mercoledì 14 settembre 2016

Per il nostro tempo




Pubblichiamo stralci delle introduzioni a due libri — La sorpresa della fede. Il Vangelo di Matteo letto dal papa (Roma, Castelvecchi, 2016, pagine 244, euro 17,50) a cura di Santi Grasso e Alessandra Peri e "Il cammino della speranza. Il Vangelo di Marco letto dal papa" (Roma, Castelvecchi, 2016, pagine 180, euro 16) curato da Alessandra Peri — che raccolgono riflessioni di Papa Francesco. Entrambi intendono mettere in luce «il significato dei brani evangelici per gli uomini del nostro tempo, alla luce del messaggio di misericordia e di apertura alle periferie sociali ed esistenziali» proposto dal Pontefice.

La sorpresa della fede 
di SANTI GRASSO
Se c’è una novità nell’insegnamento di Papa Francesco è la sua “ermeneutica ecclesiale”. Forse la parola “ermeneutica” è sconosciuta ai più, ma esprime in maniera sintetica lo stile con cui egli interpreta la Chiesa e il modo di vivere dei singoli credenti. Infatti, se i suoi predecessori quando parlavano della Chiesa spesso ricorrevano alla Scrittura in prospettiva difensiva e apologetica, adesso invece Francesco non teme di mettere in evidenza i difetti, le irresponsabilità e quindi anche le critiche alla Chiesa che spesso nel corso della Storia si dimostra infedele alla chiamata di Dio. Molti, soprattutto i cristiani praticanti, si sono scandalizzati di questo stile che caratterizza la sua predicazione, ma in realtà nel conoscitore della Parola di Dio questo nuovo approccio non desta perplessità, né tanto meno scandalo. Esso è in perfetta linea con i primi annunciatori di quella Parola, poi fissata nel testo biblico. Nell’Antico Testamento amare il popolo di Dio e nel Nuovo Testamento amare la Chiesa non vuol dire assumere un atteggiamento di compromesso o addirittura di complicità nei confronti di difetti, devianze e infedeltà verso la Parola. Al contrario, chi ama la Chiesa e non cerca il compiacimento umano è custode della Parola che diventa critica nei confronti di ogni realtà umana, tanto più della comunità cristiana. Se la sua missione è quella della fedeltà irreprensibile alla Parola, quando ciò non avviene il dovere di un annunciatore e ancora di più di un pastore è quello di metterla in guardia. Questo stile non è altro che quello profetico che ha le sue radici profonde nell’Antico Testamento, ma che riceve la sua taratura più adeguata con la missione di Gesù. La sua profezia viene provata con il fuoco proprio attraverso la persecuzione, la Passione e l’esecuzione capitale. Si deve ammettere che Papa Francesco possiede proprio questo carisma profetico che gli nasce da una frequentazione assidua con la Parola. Chi è in sintonia con la Parola non può che sentire come inevitabile l’esercizio di una missione dalla caratura irriducibilmente profetica. Nelle sue omelie tenute nelle liturgie feriali a Santa Marta, che sono pronunciate a braccio e rivelano quindi il suo pensiero personale, commentando i brani biblici della liturgia della Parola e specialmente il Vangelo egli non propone una lettura dogmatica del testo, ma vi entra per trovare i significati teologici e spirituali penetranti, che spesso si trasformano in una critica intelligente e perspicace a difetti e vizi della Chiesa e dei cristiani. In altre parole, in sintonia con la Scrittura, il Papa ne sviluppa tutto l’aspetto critico, che ne è la dimensione più profonda.
Nel commentare il Vangelo di Matteo, specifico dell’“anno liturgico”, cosiddetto A, gli aspetti più peculiari da lui messi in evidenza sono anche quelli sottolineati dall’autore di quest’opera canonica. Nel testo del Vangelo, infatti, l’autore non solo rivolge la sua attenzione alla figura di Gesù, confessato mediante la fede anticotestamentaria come il Dio con noi, il Figlio di Dio, il Messia, ma attraverso la descrizione della sua missione rivela difetti, propensioni, particolarità, fisionomie della comunità a cui l’opera è diretta. E sia l’autore del Vangelo di Matteo che l’attuale Pontefice mostrano, mentre