giovedì 16 giugno 2016

“Se qualcuno vuole venire dietro a me…”


19 giugno 2016
XII domenica del tempo Ordinario anno C

di ENZO BIANCHI
Lc  9,18-24
Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi profeti che è risorto». 20Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno.
«Il Figlio dell'uomo - disse - deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà.

La predicazione pubblica di Gesù di Nazaret è ormai iniziata da qualche tempo, ed egli è conosciuto, di lui si parla, su di lui ci si interroga. Gesù appare infatti una figura di maestro che intriga, essendo la sua storia e il suo stile non consueti. Non è un rabbino come gli altri, con un curriculum di studio presso qualche rabbi di Gerusalemme o di una delle città situate sul lago di Gennesaret. È apparso accanto a Giovanni il Battezzatore (cf. Lc 3,21-22), anche lui figura anomala, che ricordava i profeti scomparsi da secoli in Israele, in particolare il profeta Elia, del quale aveva assunto il modo di vestire e l’abitare nella solitudine del deserto (cf. Mc 1,2-6 e par.). Anche il tetrarca Erode, che aveva imprigionato il Battista (cf. Lc 3,19-20) e lo aveva fatto decapitare, si pone delle domande su Gesù, che ne sta proseguendo il ministero profetico. Egli – scrive l’evangelista – “non sapeva che cosa pensare di lui, perché alcuni dicevano: ‘Giovanni è risorto dai morti’, altri: ‘È apparso Elia’, e altri ancora: ‘È risorto uno degli antichi profeti’. Ma Erode diceva: ‘Giovanni, l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?’. E cercava di vederlo” (Lc  9,7-9).
Intanto Gesù aveva inviato i discepoli a due a due nelle varie città dei dintorni ad annunciare il Regno di Dio (cf. Lc 9,1-6) ed essi erano tornati da lui dopo una missione feconda (cf. Lc 9,10). Ed ecco, durante una sosta in disparte di Gesù e della sua comunità, una sosta di silenzio, riposo e preghiera, Gesù stesso pone ai discepoli una domanda: “Le folle, chi dicono che io sia?”. Egli domanda, chiede, perché vuole conoscere cosa si pensa di lui, della sua missione, ma soprattutto vuole sapere se i discepoli che ha chiamato e radunato attorno a sé riescono a comprendere chi lui è, qual è veramente la sua missione, che rapporto ha con Dio, quindi con loro. I discepoli rispondono che la gente, ascoltandolo, vedendolo vivere e agire, pensa che egli sia un profeta, sorto in Israele come nei tempi antichi. C’è chi lo crede Giovanni il Battista redivivo, perché proprio dopo la sua morte Gesù ha impresso al proprio ministero un ritmo e un’estensione che si notavano; altri pensano a Elia. Insomma, per la gente Gesù era un rabbi (un maestro) e un profeta, un portatore della parola di Dio.
A questo punto Gesù pone la domanda più importante, decisiva: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Attenzione, egli non vuole una risposta “da catechismo”, una formula, ma vorrebbe poter leggere la loro fede-fiducia in lui, vorrebbe conoscere la loro adesione, il loro coinvolgimento nella sua vita. Ed ecco che Pietro, il primo tra i Dodici, colui che aveva ricevuto da Gesù il nome di Kefa, Roccia (cf. Lc 6,14Gv 1,42), esclama: “Tu sei il Cristo, il Messia di Dio”. Non solo rabbi, non solo profeta, ma il Messia di Dio, l’atteso Unto del Signore, promesso dal Signore per la salvezza del suo popolo negli ultimi tempi. Secondo gli altri vangeli sinottici, la risposta di Pietro è espressa in modo leggermente diverso. In Marco, la fonte di Luca, le parole sono più brevi, senza alcuna specificazione: “Tu sei il Cristo” (Mc  8,29). In Matteo la confessione è esplicitata con la definizione del Messia quale “Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16; cf. Sal 2,7). Certamente non conosciamo gli ipsissima verba Petri, le parole stesse di Pietro, ma ciò che è decisivo viene testimoniato da tutti e tre i testi. Pietro confessa – ed è difficile dire se lo fa a nome personale o come portavoce della comunità – che Gesù è il Messia atteso, per la cui venuta ogni ebreo pregava all’interno delle cosiddette Diciotto benedizioni. D’altronde il battesimo di Gesù era stato evento di “unzione”, perché lo Spirito santo era sceso su di lui (cf. Lc 3,22), e Gesù stesso nella sinagoga di Nazaret si era presentato come colui che era stato annunciato dal profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, perché egli mi ha unto, mi ha inviato ad annunciare ai poveri la buona notizia” (Lc 4,18Is 61,1).
