domenica 10 luglio 2016

L’uomo non è un fungo



di Costanza Miriano
Siamo stati qualche giorno al mare nel basso Lazio. Alla fine della giornata andavo a correre: avevo fortunosamente trovato una chiesa a tre chilometri dalla casa, e andavo a messa correndo (facendo un giro largo): in pantaloncini corti, con una gonna di chiffon avvoltolata nel pugno, per non entrare in chiesa con le cosce nude. Nel tragitto tutte le sere ho incontrato lavoratori che spuntavano alla spicciolata dai campi coltivati. Andavano in bici, sudati, scuri di pelle e nello sguardo, stanchi. Avevo anche un po’ paura di loro, come peraltro di ogni altro uomo che avessi incontrato da sola mezza nuda nella campagna deserta, per cui evitavo di incrociarne lo sguardo, ma quando mi è capitato non ho visto sorrisi amichevoli. Alcuni di loro erano certamente musulmani, molti avevano lunghe barbe nere. Ho provato riconoscenza per loro, e timore e disappunto e tenerezza, e l’ho scritto in un post su facebook che ha scatenato fiumi di stupidaggini e cattiverie e anche insulti. Ecco il post.
Finita la nostra breve vacanza nel golfo di Gaeta, lascio un pensiero riconoscente ai lavoratori stranieri dei campi, quelli che ho incontrato tutte le sere correndo in mezzo alle coltivazioni. Non vi ho salutati perché so che per quelli di voi che sono musulmani una donna poco vestita, come me quando corro, è una poco di buono, e perché eravamo in mezzo al nulla. Ma vi sono grata perché penso che sia grazie a voi se ho potuto mangiare tanta frutta e verdura buonissime e a poco prezzo. Credo che ci sia qualcosa che non va in questo. Voi dovreste avere un lavoro in mezzo alle persone a cui volete bene, e fare il contadino dovrebbe essere un mestiere allettante e remunerativo anche per chi è nato qui. Intanto comunque grazie delle pesche e dei meloni e del basilico e dei cetrioli”.
Sinceramente non mi spiego proprio certe reazioni. Sono certa, per quanto mi riguarda, di non avere nessun sentimento razzista, se per razzismo intendiamo l’idea che qualcuno sia inferiore a qualcun altro per il solo fatto di appartenere a un altro popolo e cultura, indipendentemente dalle sue qualità personali. Sono invece profondamente razzista se con la parola intendiamo la convinzione che ogni uomo è condizionato, oltre che da alcuni elementi biologici da cui non può prescindere, anche dalla sua cultura e, per quanto mi riguarda, soprattutto dalla fede. Credo che questa questione sia centrale ormai. Lo mostra l’ossessione sempre più diffusa in Occidente per il multiculturalmente corretto, e lo dimostra la cautela con cui sia il Papa sia Obama, tanto per dire i due principali, maneggiano la patata bollente della sfida Jihadista nel mondo islamico.
Il multiculturalmente corretto raggiunge livelli demenziali ormai, non si può dire più niente su certe culture – vedi discorso di Ratisbona – senza scatenare levate di scudi e grida isteriche. Vogliamo allora dire che è un bene che ci siano lavoratori provenienti da lontanissimo che vengono sicuramente sottopagati per lavorare i nostri campi, separati dalle famiglie e dalle origini, sottoposti alle (non)regole del lavoro nero, senza tutele, senza più radici, separati dalla loro cultura e da un luogo nel quale vivere serenamente la loro fede? Vogliamo negare che è un peccato che a causa delle nuove modalità di diffusione delle merci e delle mille imposizioni burocratiche dell’Ue è quasi impossibile mantenersi dignitosamente facendo il contadino, ed è difficile anche se si è proprietari delle terre, vivere del loro frutto? (Ci ho fatto diverse inchieste da giornalista del tg3, tra l’altro). Non posso dire dunque che mi dispiace per loro che siano costretti a lavorare qui, e che uno degli elementi di sofferenza per loro è lo sradicamento?
