giovedì 22 settembre 2016

Cosa mi salvò quando morì mia figlia. E dopo

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di Fiammetta Portinari  per La Croce quotidiano
Il fatto di cronaca recente riguardante l’eutanasia applicata ad un diciassettenne belga ha sollevato un ampio dibattito e questo è doveroso, perché il tema è scottante, critico, cruciale direi. C’è chi ha fatto discorsi generali sulla perdita di umanità di una società che preferisce suggerire la morte rapida ai suoi malati sofferenti piuttosto che occuparsi di curare e lenire il loro dolore. C’è chi ha esaltato la ricchezza che il malato costituisce per chi gli sta accanto, magari raccontando la propria toccante e tragica esperienza.
Dall’altra parte, il solito trito e ritrito argomento: ma chi sei tu per giudicare. Non si può giudicare il dolore di un malato, la sua disperazione o la sua determinazione ad andarsene. Non si può giudicare il dramma dei genitori di un minore terminale e il loro desiderio di porre fine alle sue sofferenze. Ciascuno ha il diritto di decidere per sé e arrangiarsi nella propria sofferenza come meglio crede. In questo dibattito tra sordi, mi inserisco io, con il racconto umile e scalcagnato della mia esperienza.
Io ho accompagnato una figlia al cimitero, dopo esserle stata accanto nel peregrinare ospedaliero, tra interventi, ricoveri e visite. Avevo a casa altre due creature, avevo un lavoro, avevo una vita perfetta prima che mi capitasse tra capo e collo questa disgrazia. Quello che non avevo era una fede decente a sostegno, quindi ero esattamente come la maggioranza delle persone: sola, dispersa e seccata.
La mia bambina aveva bisogno della mia presenza, delle mie cure, del mio amore. E a me costava tanto sacrificare tutto il mio tempo restando seduta su una sedia di fianco ad un letto in ospedale, parlando coi medici, assistendo alle cure inevitabilmente anche un po’ tortura. Non c’era nessuna poesia nel suo pianto flebile e nel mio cuore sfranto, non c’era nessuna aulica benedizione celeste in quella sofferenza innocente e nella mia stizzita impotenza, non c’era niente da imparare dall’incedere lento e inesorabile delle lancette tra un giro visita e l’altro. Io avrei mollato, se avessi potuto. Ma una via di fuga non c’era, semplicemente mettevo un piede davanti all’altro e da mattina si faceva sera, da sera si faceva mattina. Poi mia figlia peggiorò, il destino incedeva più svelto.
All’ultimo arrivo al pronto soccorso i medici mi dissero: «Signora, sua figlia è in pericolo di vita» e restarono allibiti dalla mia faccia impassibile. Ma quello era un lutto che io avevo già elaborato, loro che ne sapevano del futuro che non mi era stato concesso di immaginare? Che ne sapevano delle percentuali di sopravvivenza che ad ogni visita si assottigliavano? Che ne sapevano dei pianti stanchi sul tavolino dell’ospedale, davanti ad un piatto di patate lesse, mentre guardi la flebo scendere lentamente? Poi l’ultima notte in terapia intensiva, di fianco a quel corpicino sofferente che lottava, mentre io cadevo dal sonno, afflosciata sulla poltrona a lato del letto.
Mi ha svegliato di soprassalto il fischio del monitor: cuore fermo. Veloci medico e infermieri mi hanno invitato a uscire, mentre praticavano l’ultimo disperato e inutile tentativo di rianimazione. Venti minuti. Fuori. Vuota. Per la prima volta ho pregato, una preghiera assai poco nobile: Signore, falla morire, oppure fa morire me, che è lo stesso. E intanto guardavo a che piano eravamo, caso mai fosse servito fare un volo. Non servì, perché il medico uscì affranto per annunciarmi che era morta. Io allora piansi, perché non stava bene non piangere. Poi piansi perché mi sentii in colpa, come se l’avessi ammazzata io. Poi piansi perché mi sentivo inutile, perché non avevo più nessuno di cui prendermi cura con tanta assiduità. Poi piansi perché non riuscivo a dare un senso a tutta questa vicenda, un cumulo assurdo di dolore insensato, senza lieto fine. Piansi per giorni e giorni. Poi smisi di piangere e tentai il suicidio.
