lunedì 1 agosto 2016

Grandezza della libertà e della verità



Anticipiamo ampi stralci della testimonianza, a firma dell’arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, raccolta da Roberto Cutaia nel volume in uscita in questi giorni "Giacomo Biffi. Il cardinale dal profumo di Cristo" (Città del Vaticano, Lateran University Press, pagine 114, euro 15)
(Rino Fisichella) «Dopo i primi minuti che ascolto una relazione incomincio ad arricciare il naso e penso dove il conferenziere vuole andare a parare. Con lei non è successo, sono rimasto in ascolto per tutto il tempo e condivido tutto quanto ha detto. Grazie!». Sono le parole che il cardinale Biffi con estrema generosità e il suo sorriso accattivante mi confidò all’orecchio dopo una mia relazione ai sacerdoti di Bologna.
Ci eravamo già incontrati in altre circostanze, ma devo confessare che parlare ai suoi sacerdoti nei rituali incontri mensili che si svolgono, mi aveva messo un po’ in agitazione. Ero vescovo ausiliare di Roma da alcuni mesi ed essere invitato dal cardinale Biffi non era un affare da poco. La sua gentilezza e affabilità unita sempre a quella bonomia sorridente coniugata con una buona dose di ironia, mi ha permesso di trovare in lui spontaneamente una porta aperta all’incontro interpersonale. Quelle parole, comunque, le porto con me come segno di stima e affetto per un giovane confratello che ha sempre incoraggiato in ogni occasione.
L’impressione che ho ricavato dagli incontri con lui, d’altronde, si può riassumere in una semplice espressione: Ubi fides ibi libertas. Sono parole di sant’Ambrogio che ho motivo di pensare abbiano segnato l’intera vicenda di Giacomo Biffi. Non è certo un caso se ha voluto porre questa espressione come paradigma all’autobiografia raccolta nel significativo titolo di Memorie e digressioni di un cardinale italiano. Mi ha sempre colpito la sua libertà di parola, accompagnata da un sorriso tutt’altro che ingenuo soprattutto quando era chiamato a delineare vizi e virtù di questo peculiare momento della nostra storia. La sua libertà è derivata da una profonda fede che ha plasmato e dato profondità all’intelligenza. Chi crede, infatti, non può fermarsi a descrivere la realtà, ma è chiamato a cogliere la profondità della vicenda umana per aprirla a quello spazio di trascendenza che va oltre ogni limite per spalancargli l’Eterno. È in questo senso che si può ripercorrere la vicenda intellettuale del cardinal Biffi. Chi ha avuto la fortuna — come l’ho avuta io — di addentrarsi nelle dense pagine della sua tesi in teologia Colpa e libertà nell’odierna condizione umana, allora potrà comprendere a fondo la personalità di Giacomo Biffi. Qui, infatti, trovano sintesi due concetti fondamentali per la vita cristiana: la forza della grazia e la debolezza del peccato. Dinanzi a questo binomio si dipana la grandezza della libertà personale che inserita in Cristo sa riconoscere il proprio percorso di realizzazione, evitando la schiavitù del male. Mi inviò questo suo testo con una semplice dedica: «A monsignor Rino Fisichella. Auguri!». L’interpretazione che diedi non fu solo la prossimità del Natale. In quel “Auguri” c’era molto di più. Era l’invito a poter entrare in un mondo che spesso dimentichiamo mentre è essenziale per dare senso alla vita. Pagine che scorrono ripercorrendo secoli di storia con le differenti interpretazioni della problematica, ma soprattutto che prospettano la via della salvezza come unico sentiero percorribile per un’esistenza autenticamente libera. «Il peccatore non è solo un ribelle alla Legge, ma è un ostinato, insensibile, impermeabile a quel dono libero e soprannaturale col quale Dio vorrebbe continuamente risanare le sue ferite. In una parola, è un ribelle all’Amore». Parole ardue e insieme audaci che delineano il percorso della fede come una genuina offerta di libertà e verità. È alla luce di questa drammatica condizione che si pone la fede come possibilità per dare all’esistenza umana la sua definitiva e compiuta vocazione.
Non posso tralasciare la “parresia” della parola del cardinal Biffi. Con intelligenza e acutezza, ha saputo cogliere con lungimiranza i cambiamenti della nostra epoca. Non si è limitato a denunciare i limiti di una visione unilaterale della cultura che in questi anni sotto il nome di “progresso” e di “laicità” ha imposto la sua visione del mondo, ma ha offerto con simpatia percorsi differenti. Questi avrebbero meritato molta più attenzione piuttosto che la facile polemica politica. Un ascolto saggio avrebbe evitato, forse, di doversi trovare dinanzi alle gravi difficoltà in cui da decenni ormai questo Paese languisce. Apparsa la sua riflessione sull’immigrazione, anche Giacomo Biffi ha subito lo sport