martedì 14 giugno 2016

Simul stant, simul cadunt.



Misericordia e conversione...
di S. Em. Card. Carlo Caffarra
Ancona, 23 maggio 2016

Questa sera vorrei riflettere con voi sul più grande e drammatico evento che accade su questa terra: l’incontro della divina misericordia con l’uomo peccatore, e la giustificazione di questi. Dunque non parlerò della misericordia come virtù morale dell’uomo, ma esclusivamente come divino attributo.
1. Consentitemi di iniziare da un testo di sant’Ambrogio. In una delle sue opere principali, I sei giorni della creazione, dopo aver meditato sulla creazione dell’uomo, scrive:
«Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un’opera così  meravigliosa nella quale trovare il suo riposo. Creò il cielo e non leggo che si sia riposato; creò la terra e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna, e le stelle e non leggo che si sia riposato; ma leggo che ha creato l’uomo e che a questo punto si sia riposato avendo un essere cui rimettere i peccati» (1).
Il testo è profondo, oltre che dotato di una sua intima bellezza. Cerchiamo di coglierne il pensiero.
Quando il Creatore ha dato origine al mondo, Egli aveva un disegno, si proponeva uno scopo: attraverso la creazione  manifestare le sue perfezioni (2). Per ragioni a noi inconoscibili, Egli ha voluto rivelare di Se Stesso, come  attributo più propriamente Suo, la misericordia come volontà di perdonare. Dio si riposa perché ha finito il suo lavoro, in quanto ha detto di Sé ciò che creando voleva dire di Sé: misericordia che perdona. Creando l’uomo infatti, ha creato  qualcuno nei confronti del quale avrebbe potuto esercitare la sua misericordia, dal momento che l’uomo può peccare. Un grande teologo italiano scrive: «Il peccato, che è in ogni modo male, consente a Dio di manifestarsi come colui che perdona, e che, appunto riposando, non ha altro da fare» (3).
Gesù ha potuto dire che in cielo c’è più festa per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di convertirsi (4). Più gioia, perché gli angeli vedono realizzarsi compiutamente il progetto creativo del Padre: manifestare la sua misericordia nel perdono del peccatore.
Quando ero Arcivescovo di Ferrara incontrai un gruppo di pescatori. Uno di loro mi fece una domanda assai profonda. Mi disse: «noi mettiamo i pesci pescati dentro a barili cilindrici. Immaginiamo che tutto l’universo sia come uno dei nostri barili, dentro al quale siamo noi. Io le chiedo: quale è il fondo del barile? Quale è il suo nome?». Non sapeva che proprio dalla sua domanda era nata tutta la filosofia. Ho risposto: «Il fondo è la misericordia di Dio. Il nome del fondo è misericordia». Non dovremmo mai stancarci di riflettere su questo.
Qui noi troviamo la chiave interpretativa ultima delle vicende umane, della storia umana. La storia umana deve essere pensata come l’incontro fra il male morale che si oggettiva nelle fondamentali strutture del vivere umano e la misericordia di Dio, che in Cristo offre il perdono. Mi sembra che questa sia la visione di S. Paolo: «Tutti hanno peccato e sono privi della Gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (5).
È l’Atto redentivo di Cristo, eucaristicamente sempre presente nel mondo mediante la fede della Chiesa, la chiave di volta di tutto l’arco della creazione, il punto focale in cui tutto l’universo si raccoglie. E noi uomini del XX secolo sappiamo bene il “peso specifico” di questa teo-drammaturgia che viene rappresentata dentro alla nostra storia.
Assistiamo infatti ai nostri giorni alla compiuta realizzazione di un secolare processo di sradicamento della libertàdell’uomo dalla verità dell’uomo. È una libertà in senso letterale impazzita. Già Platone nel primo libro dellaRepublica aveva mostrato che questa idea ed esperienza di libertà porta alla tirannia.
