martedì 20 settembre 2016

Il nuovo Mosè con un popolo invisibile



Anticipiamo un articolo dal prossimo numero di «Vita e Pensiero», bimestrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
(Pablo d'Ors) Dal primo momento in cui vidi il suo volto, più di trent’anni fa, compresi che Charles de Foucauld avrebbe avuto, in un modo o nell’altro, grande importanza per me. Tutti desideriamo lasciare, con il nostro pensiero e la nostra azione, un’impronta in questo mondo: creiamo famiglie, scriviamo libri, fondiamo istituzioni… Pochi, gli imprescindibili, lasciano l’impronta del loro passaggio sulla terra grazie alla loro contemplazione e alla loro passione. Charles de Foucauld fu senza dubbio uno di loro. Più che fare, e comunque fece tanto, si lasciò fare; più che pensare, e pensò moltissimo, svuotò se stesso al punto da non essere che pura ricettività.
Il suo volto, tenero e vigoroso al tempo stesso, solcato dal rigore e dall’indulgenza, è sicuramente uno specchio fedele della sua anima. De Foucauld fece della sua vita un’opera d’arte, ossia una testimonianza eloquente della gratuità. Per questo io, all’epoca ventenne, non seppi restare indifferente a uno sguardo come il suo, rivelatore di tanta pienezza. Non che oggi io abbia penetrato il segreto di grazia che modellava i suoi tratti, ma posso parlarne e scriverne con maggior cognizione di causa. Il volto di questo eremita e missionario riflette la gioia e la gratitudine che sono i segni inconfondibili del vero amore.
Per me de Foucauld è un padre del deserto contemporaneo; voglio dire che la sua vita e la sua opera, che certamente attingono alla spiritualità di figure della statura di Agostino, Benedetto, Francesco e Ignazio, rinviano a quelle dei celebri padri che popolarono copiosamente i deserti della Siria e dell’Egitto nei primi secoli di cristianesimo.
Per capire, pertanto, de Foucauld nella sua dimensione autentica occorre accostarlo a Dionigi l’Areopagita e a Efrem il Siro, a Isaia Anacoreta o a Gregorio Nazianzeno, per fare qualche nome. La sorgente cui bevvero quei padri del deserto e che in seguito avrebbe dato vita al movimento esicasta è la stessa cui bevve fratel Carlo, la cui missione — questa è la mia tesi — non fu quella di fondare alcunché di radicalmente nuovo ma di ri-inaugurare per l’Occidente una via contemplativa che nell’Oriente cristiano non aveva conosciuto soluzione di continuità, in particolare nella repubblica monastica del Monte Athos. Nella mia visione, de Foucauld ricevette il colossale incarico di recuperare quella millenaria tradizione di sapienza e di attualizzarla. È per questo che la sua opera, sempre dal mio punto di vista, non è che allo stadio iniziale. Nell’attuale secolo e in quello venturo ci renderemo conto molto meglio della rilevanza della sua figura e della portata della sua missione.
Per illustrare la mia tesi prendo sette parole che, secondo me, riflettono più compiutamente il contributo di colui che chiamiamo “fratello universale”: ricerca, coscienza, deserto, adorazione, nome, cuore e fallimento. Con esse intendo non solo render conto delle categorie fondamentali che orientarono il nostro personaggio, ma anche indicare le ragioni della sua attualità.
Ricerca. Uno sguardo superficiale alla biografia di de Foucauld (le mete dei suoi viaggi, gli abiti e le uniformi che indossò, le persone di cui si circondava, le case che abitò…) è sufficiente per constatare che la vita di quest’uomo fu davvero insolita. De Foucauld non assomiglia a nessuno. La sua vita fu un continuo pellegrinare. Diceva di sé, a seconda delle diverse epoche, che voleva essere monaco o eremita; quel che è certo è che viaggiò tantissimo, che si stabilì in luoghi diversi, che fu un pellegrino strutturale. Tali mutamenti di orizzonti, geografici ma soprattutto esistenziali, le metamorfosi costanti che lo portarono a essere oggi esploratore travestito da ebreo e domani autore di un dizionario tuareg, oggi soldato dell’esercito francese e domani giardiniere di alcune monache a Nazaret, mettono in risalto il suo costante essere in ricerca. De Foucauld non si stancò di rispondere al richiamo del suo io profondo, laddove Dio gli parlava.
De Foucauld, come Gandhi o Simone Weil ad altri livelli, fece della propria vita un autentico e continuo esperimento. Ne troviamo la ragione nella parola seguente.