Per dire che il dolore più grosso mi cadde addosso dopo, quando in teoria tutto doveva lentamente e mestamente evaporare in una luccicante e commovente nuvola di ricordo. E invece no, il dolore era rovente per aver amato poco e male: pur non essendo un’aggravante in senso medico, era senz’altro per me concausa della morte di mia figlia, del suo arrendersi e cedere, alla fine, all’affanno di un cuore malato. In questa storia non avete notato che manca qualcosa? Manca il punto di vista del malato, manca lei, la mia piccolina occhi grandi. Lei che sentiva la mia voce dal corridoio ed esultava nella culla, lei che smetteva di piangere quando la prendevo in braccio, anche se l’ago continuava a perforarle il piede; lei che una volta rise, con un’espressione beata come io non ne avevo mai vista sul volto di nessuno, guardando dietro le mie spalle, guardando chissà chi che io non vedevo, e poi si addormentò come in paradiso. Lei non ci pensava proprio a morire, ma se io avessi pianto di continuo, se io fossi crollata sul pavimento tutti i giorni, certo avrebbe lottato di meno.
Tra un figlio malato e i suoi genitori esiste un legame che va al di là dell’affetto, è un debito di vita, un parassitismo esistenziale reciproco, una simbiosi. Il primo che cede, tira giù tutto, tira giù tutti. E non è un bel cadere. Nel dolore che a volte, maledetto e farabutto, attanaglia una famiglia colpendo il suo membro più piccolo e fragile, non c’è nessuna nobiltà e nemmeno nessuna colpa: capita e basta ed è uno schifo. Ma non ci sono scorciatoie, non ci sono vie facili per uscirne sani, ogni strada è una strettoia spinosa, ogni cura è un calvario, ogni scelta alternativa un grado di giudizio spietato, ogni esame un verdetto. Di queste storie dal finale già certo importa drammaticamente tratteggiare il “come” molto più che il “quando”, perché il figlio malato smetterà di patire ma i genitori no, essi resteranno a far da memoriale ad ogni lacrima versata e ripercorreranno ogni attimo in cerca del sollievo che solo una coscienza retta può dare.
Nella storia di mia figlia non trovo uno spazio per infilare l’eutanasia, è una possibilità che non mi è mancata. Ma se ci fosse stata e i medici mi avessero parlato di lenire sofferenze (le sue, per intendere poi le mie), forse l’avrei presa in considerazione, nel grigiore squallido dell’ospedale, nell’odore insistente di disinfettante, nella stanchezza di una situazione poco sostenibile. Però sinceramente avrei gradito di più un letto accanto alla culla di mia figlia, invece che una poltrona, e magari un pasto decente al posto di riso e patate lesse tutti i giorni. Anche uno psicologo che ti dice “ce la puoi fare” invece di uno che ti prospetta quanto sarebbe bello se tua figlia morisse subito, avrebbe sortito qualche effetto positivo. Per dire che non è vero un fico secco che ciascuno è libero di scegliere: in quei momenti non sei libero, sei distrutto, fragile, bisognoso di tutto, sopra ogni cosa affamato di umanità e conforto. A
gli avvoltoi sciacalli travestiti da angeli della morte che si fanno vicino con espressione accorata per dirti che, se vuoi, può finire tutto con un’iniezione, bisognerebbe far provare la disperazione cieca e incolmabile che divora il cuore di un genitore placcato da un senso di colpa irrazionale e immotivato, figuriamoci poi se ha firmato il modulo che decreta la morte del figlio! E in ultimo, io sono ancora viva solo grazie a Dio, che si è fatto straordinariamente vicino e si è portato via tutto il mio dolore. Non il tempo, non l’auto convincimento che va bene così. Dio. E per un genitore senza Dio che ammazza il figlio sofferente è garantito l’inferno in terra. Di là, non so.