A questo punto è inevitabile la domanda sull’esito finale di questo incontro della misericordia di Dio, la quale ha preso letteralmente corpo nel Verbo incarnato, colla persona umana che è nel peccato. Ma non è di questo che dobbiamo parlare questa sera.
Dunque teniamo per certo che, come scrive S.Tommaso, «la misericordia è l’attributo che più di ogni altro deve essere attribuito a Dio» (6). È il nome col quale soprattutto [maxime] desidera essere invocato.
2. Dalla lettura del Vangelo risulta senza ombra di dubbio che la rivelazione suprema della Misericordia di Dio in Cristo Gesù è il perdono del peccatore, o come dice la Teologia, la giustificazione del peccatore.
San Tommaso insegna che questo atto divino è più grande dell’atto creativo; manifesta cioè maggiormente l’onnipotenza divina (7). Per la seguente ragione: il perdono del peccatore introduce questi nella partecipazione alla stessa vita divina, mentre la creazione è la produzione di una natura mutevole e transitoria. Il valore della divina grazia, della santità anche di un solo peccatore perdonato è maggiore che il valore di tutto l’universo intero (8). Vediamo, sia pure brevemente, in che cosa consiste questo atto supremo della misericordia di Dio nei confronti dell’uomo.
La Sacra Scrittura usa analogie molto forti. Essa parla di “nuova creazione” (9); di “nuova nascita” (10); di “rigenerazione” (11). Se cerchiamo di comprendere il significato reale di queste immagini, giungiamo alle seguenti conclusioni.
Trattasi di una operazione divina: è Dio stesso – il Padre in Cristo mediante lo Spirito Santo – che compie questo atto. Ciò che Dio compie è la elevazione del peccatore alla partecipazione alla sua divina natura, alla sua stessa vita: è una operazione deiforme. Deiforme nel suo principio: solo Dio può compiere questa azione; nel suo scopo: vuole rendere l’uomo simile al Figlio unigenito del Padre (12).
L’azione deiforme non può che compiersi, dentro all’universo visibile, nella persona umana in quanto solo essa è dotata di spirito   intellettuale e libero. E Dio è luce (13); Dio è Amore (14). La Sacra Scrittura parla infatti dell’azione deiforme come un’alleanza che viene siglata tra Dio e l’uomo (15).
L’immagine ci fa comprendere bene che l’evento che stiamo narrando ha due attori: Dio e l’uomo. L’uno difronte all’altro. Teniamo ben presente questo fatto: l’uomo sta di frante a Dio come un soggetto veramente libero nei suoi confronti. Indubbiamente quanto stiamo dicendo pone formidabili problemi filosofici e teologici, ma è di importanza fondamentale per tutto il nostro discorso. È il caso serio del Cristianesimo.
La  persona umana incontrata dall’operazione deiforme si trova in una condizione di peccato; non si trova solamente in una condizione di non-conformità, ma di de-formità: è priva della Gloria di Dio, direbbe S. Paolo (16).
Dunque: (a) l’operazione deiforme perché possa compiersi, implica il consenso libero della persona; (b) questo consenso, data la condizione dell’uomo, deve avere  come due dimensioni: la decisione di abbandonare la condizione di peccato, il consenso all’offerta di amore proposta da Dio. Il vocabolario cristiano chiama questo supremo atto della nostra libertà conversione.
Se leggiamo per esempio il racconto evangelico di Zaccheo, tutto quanto abbiamo detto finora è narrato in modo stupendo (17). L’incontro avviene per iniziativa di Gesù; la proposta è accettata da Zaccheo; questi decide di abbandonare pienamente la sua vita di ladro; l’alleanza è siglata: «oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo».
La suprema rivelazione della misericordia di Dio verso l’uomo è dunque un evento umano-divino; un dialogo tra la grazia di Dio che perdona e la libertà dell’uomo che detesta il peccato e consente al dono. Dio «conduce l’uomo alla giustizia conformemente alla condizione della natura umana. Ma l’uomo ha una natura che  possiede la libertà. Pertanto Dio non conduce alla giustizia coloro che hanno l’uso della libertà, senza il loro consenso libero. E quindi infonde in essi la grazia che santifica in modo tale che simultaneamente Egli muove la libertà ad accettare il dono» (18).