spiegano la Parola, un particolare interesse per la Chiesa. Esiste un comun denominatore tra la figura dell’autore del Primo vangelo canonico e quella del Papa: entrambi si occupano di mettere in evidenza quale deve essere lo statuto della propria comunità cristiana. Il primo nei confronti di un gruppo molto più piccolo, ma di estrazione mista, composto da giudeo-cristiani ed etnico-cristiani, situato probabilmente in Galilea o ai bordi del territorio di Israele, impegnato a inculturare la fede nella situazione post-pasquale quando Gesù non è più fisicamente presente tra i suoi discepoli; il secondo invece nei confronti di una Chiesa multietnica, contrassegnata dal passaggio irreversibile dalla modernità alla post-modernità. Papa Francesco trova le particolarità ecclesiologiche della comunità di Matteo estremamente significative per la Chiesa che vive oggi nel mondo intero.
Spesso nel Vangelo Gesù si rivolge ai capi, soprattutto a quelli religiosi come gli scribi e farisei con l’appellativo “ipocriti”. Il termine, da un punto di vista etimologico, nell’antichità alludeva alla figura dell’attore che sulla scena teatrale portava la maschera. Egli così metteva in scena non la propria personalità, ma quella che era richiesta dal personaggio interpretato. L’ipocrisia quindi consiste, quando ci si relaziona con gli altri, nel mettersi una maschera, presentandosi con una personalità che non è la propria, e che anzi la occulta. L’autore del Primo vangelo canonico dedica agli ipocriti, come dicevo, i leader religiosi del popolo d’Israele, un intero capitolo nel quale Gesù prende in esame tutti i loro difetti: l’esibizionismo, il legalismo, il doppiogiochismo, il formalismo (Mt 23). Per Papa Francesco gli ipocriti portano il popolo di Dio su una strada senza uscita. Egli stigmatizza il loro imporre ai fedeli tanti precetti e così li definisce: «Ipocriti della casistica, intellettuali senza talento che non hanno l’intelligenza di trovare Dio, di spiegare Dio con intelligenza e così impediscono a se stessi e agli altri l’ingresso nel Regno dei Cieli. Sono eticisti senza bontà, non sanno cosa sia la bontà. Ti riempiono di precetti, ma senza bontà. Quelli dei filatteri che si mettono addosso tanti drappi, tante cose per fare finta di essere maestosi, perfetti, non hanno il senso della bellezza. Arrivano soltanto a una bellezza da museo. Poi il Vangelo parla di un’altra classe di ipocriti, quelli che vanno sul sacro. Ci sono quelli che si pavoneggiano nel fare digiuno, nel dare elemosine, nel pregare. Pensiamo all’ipocrisia della Chiesa: quanto male ci fa a tutti». 
L’autore del Primo vangelo canonico vuole costruire una comunità fedele alla Parola di Gesù. Allo stesso modo Francesco sogna una Chiesa fortemente in sintonia con il Vangelo. Sarà quest’ultima capace di aderire alla forza dello Spirito per essere testimone della voce di Dio nella storia di oggi?
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Il cammino della speranza
di ALESSANDRA PERI
Molto più breve degli altri tre, privo dei racconti dell’infanzia, del Discorso della Montagna — per tacere del Padre Nostro — della ricchezza simbolica giovannea, della limpidezza e della grazia di Luca, della visione ecclesiale di Matteo, poco letto nella Liturgia il Vangelo di Marco sembra possedere tutte le caratteristiche per essere definito un Vangelo “minore”. Non a caso la scarsa considerazione dei Padri della Chiesa ha influito non poco sulla fortuna di questo Vangelo sino al secolo XIX: già Agostino lo riteneva pedissequus et breviator, cioè “pedissequo epitomatore” di Matteo (De consensu Evangelistarum, I 2, 4), prima di lui Papia di Gerapoli (II secolo d.C.) dichiarava che «Marco, interprete di Pietro, scrisse con esattezza, ma senza ordine, tutto ciò che egli ricordava delle parole e delle azioni di Cristo [...] scrivendo alcune cose così come gli venivano a mente» (Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, III 39, 15). Colpisce anche lo stile molto elementare, quasi popolare. