lunedì 26 settembre 2016

“Bridget Jones’s baby” e le solitudini contemporanee

cegrab-20160629-103729-0-edit-1-2048x1536_3492092
di Giacomo Bertoni
Lo ammetto, non ho resistito: sono andato al cinema a vedere “Bridget Jones’s baby”. Parliamoci chiaro, in questi tempi di incertezza e spaesamento, l’immagine di noi soli su un divano, con la musica alta e una confezione di gelato (personalmente preferisco la pizza surgelata), è molto reale. Sì, siamo divisi fra scuola o università, lavoro, volontariato, sport… Ma il momento “chi sono?” “dove vado?” “cosa sto combinando?” è spesso presente, e il gelato è una compagnia ottima. Il terzo capitolo delle disavventure di Bridget Jones si apre con questa immagine storica, nella quale è facile identificarsi. Ma l’evoluzione (che, prometto, farò di tutto per non spoilerare) è un limpido specchio dei nostri tempi.
Tutto parte da un profondo senso di solitudine, misto al rimpianto di non aver avuto figli. Nonostante una carriera brillante, Bridget Jones sente che le manca qualcosa. E si sente profondamente sola. I suoi grandi amori sono irraggiungibili: uno si è sposato, l’altro è morto. Alcune amiche care hanno formato le loro famiglie (delle quali emerge un’immagine decisamente poco accattivante), mentre altre rincorrono il tempo che passa lanciandosi in divertimenti sfrenati (e non è retorica). Per un attimo, ci casca anche la nostra Bridget, ma basta una notte per cambiare definitivamente la sua vita.
Ho qui accanto un bigliettino con scritto “non spoilerare!”, quindi non entrerò nei dettagli della trama. Ma vorrei segnalarvi alcune cose, come l’idea di fondo: il desiderio di un figlio. Non visto come dono giunto al culmine di un progetto di vita, una vita costruita e adattata pensando ai diritti inalienabili del bambino, primo fra tutti quello di nascere e crescere in una famiglia che lo ha atteso, con un padre e una madre amorevoli. Ma raccontato come un desiderio da realizzare, quasi come fosse un obiettivo lavorativo o un nuovo acquisto importante per la casa. Ritorna spesso la frase “posso farcela anche da sola”: non ci sono dubbi che una donna possa cavarsela da sola. Ma il bambino non può farcela da solo. Attorno a questi desideri appaiono numerosi richiami alla maternità surrogata (ovviamente il termine “utero in affitto” è proibito), che mostrano tutta la loro ideologica persuasione.
“Magari potranno fare qualcosa i genitori di Bridget”, si augura a un certo punto lo spettatore confuso. Ma la speranza è la prima a morire. Il padre è totalmente privo di riferimenti morali, una banderuola sorridente che dovrebbe essere rassicurante ma in realtà è raggelante. La madre invece, candidata alle elezioni del consiglio parrocchiale, difende i diritti della famiglia, e per questo è presentata come una bigotta ignorante, anche parecchio kitsch. “Se non cambi idea perderai le elezioni”, le dirà a un certo punto Bridget, perché oggi difendere la famiglia è un ostacolo per raggiungere il potere. Tutto cambia insomma.
Cambia Bridget Jones, cambia Renée Zellweger (perché, perché?), cambia il mondo dell’informazione (questa sì, una vera analisi da salvare). Dopo questo film siamo ancora sul divano, con l’immancabile gelato. Forse non sappiamo ancora chi siamo, dove andiamo. Ma di sicuro non vogliamo andare dove porta il vento del pensiero unico.