2. Dalla riflessione precedente risulta che ci sono due modi profondamente sbagliati di narrare l’evento misericordioso della rinnovazione dell’alleanza fra Dio e l’uomo, spezzata dal peccato. Annunciare la misericordia di Dio senza esortare alla conversione; esortare alla conversione senza l’annuncio della misericordia.
2.1/ La prima narrazione è sbagliata e dal punto di vista dell’operazione divina e dal punto di vista della persona umana, ed ha conseguenze devastanti e sull’immagine che il credente può farsi di Dio e sulla persona umana.
La grande Tradizione del pensiero cristiano ha sempre pensato la “logica” della Provvidenza divina come conduzione di ogni creatura al suo fine, rispettando la condizione naturale propria della creatura medesima. Pensare la divina Onnipotenza come la facoltà divina di raggiungere lo scopo della creazione, prescindendo dalla condizione propria di ogni creatura, significa dare il nome di Dio ad un concetto pagano: il Fato. La gloria di Dio non risplende sulle ceneri della sua creazione.
La condizione dell’uomo è la libertà, la quale si realizza, all’interno dell’azione misericordiosa che stiamo considerando, nella figura della conversione dell’uomo. Parlare della misericordia di Dio che perdona lasciando in ombra l’atto libero della conversione, è parlare di un idolo creato dall’uomo, non del Dio vero e vivente.
Un tale modo di parlare non solo è falso quanto al divino attributo della onnipotenza, ma nega il divino attributo della giustizia e della santità. Dio non può rinnovare la sua alleanza con l’uomo, come se la persona umana non si trovasse in una condizione di peccato. Il profeta teme di morire, avendo visto Dio e sapendosi peccatore e quindi esposto all’ira di Dio (19). Un annuncio della misericordia che non parlasse simultaneamente della necessità della conversione, ignorerebbe tutti i grandi temi del giudizio di Dio, dell’ira di Dio (20).
2.2/ Non meno falso sarebbe esortare alla conversione non alla luce del volto divino della misericordia.
Un tale modo di pensare la proposta cristiana, sarebbe semplicemente la sua corruzione. La proposta cristiana infatti non è principalmente una proposta etica; non è la promulgazione di un codice morale più perfetto. È la narrazione di un evento di misericordia che ha in sé la forza di cambiare la vita; è l’offerta gratuita, incondizionata di una rigenerazione della propria umanità. È dono, non comandamento; è grazia, non legge.
Noi sappiamo che è stato l’errore pelagiano quello di negare questa intima trasformazione dell’uomo per opera della grazia. Immaginiamo di camminare sulla riva di un fiume con un amico, e che questi scivolando cada in acqua. A diversità dell’amico, egli non sa nuotare. Come lo si può salvare? Certamente non insegnandogli dalla riva come si fa a nuotare, ma buttandosi in acqua, abbracciandolo e portarlo a riva.
Eravamo caduti nel gorgo dei nostri peccati e trascinati dalla corrente alla morte. Dio in Gesù non ci ha salvati insegnandoci a  nuotare [= dandoci la Legge], ma buttandosi lui stesso dentro la corrente [= si è fatto uomo ed ha preso su di Sé il nostro peccato]. Ci chiede di lasciarci abbracciare, e di non svincolarci dal suo abbraccio [= convertirci; cioè detestare il nostro peccato e proporre di non peccare più].
2.3/ Vorrei ora mostrarvi brevemente gli effetti devastanti che le due narrazioni sbagliate hanno.
In ordine al culto che noi dobbiamo a Dio, non è indifferente ciò che pensiamo di Dio. Ora la prima narrazione distrugge nella coscienza religiosa la verità su Dio, poiché cambia il significato del centro della rivelazione che Dio ha fatto di Sé: Colui che è misericordioso. Come abbiamo già lungamente esposto, misericordia divina significa che Egli in Gesù distrugge il peccato. Poiché non c’è perdono senza conversione, essendo la persona un soggetto libero ed in una condizione di peccato, la prima narrazione conduce la persona umana a pensare “non devo avere alcuna preoccupazione anche se rimango come sono; tanto Dio è misericordioso”. Si capisce allora quanto diceva secondo alcune testimonianze Padre Pio: ”temo di più la misericordia che la giustizia di Dio”. E S. Alfonso, Dottore della Chiesa: “ne manda più all’inferno la misericordia che la giustizia di Dio”.
La prima narrazione demolisce il “caso serio” del Cristianesimo, e rende inutile l’Atto redentivo di Cristo.
Essa conduce la persona ad una duplice menzogna: la prima quella di commettere il male più facilmente; la seconda di pensare che poi alla fine… Dio non se la prende poi tanto per questo. E toglie la possibilità di pensare un fondamento ultimo alla coscienza del dovere e dell’obbligazione morale.
La seconda narrazione, essendo una corruzione del Cristianesimo, allontana profondamente l’uomo da esso. La proposta cristiana così narrata, infatti, diventa noiosa, poiché una proposta di vita che consista solamente nella promulgazione di un codice morale, diventa scostante. Ma sopratutto allontana chi ha più bisogno di incontrare Cristo, cioè i peccatori, come viene continuamente detto nel Vangelo.
Qualcuno potrebbe chiedermi: in quale delle due narrazioni oggi la Chiesa è più in pericolo di cadere? È mia personale convinzione che è nella  prima.
3. Vorrei ora, come ultimo punto della mia riflessione, rispondere alla seguente domanda: a quali condizioni spirituali si può custodire il mirabile et cattolico tra Misericordia di Dio conversione dell’uomo?
Custodendo nel proprio spirito tre intime convinzioni; oserei chiamarli tre vissuti esistenziali.
3.1/ Custodire nella sua integra purezza la propria coscienzamorale. La coscienza è la prima e fondamentale rivelazione di Dio: Socrate ha insegnato questo all’Occidente. Nella coscienza risuona la voce di Dio.
Il concetto di coscienza vissuto ormai nella nostra cultura occidentale ha degradato la coscienza morale dalla sua suprema dignità. Essa non rimanda ad Altro: la coscienza è semplicemente auto-coscienza. Oggi dire: “in coscienza…” è sinonimo di: “la mia opinione è che…”. Questa riduzione della coscienza è stato esiziale per il Cristianesimo, perché ne ha svuotato il senso soteriologico. Ha reso vana la Croce di Cristo (21).
3.2/ Avere l’intima esperienza della propria libertàdavanti a Dio. I grandi maestri dello spirito nel Cristianesimo amavano dire: camminare alla presenza di Dio. Se riflettiamo un momento vediamo che la libertà è un’esperienza di relazione. E quindi la misura della grandezza della mia libertà è data dalla grandezza del suo referente.
Certamente un pastore che vivesse sempre colle sue pecore, avrebbe un’esperienza della sua libertà nei loro confronti: è lui che li conduce dove vuole. Ma rivela un’esperienza molto più profonda di libertà un inglese quando pronuncia un famoso proverbio: “nella mia capanna entra vento e acqua, ma non Sua Maestà Britannica senza il mio permesso”.
Il referente della nostra libertà è sempre e solamente un bene creato? Sarebbe una libertà finita. Il referente ultimo è Dio stesso: la libertà dell’uomo possiede una certa infinità.
Uno ben più grande di sua Maestà Britannica dice: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno… mi apre la porta…» [Ap.3,20]. Se uno non ha mai sperimentato questo “stare davanti a Dio”, tutto il discorso sulla Misericordia e conversione fa solo un po’ di prurito alle orecchie dell’ascoltatore, e serve solo a far prendere un po’ di aria ai denti di chi lo pronuncia.