Cosa c’è di offensivo nel dire che l’islam in generale, senza arrivare all’Isis, ha un’idea della donna molto diversa da quella che abbiamo qui in occidente, un’idea che, anche se non è la mia, rispetto in molte sue parti, per quello che ne so? Ma se i miei detrattori me lo ricordano tutti i giorni, che ci sono oltre tutto tanti luoghi in cui le donne non possono parlare, guidare, studiare, e devono essere sottomesse, e non nel senso paolino? È una mia invenzione la poligamia? È una mia invenzione il velo? Sono mia invenzione le storie della atlete di paesi musulmani a cui è stato impedito di correre scoprendo troppo il corpo, donne che magari sono scappate proprio per correre le Olimpiadi? È un fatto che per le strade di Gerusalemme un sacco di uomini abbiano fatto commenti irripetibili (me li hanno tradotti) perché avevo un top che lasciava le spalle scoperte (quando l’ho capito ho rimediato velocemente).
Ora ovviamente sto semplificando, l’Islam è molte cose diverse, si incultura diversamente e ha più correnti al suo interno (tante nordafricane corrono in pantaloncini corti, è vero, ma molte altre non possono), ma io credo che la questione crei un corto circuito nei campioni della tolleranza: tutto ciò che è bianco e maschio e cattolico è cattivo e aggressivo, gli altri sono sempre vittime del nostro imperialismo culturale.
Non è così. Lo scontro culturale è un dato di fatto, l’idea che si possa convivere in modo indolore è falsa e sottilmente cattiva, perché non riconosce il valore dell’appartenenza a qualcosa di diverso, che l’altra persona fatica a lasciare. Ho incontrato la famiglia di profughi siriani portati in Italia dal Papa, mantenuti dal Vaticano in un meraviglioso alloggio nel cuore di Trastevere (in attesa che trovino lavoro); quando ho chiesto se desiderino tornare a casa sono scoppiati a piangere, eppure avevano avuto ciò che neanche nella più sfrenata delle fantasie avevano osato desiderare. Un uomo senza storia non ha futuro, ha detto il padre, mentre la moglie, velata, piangeva.
Cosa c’è dietro questo nostro desiderio di abbandonare la nostra cultura per affrettarci a riconoscere la superiorità delle altre, a tacciare di razzismo ogni affermazione di differenza? Il discorso sarebbe molto ampio e complesso, ma ho la sensazione che l’idea di uomo percepita dal pensiero unico mediatico come auspicabile, come ideale, è quella di qualcuno estremamente flessibile, pronto a spostarsi, senza radici, senza appartenenza, senza cultura e senza fede, e possibilmente anche senza sesso, fluido in tutto, pronto a correre dove le necessità economiche lo ritengono più utile e produttivo, un uomo culturefluid, genderfluid, religionfree. L’uomo Imagine (nessun paese, nessuna religione, nessun possesso). Ce l’hanno venduta come espressione della massima libertà, ma la libertà non è non appartenere a niente e nessuno. La libertà è amare profondamente ed essere amati, appartenere intimamente a una storia, avere radici e cultura e avere l’autonomia di giudicarle, e di trattenere ciò che è buono, ciò che fa per noi.
Perché, la notizia è sempre quella, l’uomo non è Dio, e non può autodeterminarsi in tutto e per tutto. L’uomo non è un fungo che spunta dal nulla dopo una pioggia, anche per il suo figlio prediletto, Gesù, Dio ha scelto che appartenesse a un popolo, che nascesse in un luogo preciso, in un punto esatto della storia, figlio di una serie di generazioni che lo hanno atteso. L’uomo, ogni uomo, non è un grumo di cellule, è un figlio amato, che a differenza dell’animale nasce in una storia fatta anche di cultura, in un luogo preciso, in una catena di vicende, di uomini e donne che lo hanno preceduto e lo hanno portato fin lì. Solo quando si appartiene con certezza a qualcosa si può essere veramente liberi.