meglio praticato in questo Paese: quello della critica feroce senza aver letto il testo, dell’insulto gratuito e della demonizzazione del pensiero. Riprendere tra le mani alcune sue considerazioni, a quindici anni di distanza, consente di verificare la lungimiranza di quelle parole e la differente accoglienza che avrebbero meritato, soprattutto presso la classe dirigente. «Ciò che dobbiamo augurare al nostro Stato e alla società italiana è che si arrivi presto a un serio dominio della situazione in modo che il massiccio arrivo di stranieri nel nostro Paese sia disciplinato e guidato secondo progetti concreti e realistici di inserimento che mirino al vero bene di tutti, sia dei nuovi arrivati sia delle nostre popolazioni. Chi viene da noi deve sapere subito che gli sarà richiesto, come necessaria contropartita dell’ospitalità, il rispetto di tutte le norme di convivenza che sono in vigore da noi, comprese quelle fiscali. Diversamente non si farebbe che suscitare e favorire perniciose crisi di rigetto, ciechi atteggiamenti di xenofobia e l’insorgere di deplorevoli intolleranze razziali. Una consistente immissione di stranieri nella nostra penisola è accettabile e può riuscire anche benefica, purché ci si preoccupi seriamente di salvaguardare la fisionomia propria della nazione. L’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza una inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto».
Il richiamo all’identità del Paese, come si nota, prima ancora di essere un’esigenza culturale, è appello alla coerenza con la propria storia. Il realismo del cardinal Biffi, comunque, lo spingeva a scrivere ancora: «Compito primario e indiscutibile delle comunità ecclesiali è l’annuncio del Vangelo e l’osservanza del comando dell’amore. Di fronte a un uomo in difficoltà — quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza — i discepoli di Gesù hanno il dovere di amarlo operosamente e di aiutarlo a misura delle loro concrete possibilità. Il Signore ci chiederà conto della genuinità e dell’ampiezza della nostra carità e ci domanderà se abbiamo fatto tutto il possibile. Su questo però — sarà bene che nessuno se lo dimentichi — noi siamo tenuti a rispondere non ad altri, ma solo al Signore».
L’accoglienza, l’assistenza e la solidarietà non possono essere neutrali. La sua lettera pastorale del 1992 Guai a me..., ha permesso di puntualizzare la presenza e l’azione pastorale della Chiesa nel suo specifico. Per questo le sua parole risuonano ancora con estrema importanza. «Dovere statutario della Chiesa cattolica e compito di ogni battezzato è di far conoscere esplicitamente Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio morto per noi e risorto, oggi vivo e Signore dell’universo, unico Salvatore di tutti. Tale missione può essere coadiuvata ma non surrogata dall’attività assistenziale che riusciremo a offrire ai nostri fratelli. Suppone la nostra attitudine al dialogo sincero, aperto, rispettoso con tutti, ma non può risolversi nel solo dialogo. È favorita dalla conoscenza oggettiva delle posizioni altrui, ma si avvera soltanto nella conoscenza di Cristo cui noi riusciamo a portare i nostri fratelli, che sventuratamente ancora non ne sono gratificati. Inoltre l’azione evangelizzatrice è di sua natura universale e non tollera deliberate esclusioni di destinatari. Chi ci contestasse la legittimità o anche solo l’opportunità di questo annuncio illimitato e inderogabile, peccherebbe di intolleranza nei nostri confronti: ci proibirebbe infatti di essere quello che siamo, vale a dire “cristiani”; cioè obbedienti alla chiara ed esplicita volontà di Cristo. È molto importante che tutti i cattolici si rendano conto di questa loro indeclinabile responsabilità. E per essere buoni evangelizzatori, persuasi dentro di sé e persuasivi nei confronti degli altri, essi devono crescere sempre più nella intelligenza e nella gioiosa ammirazione degli immensi tesori di verità, di sapienza, di consolante speranza che hanno la fortuna di possedere: è una effusione sovrumana, anzi divinizzante di luce, assolutamente inconfrontabile con i pur preziosi barlumi offerti dalle varie religioni e dall’islam; e noi siamo chiamati a proporla appassionatamente e instancabilmente a tutti i figli di Adamo».
Insomma, il ricordo del cardinal Biffi mi pone dinanzi all’urgenza della coerenza e della fedeltà al Vangelo. Nel suo intervento al conclave che avrebbe eletto Benedetto XVI, rivolgendosi al futuro Papa ha avuto occasione di dire: «Il Signore Gesù non gli chiederà di risolvere tutti i problemi del mondo. Gli chiederà di volergli bene con un amore straordinario». Parole che mi sembra siano state vissute dall’arcivescovo di Bologna per la sua Chiesa.

L'Osservatore Romano