3.3/ Avere l’intima esperienza che il peccato è un male di cui non si può pensare uno maggiore, perché è il male della persona umana come tale (22). Rimando a questo punto alla manzoniana narrazione della notte dell’Innominato, il quale poi ha potuto sperimentare mediante il suo Vescovo la Misericordia di Dio in tutta la sua potenza.
Tutti e tre questi vissuti esistenziali mi sembrano oggi ampiamente assenti  dal modo comune di pensare in Occidente. Ecco perché l’annuncio cristiano si trova dentro inedite difficoltà. Inedite, perché né il paganesimo antico né quello dei popoli che non hanno sentito l’annuncio evangelico viveva e vivono in tale condizione spirituale.
4./  Concludo e finisco. E lo faccio chiedendovi di mettere a confronto nel vostro spirito due testi.
Il primo è della Liturgia latina ed è una preghiera: O Dio che manifesti la tua onnipotenza soprattutto nella grazia del perdono… (23).
Il secondo è di uno dei più grandi pensatori del XIX secolo, Soeren Kierkegaard.
“Un peccatore essenziale, uno che capisca essenzialmente di essere un peccatore […]: la sua unica passione è il pentimento. Umanamente è un disperato, ma cristianamente è salvo perché è credente” [Diario 3797, Morcelliana ed., Brescia 1982, vol.10, pag.72].

da: http://www.caffarra.it

Note:
(1) I sei giorni della Creazione, Giorno VI, Omelia IX, c.10, 76; Opera Omnia di S. Ambrogio, CN ed, Roma 1979, vol.1, pag. 419.
(2)  Cfr. Rom.1,20.
(3)  Inos Biffi, nota 2 al testo ambrosiano sopra citato.
(4) Cfr. Lc.15,7.
(5) Rom. 3,23-24.
(6) S. Tommaso, Summa Theologiae, II-II, q. 30, a. 4.
(7) Cfr. I-II, q.113, a.9.
(8) Ibid. ad 2um.
(9) Cfr. 2 Cor. 5,16; Gal. 6,15; Ef. 2,15.
(10) Cfr. Gv. 3,3.
(11) Cfr. 1Pt. 1,3.
(12) Dante chiama il regno dei beati il deiforme regno [ Par.II,20 ].
(13) Cfr. 1Gv. 1,5.
(14) Ibid. 4,8.
(15) Cfr. per es. Ger. 31, 33-34.
(16) Cfr. Rom. 3,23.
(17) Cfr. Lc. 19,1-10.
(18) S. Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q.113, a.3; ed anche ad 3um.
(19) Cfr. Is.
(20) «Non pensate, fratelli, che Dio non sia giusto quando usa misericordia verso di noi, o che receda dalla regola della sua giustizia. Egli è giusto e quando condanna e quando perdona» [S. Agostino, Discorsi su Salmi XCLVII, 13; PL 37, 1922]. «L’ira è un tratto essenziale ed ineliminabile dell’immagine di Dio che si riscontra sia nell’AT sia nel NT. Quando si è convinti, come lo è tutto il NT che è tremendo cadere nelle mani di Dio (Ebr. 10 31); che Egli ha il potere di salvare e di dannare (Giac. 4,12); che Egli deve essere temuto perché può, al di là della morte corporale, distruggere l’anima ed il corpo nell’inferno (Lc 12,5; Mt 10,28 ), è certamente presente la viva consapevolezza dell’ira di Dio» [GLNT VIII, pag.1189].
(21) Vedi T. Styczen, Essere se stessi è trascendere se stessi. Sull’antropologia di K.Woitila, in K. Wojtila, Persona e Atto, Rusconi Libri, Milano 1999, pagg.709-753, specialmente 743-759.
(22) Su questo punto vedi le profonde pagine del beato Antonio Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, CN ed., Opera vol. 24, pagg. 471-473.
(23) Messale Romano.
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