Coscienza. Un’occhiata anche superficiale agli scritti di Charles de Foucauld, soprattutto diari spirituali e lettere, ci fa capire come egli abbia trascorso la vita scrutando la propria coscienza, entrando nelle motivazioni dei propri atti, rivedendo le intenzioni, esaminando minuziosamente il minimo dettaglio, come aveva imparato da sant’Ignazio, proiettando sogni con i quali dar corpo a un’intuizione, osservandosi nello specchio di Gesù Cristo, il suo Beneamato, studiando cosa fosse più consigliabile e opportuno, rimproverandosi le mancanze, ringraziando per i doni ricevuti, lodando per tanto bene e bontà, programmando l’impossibile… De Foucauld, che in gioventù fu soldato, non cessò di esserlo nel pieno della maturità. Non era solo un innamorato, inutile dirlo, ma anche uno stratega, uno che progetta il proprio donarsi: che rinforza i lati più deboli, che traccia piani per dare fecondità al suo ingovernabile amore. De Foucauld trascorse un gran numero di giorni e di ore nella più rigorosa solitudine e nel più stretto silenzio. È in questo terreno di coltura che imparò ad ascoltare. L’aspetto più sorprendente della sua personalità è che non ascoltò semplicemente se stesso e, per questa via, anche Dio e gli altri, ma che obbedì alla voce che ascoltava e, ancor più, che fece di tale ascolto e ubbidienza uno stile di vita: sempre ad ascoltare e a obbedire, sempre dentro l’avventura di essere se stesso. Sempre riconoscendo che era lui la migliore parola, anzi l’unica, che Dio gli aveva concesso.
Deserto. Fu questo lo scenario privilegiato dell’ascolto permanente, un ascolto quasi da brividi, di Charles de Foucauld. E non a caso. De Foucauld si convertì nell’Africa del Nord, sbalordito dalla straordinaria religiosità dei musulmani. Comprese il deserto dapprima in chiave metaforica, per questo provò a essere monaco inizialmente nell’Ardèche, poi ad Akbès, in Siria, quindi in Terra Santa; ma non tardò a ritornare nel deserto del Sahara, quello della sua gioventù, il suo amato Marocco e la sua agognata Algeria. Là il destino e la Provvidenza gli avevano dato appuntamento. I fenomenologi e gli storici delle religioni hanno evidenziato come il Medio Oriente sia stato la principale culla delle religioni. Non penso solo alle tradizioni monoteiste — ebraismo, cristianesimo e islam — che chiaramente hanno lì il loro ceppo, ma anche ai fenici, ai babilonesi, agli egizi… In quelle terre si recò anche il nostro de Foucauld, forse perché poche regioni della terra come queste, nella loro desolazione, sanno evocare il mondo interiore e rimettere a esso con tanta forza. Il vuoto esterno, dunque, come incitamento a quell’opera di svuotamento che nel cristianesimo chiamiamo oblio di sé o povertà spirituale. Il deserto come luogo della vittoria sulla prova o, che è poi lo stesso, come scoperta del roveto ardente o fiamma d’amore viva cui si accede oltre la notte oscura dell’abbandono e della solitudine.
De Foucauld tornò al deserto come fece Israele all’uscita dall’Egitto o come fece lo stesso Gesù Cristo poco prima di dare inizio al suo ministero pubblico. Per questo de Foucauld è, per me, un nuovo Mosè, ma senza popolo, o con un popolo invisibile. Oppure un nuovo e amorevole Giona che predica alla sua Ninive. De Foucauld è un promemoria permanente di come non si dia cammino spirituale senza deserto e purificazione.
Adorazione. In mezzo al deserto, specchio della sua coscienza e territorio delle sue ricerche, de Foucauld adorava. È una parola, questa, che oggi ci suona strana, ma adorazione significa, semplicemente e linearmente, che l’uomo non si realizza sulla via dell’ego ma quando esce dal proprio micromondo e vince quella tendenza così nefasta e generalizzata che è il possesso e l’autoaffermazione. Adorare vuol dire soltanto smettere di vivere a partire dal piccolo io per cedere il passo all’io profondo, dove abita l’ospite divino. L’adorazione, o preghiera contemplativa, è l’unica medicina per l’idolatria dell’io. «Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto» è la risposta di Gesù all’ultima tentazione con cui il diavolo lo prova. Oggi potremmo tradurre: tu non sei il centro del mondo, esci da te stesso. Ed è quanto de Foucauld faceva giorno e notte, per ore e ore senza interruzione, in ginocchio davanti al suo piccolo tabernacolo, pieno o vuoto. De Foucauld corse il rischio della solitudine e della diversità come pochi altri uomini e donne del nostro tempo. Il rischio di perdersi definitivamente.
Come pochi attraversò il muro di silenzio che gli mise davanti la sua miseria e che, dopo anni di lotte, lo condusse a una dolce, intima certezza. Che lo sappiano oppure no, tutti coloro che sono in ricerca del mistero per mezzo della meditazione hanno — abbiamo — in Charles de Foucauld un maestro insigne. Amò molto perché tacque molto. Oggi noi parliamo di lui perché si svuotò di sé.
