazione calcistica. Però la famiglia è un vero bene comune che ha una sua soggettività sociale che va oltre la somma dei suoi membri.
Come si percepisce e si vive oggi la fragilità nella famiglia (pensiamo al figlio disabile o all’anziano malato)?
Più che accresce il nostro potere tecnologico, più abbiamo difficoltà nell’accettare i nostri limiti. Che cosa ci ricorda maggiormente la nostra contingenza se non la sofferenza di un familiare? Allo stesso tempo è proprio qui che si impara ad amare veramente. Il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre dice che nei genitori di figli con disabilità si vede il paradigma di ogni maternità e paternità ben intesa (cfr. Animali razionali dipendenti). Amano il proprio figlio perché è il loro figlio, non perché è bello, forte, intelligente o utile. Lo amano incondizionatamente. Il loro impegno non è per le loro aspettative o per i loro desideri ma per lui stesso.
Secondo alcuni, la vita di grazia e le questioni dottrinali appaiono nella Amoris Laetitia un po’ distanti. E la norma morale – quando ad essa si fa riferimento – viene associata all’immagine di una “pietra”. Ha ancora senso parlare di morale familiare? E cosa si può intendere con questo concetto?
La “norma pietra” di cui parla il Papa (AL 49) è la norma della morale moderna, che deriva da Guglielmo d’Ockham. Secondo Ockham, la norma è basata sulla volontà del legislatore, per cui una cosa sarebbe “buona” perché viene comandata e sarebbe “cattiva” perché viene proibita. La norma non avrebbe ragioni che si lascino capire. Faccio ciò che è comandato, perché se non lo faccio, il legislatore mi punirà. Possiede forza di legislazione soltanto chi ha forza di punire e soltanto in quanto ha forza di punire: sarebbe come se il giorno in cui le forze d’ordine facessero sciopero, le leggi dello Stato non valessero più. Quest’impostazione della morale si chiama volontarismo ed essa è purtroppo entrato anche nella teologia morale cattolica fino ai giorni di oggi. Le parole dure con le quali il Papa a volte si riferisce alla morale sono senza dubbio dirette a questa deriva: una morale arbitraria nella quale la volontà del più forte si impone sulla volontà del più debole, una morale che minaccia e che è gioco di potere. È chiaro che il Papa fa bene criticare questa impostazione della morale, che evidentemente non ha niente a che fare con la morale cattolica, come viene, ad esempio, esplicata magistralmente nell’enciclica Veritatis Splendor di San Giovanni Paolo II. Qui la domanda della morale non è semplicemente domanda dell’obbligo, ma domanda del senso della propria vita (cfr. VS 7). E la legge morale non risiede nella volontà del legislatore ma piuttosto nella sua ragione. Per dirla con la Veritatis Splendor: “La legge, quindi, deve dirsi un’espressione della sapienza divina: sottomettendosi ad essa, la libertà si sottomette alla verità della creazione” (VS41). Perciò una cosa è comandata perché è buona e proibita perché è cattiva. Il bene conviene, il male fa male. La norma è l’espressione di una verità sul bene; non è arbitrariamente imposta ma è pienamente ragionevole. Non si presta come arma. Piuttosto ci aiuta a vivere bene. Se intendiamo la morale in questo senso, ci sarà certamente posto per una morale familiare anche nel futuro. È una morale che fa crescere la famiglia. Se l’amore è un linguaggio, allora la morale è la sua grammatica. La morale familiare è quella grammatica dell’amore che ci aiuta ad imparare ad amare. Potremmo dire che si tratta dei principi di quella pedagogia dell’amore cui parla papa Francesco nell’Amoris Laetitia (cfr. AL 211).
La carrellata di temi che le ho sottoposto sono alcuni tra quelli che verranno trattati durante il prossimo corso estivo monografico di bioetica “Famiglia, vita e società”, organizzato dall’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum*. Al corso lei terrà un intervento dal titolo I modelli familiari nella discussione. Alternative alla famiglia?: può spiegare il nucleo della sua relazione?
Cercherò di sviluppare l’intuizione di papa Francesco che sottolinea che “nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita ci assicura il futuro della società” (AL 52). Con ciò egli afferma che il matrimonio come base della famiglia è senza alternativa. Spero di poter dimostrare come in tutti gli altri “modelli familiari” che cercano di sostituirsi alla famiglia – unioni di fatto, unioni civili dei divorziati, unioni di persone dello stesso sesso – si desidera sì un bene, ma che il desiderio di compimento umano che provano i partner non potrà trovare risposta in tali unioni, non per cattiva volontà dei partner, ma per la struttura stessa del rapporto che vivono. In quanto manca l’impegno di tutta la vita anche nella sua dimensione temporale, oppure in quanto l’abbandono di questo impegno è la premessa di fondo di una (nuova) unione, oppure in quanto l’unione esclude intrinsecamente la missione pubblica nel servizio alla vita, queste unioni tendono a lasciare gli individui soli. E si finisce con quella che Anthony Giddens chiama la “relazione pura” (cfr. La trasformazione dell’intimità): si rimane da solo a due (oppure anche a tre o quattro o cinque, come si vuole). Vorrei mostrare che queste unioni sono fonte di alienazione e che solo la famiglia basata sul matrimonio – inteso come unione stabile, esclusiva, pubblicamente trattata, tra un uomo e una donna, aperta alla vita – permette la partecipazione nel senso che ne dà Karol Wojtyła (cfr. Persona e atto): le persone agiscono insieme e nell’agire comune trovano il loro compimento. Solo qui si istituisce un autentico soggetto sociale e un vero bene comune. Ne parleremo in modo approfondito a luglio!
* Giorgia Brambilla è professore aggregato presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
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Per approfondimenti sul corso APRA: http://www.upra.org/evento/ix-corso-estivo-internazionale-di-aggiornamento-in-bioetica/