domenica 24 luglio 2016

Nessun profeta è per sempre




Luigino Bruni

Molte volte Dio donandoti ti nega, e negandoti ti dona
Ibn Atà, Antologia della mistica arabo-persiana​

«Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato (...) Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali (…) E dissi: "Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, YHWH Sabaot"». (Is 6,1-7).

Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore. Le vocazioni accadono in un luogo e in un giorno precisi, che restano scritti per sempre nel libro della vita e nel cuore del profeta. «Qui il Signore parlò a Francesco», ci dicono le guide quando visitiamo San Damiano, ad Assisi. "Qui, esattamente trentuno anni fa, incontrai per la prima volta tua madre". "Qui, il 27 agosto 1981, ho sentito la voce che mi ha chiesto tutto, a cui ho creduto e ho dato tutto". Qui, in quel giorno. Non c’è nulla al mondo più concreto di una vocazione. Ed è lì che spesso si torna quando la voce non parla più, per chiamare lo spazio e il tempo a testimoniare che quell’incontro non è stato solo illusione. Per sperare che quel luogo che c’è ancora faccia "risorgere" il tempo che non c’è più. Sono molti i pellegrinaggi dello spirito dove si parte per chiedere che quel luogo torni a parlare ridonandoci vivo il tempo del primo incontro.

Le vocazioni non sono mai soltanto, né principalmente, una faccenda psicologica o dell’anima. Ci parlano la terra, il cielo, le chiese, le fabbriche, l’ufficio, il roveto. Le parole dell’anima sono insufficienti per raccontare che cosa è successo in quel giorno.

L’uomo antico aveva un linguaggio più ricco del nostro per descrivere la vita e quindi narrare le vicende dello spirito. Sapeva che nei grandi giorni della vita - che sono pochissimi oltre quelli della nascita e della morte - si compie una misteriosa alleanza tra tutta la natura. Tutto ci parla, tutto è un coro polifonico di voci diverse e concordi. Gli uomini antichi, e tra questi quelli della bibbia, avevano ancora altre risorse. Nel loro universo non c’era soltanto la natura che sentivano molto più viva di quanto riusciamo a sentire noi nel nostro mondo disincantato.

La loro terra era abitata da angeli, serafini, cherubini, e soprattutto c’era Dio, che era realissimo nella vita della gente. Non abitava sopra il sole, non stava lì ad attenderci dopo la morte. Era avvertito vivente in mezzo al suo popolo, la sua gloria riempiva «tutta la terra» (6,3). Proprio perché non si vedeva né toccava era realissimo e non era un idolo. 
La Bibbia ha generato un umanesimo capace di autentici miracoli civili e morali perché ha odiato gli idoli. Noi oggi non abbiamo prodotto una cultura atea, ma siamo molto più banalmente regrediti in un mondo strapieno di idoli. È necessario avere il senso di Dio anche per poterlo negare, altrimenti si è non credenti di un dio ridotto a idolo.

È l’ateismo idolatrico il grande fenomeno collettivo del nostro tempo, vasto almeno quanto lo è l’idolatria di massa. Gli atei del Dio biblico sono stati sempre molto pochi, e oggi sono quasi scomparsi nel nostro pezzo di mondo, perché non conoscendolo non possono neanche negarlo. Anche Isaia ci conduce dentro il mistero della sua vocazione. Da grande poeta qual è, usa tutti i colori della sua tavolozza simbolica per raccontarci il suo giorno più importante. Come in tutte le vocazioni bibliche anche per lui la prima emozione non è la gioia ma il timore.

È cosciente di star vivendo una esperienza straordinaria, di vedere cose mai viste né udite prima (né dopo). E sente la sua inadeguatezza a stare dentro quell’incontro, che col suo linguaggio chiama "impurità". Quando si vivono momenti di luce la gioia accompagna sempre la naturale paura: se fosse soltanto la paura la protagonista dei nostri incontri identitari non formeremmo nessuna famiglia, non entreremmo in nessun convento, non daremo vita a nessuna impresa.

Qui Isaia però ci sta raccontando qualcosa di specifico: la sua vocazione a diventare profeta. La vocazione profetica ha note sue tipiche. Non è l’unica vocazione di una persona, né, in genere, dura per sempre né è sempre attiva. Isaia, prima di ricevere questo specifico compito era già dentro una storia di fede. Probabilmente operava da anni nell’ambiente sacerdotale del tempio di Gerusalemme.

Conosceva, viveva e insegnava la fede di Israele. Un giorno, però, nel suo cammino esistenziale accade un evento nuovo, inatteso, speciale: gli viene rivolta una chiamata specifica: diventare profeta. Profeti non si nasce, si diventa.
Il profeta è un uomo, una donna, che nella normalità della sua vita, qualche volta (non sempre) già giusta e buona, un giorno riceve una chiamata a svolgere un compito. Non lo immaginava, non era nei suoi piani, perché nessuna vocazione profetica è nei piani della persona che la riceve: se così fosse il profeta diventerebbe padrone del proprio compito e le sue parole sarebbero soltanto quelle frutto della sua povera voce.

La vocazione profetica non coincide con la vocazione professionale, artistica, famigliare, neanche con la vocazione religiosa. Molti profeti erano già sposati, già monaci o suore, quando un giorno, un preciso e benedetto giorno, fanno un incontro speciale e diventano ciò che non erano ancora. E poi, un altro giorno, un benedetto giorno, terminano il loro compito, e tornano a casa, come tutti.

Nessuno è profeta per sempre. I profeti sanno che la loro profezia è compito, è un dono che li abita e che un giorno li lascerà e dovranno reimparare a vivere e morire, come tutti. Solo i falsi profeti lo sono per sempre. I profeti si perdono e tradiscono la loro vocazione quando non capiscono che è giunta l’ora di "tornare a casa", o lo capiscono troppo tardi.
Ricevere una vocazione profetica è allora la sorpresa più grande che può capitare ad un vivente sotto il sole. Una vocazione che è all’opera anche in molti profeti che nel giorno della chiamata non si trovavano, diversamente da Isaia, dentro un tempio, che non hanno "visto" «YHWH Sabaot» assiso sul trono, né i serafini. Ma anche loro, in un incontro decisivo con una voce che li chiamava dentro, hanno ricevuto un compito inatteso, e si sono sentiti inadeguati e impuri.

Se i profeti fossero solo quelli capaci di chiamare Dio la voce chiamante, la terra sarebbe un luogo infinitamente più povero, brutto, triste, invivibile. Ci sono molti uomini e donne che si ingannano e ingannano seguendo voci sbagliate, che qualche volta chiamano anche Dio; ma ci sono molti altri che salvano e si salvano seguendo voci vere che non sanno riconoscere, ma alle quali sanno rispondere: "Eccomi, manda me".

Fu questa anche la risposta di Isaia. Senza l’Eccomi non inizia nessuna profezia. Ogni vocazione è alleanza, patto, nozze. Non basta il compito assegnato, occorre anche l’Eccomi, la risposta libera di chi è chiamato. Molte profezie non si compiono perché i chiamati non riescono a pronunciare l’Eccomi dopo la chiamata. Ma l’umanità continua a vivere e a sperare perché tanti sanno ancora rispondere "Eccomi, manda me", anche intuendo che quella chiamata non è per la loro felicità.
Misterioso e sconvolgente è il contenuto del compito profetico di Isaia, che grazie ad una lettura "particolare’" di Matteo (13) e Giovanni (12), ha influenzato una certa teologia cristiana e persino un certo anti-semitismo: «Dio disse: "Va’ e riferisci a questo popolo: ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito"» (6,9-10). «Io dissi: "Fino a quando, Signore?"» (6,8-11).

L’onestà e la verità del profeta non stanno nel contenuto della profezia, ma nella fedeltà al mandato ricevuto. Raramente i profeti amano l’annuncio che per vocazione devono portare. Non è chiesto loro di amare le parole che pronunciano. Solo soltanto servitori fedeli di parole non proprie. Ma possono e devono chiedere: "Fino a quando?" (6,11). Fino a quando durerà l’indurimento del cuore, il dolore del mio popolo? La vigna è ormai guastata e smantellata (cap. 5), i cuori e gli orecchi sono già induriti, gli occhi già accecati. In questi casi, molto comuni, il profeta con la sua parola non converte il popolo (cioè i suoi capi), ma ottiene solo l’esasperazione degli occhi, delle orecchie e del cuore, e la sua persecuzione.

È questo il destino del profeta, sempre, ma soprattutto nei tempi delle crisi gravi. Quando la vigna si è guastata ed è tornata selvatica, il sole e la pioggia non fanno altro che rendere più abbondanti i suoi frutti cattivi. Isaia lo aveva intuito, forse, già in quel primo giorno. O lo capì quando anni dopo iniziò a scrivere il racconto della sua vocazione, primo testimone dell’insuccesso della propria missione. È così che i profeti muoiono, è così che concimano la terra dei figli di tutti.
Il capitolo della vocazione di Isaia si chiude con una nota di speranza: «Ne rimarrà una decima parte, ma sarà ancora preda della distruzione come una quercia e come un terebinto, di cui alla caduta resta il ceppo: seme santo il suo ceppo» (6,13). Anche un tronco di una quercia caduta può gettare un nuovo pollone, se ancora vivo è il suo primo seme. I profeti mentre annunciano la caduta degli alberi, sono i custodi del seme buono.

I popoli e le comunità continuano a indurire il loro cuore, a non capire i profeti, a schiacciare i poveri. Ma i profeti continuano il loro canto, e a chiedere "fino a quando?". Guai a loro, guai a noi, se smettessero di cantare.

l.bruni@lumsa.it