Nome. Questa adorazione, questa nudità assoluta sempre più radicale, questo pellegrinaggio al centro stesso in cui si trova il tempio della verità, de Foucauld lo portò a termine, alla stregua dei padri del deserto un millennio e mezzo prima, con un’arma tanto semplice quanto effi cace: il dolce nome di Gesù. Pochi uomini nella storia come de Foucauld hanno lasciato una testimonianza scritta così eloquente del loro appassionato amore per Gesù di Nazaret. Perché puoi aprire uno qualsiasi dei suoi diari e una qualsiasi delle sue pagine e sempre, sempre, troverai espressioni incendiate da un ardore quasi insopportabile: «Ti amo, ti adoro, voglio donare tutto a te, quanto mi ami, quanto ti amo, ti rendo grazie, mi rimetto nelle tue mani, fa’ di me ciò che vorrai, ti lodo, mio Beneamato…». Il nome di Gesù lo accompagnò, come un instancabile mantra, per quasi tutti i minuti della sua vita. De Foucauld era un folle d’amore, un appassionato di questo nome. Uno che lasciò che il nome, e la persona che esso evoca, lo possedessero.
Ciò significa che la solitudine in cui de Foucauld visse, per quanto dura gli potesse talvolta risultare, era una solitudine accompagnata. E che il suo silenzio era sonoro, per quanto doloroso potesse, spesso, apparirgli. Una sola parola spiega l’incredibile vicenda umana di Charles de Foucauld: Gesù.
Cuore. Il nome di Gesù, incessantemente ripetuto, invocato, sognato, scritto su centinaia di migliaia di pagine, progressivamente si radicò nella sua coscienza e nel suo cuore, così che l’uno e l’altra, infine uniti in quello che potremmo chiamare il cuore cosciente, erano il luogo in cui tale Presenza risiedeva. A un certo punto della sua vita, travolto da tanto amore, de Foucauld cucì un cuore rosso sul suo abito bianco, dando una chiara prova di come quel cuore lo avesse avvinto. De Foucauld fu certamente un sentimentale, ma all’interno di una personalità poliedrica di incomparabile ricchezza. Benché la sua fosse una vocazione alla preghiera contemplativa e silenziosa, mai abbandonò l’orazione affettiva, nutrita da parole e immagini che la tenevano accesa.
Praticò quella che gli esicasti chiamano la custodia del cuore: sentire la vita, nascosta e fragile, in ogni palpito; sentire la Vita con la maiuscola in questa nostra vita, così limitata e intensa, così umana e così divina.
Fallimento. Al termine della vita, poco prima di essere assassinato, de Foucauld si ritrovò — gli erano serviti interi decenni per arrivare a questo — con le mani felicemente vuote. Si potrebbe dire che lungo la sua esistenza raccolse un fallimento dopo l’altro: ultimo della sua classe nell’esercito, da cui fu più volte sul punto di essere espulso per i suoi scandali e l’indisciplina. Fallì anche come patriota e fece abortire la sua vocazione di esploratore, gettando alle ortiche una brillante carriera professionale. Monaco fallito nella trappa di Cheikhlé. Andato a vuoto anche il suo chimerico progetto di acquistare il Monte delle Beatitudini per stabilirvisi da eremita. Inutile anche come semplice garzone o domestico. Non una sola conversione in tanti anni di apostolato.
Neppure un seguace dopo aver redatto tante bozze di Regola per gli eremiti che progettava. Ignorato dall’amministrazione civile come da quella ecclesiastica, non ebbe accanto a sé né uno schiavo liberato né un compagno per la sua missione… De Foucauld è una delle più riuscite icone del fallimento. Perché preferì gli ultimi posti ai primi, la vita nascosta a quella pubblica, l’umiliazione all’elevazione.
Per tutto questo, de Foucauld è l’immagine in cui possono riconoscersi tutti i falliti della storia. E per tutto questo vedo la gente del mondo spesso camminare in un verso, e de Foucauld in quello opposto. Non è però l’unico; ci sono altri con lui, tutti solitari, tutti folli. E il primo di questa fila è Gesù Cristo stesso, il più folle di tutti.
Termino questo lessico foucauldiano con una nota personale. Nel maggio 2014 ho fondato nella mia città l’associazione «Amigos del Desierto», una rete di meditatori, credenti e non credenti, interessati all’approfondimento e alla diffusione dell’esperienza del silenzio a partire dalla tradizione spirituale dell’esicasmo. Da allora, quasi un migliaio di persone sono state iniziate, in diversi punti della geografia spagnola ed europea, alla preghiera del cuore. E tutte, in un’occasione o nell’altra, molte anche quotidianamente, recitano le parole che de Foucauld, vero fondatore di questi Amici del Deserto, lasciò scritte come testamento: «Padre mio, io mi abbandono a te. Fa’ di me ciò che ti piace. Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto, purché la tua volontà si compia in me e in tutte le tue creature. Non desidero nient’altro, mio Dio. Rimetto la mia anima nelle tue mani, te la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo. Ed è per me un’esigenza d’amore il donarmi, il rimettermi nelle tue mani senza misura, con una confidenza infinita, poiché tu sei il Padre mio. Quando ascolto questa preghiera, talora proclamata all’unisono da centinaia di Amici del Deserto, sento salire in me una profonda azione di grazie e comprendo, come non mai, che non basta una vita per vedere i frutti di una semina».

L'Osservatore Romano