L’evangelista non registra alcuna reazione alle parole di Pietro, se non l’ammonimento di Gesù a non riferire a nessuno la sua identità. Perché? Innanzitutto perché Gesù teme che questa identità sia compresa in modo sviante, alla stregua di un Messia politico secondo l’ideologia messianica dominante; inoltre, teme che i capi, interpretando la sua identità come una pretesa di potere politico, possano mettere fine alla sua azione in modo prematuro. Per questo aggiunge subito: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essererifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno”. Gesù ama definirsi “Figlio dell’uomo”, titolo che spiega meglio, senza ambiguità, la sua missione di inviato da Dio, quale terrestre, “figlio di Adamo” (Lc 3,38). Come tale, egli sa di dove andare incontro alla sorte che attende tutti gli umani: “l’uomo giusto” (Lc 23,47), che vive secondo la volontà di Dio, in un mondo di ingiusti e peccatori può solo essere osteggiato e ripudiato, fino a essere messo a morte. È una necessità umana, inerente alla storia di questo mondo, come avevano ben capito i sapienti di Israele contemporanei di Gesù (cf. Sap 1,16-2,20). Il giusto, il servo del Signore, se resta fedele a Dio e continua a fare la sua volontà, si troverà forzatamente nella condizione di “soffrire molte cose” (pollá), di essere perseguitato come tutti i profeti, di essere addirittura ucciso da assassini (questo il loro nome, anche se sono autorità religiose), ma di ricevere però il terzo giorno la risposta di Dio che lo rialza, lo rimette in piedi quale vincitore del male e della morte.
Questa è la fede di Gesù, non una certezza, ma la fede che si è nutrita dell’ascolto della Parola contenuta nelle sante Scritture, del discernimento dei segni dei tempi, dell’ascolto attento e amoroso della voce di Dio dentro di sé nelle sue ore di preghiera. Necessità umana – si badi bene –, non necessità, destino imposto da Dio a Gesù fino a togliergli la libertà della risposta. Necessitas humana che solo secondariamente è anche necessitas divina, a cui Dio si sottomette, perché non può rinunciare a ciò che egli è: un Dio di amore, che non si difende, non fa vendetta, non è mai un Dio armato. Lanecessitas humana degli eventi diviene, per l’umiltà amorosa di Dio, necessitas divina. Il “si deve, bisogna” (deî) va letto in quest’ottica, senza dare a Dio un volto perverso, il volto di un padre più cattivo dei nostri padri terreni (è esattamente il contrario, come Gesù ci ha rivelato in Lc 11,11-13!), oppure, come alcune volte i cristiani hanno fatto, creando un Dio che mette paura e fa fuggire gli umani…
Ed ecco l’invito conseguente di Gesù: “Io sono questo tipo di Messia, dunque se qualcuno vuole venire dietro a me, seguirmi, essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”. Si tratta di caricarsi dello strumento della propria esecuzione, per rinnegare, far morire, uccidere l’uomo vecchio che è in noi, con le sue “membra di peccato”, dirà Paolo (cf. Rm 6,13). Sì, questo vocabolario è duro, ma non indica una sterile mortificazione, bensì una sottomissione degli istinti mondani, delle pulsioni cariche di egoismo che ci abitano. Caricarsi della croce
significa immettere nella propria vita la logica della cura dell’altro, del servizio dell’altro fino a sottomettersi a lui;
significa spendere la vita per gli altri, fare della propria esistenza una pro-esistenza, una vita per gli altri;
significa dimenticare se stessi e smettere di affermare se stessi senza gli altri e contro gli altri.
La vita, o la si dona oppure la si tiene gelosamente per sé: se la si dona, si trova beatitudine; se la si tiene per sé, si trova la morte. Ecco il senso dell’aggiunta finale di Gesù: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà”.
Chi è intelligente e comprende bene le parole di Gesù, quando pensa al “prendere la croce” non lo intende in senso masochistico o doloristico. Al contrario, abbracciando la croce nella libertà e per amore dietro a Gesù, va incontro alla beatitudine, alla vita bella, alla bontà della convivenza fraterna. Perché alla fine della strada c’è la vita, la resurrezione.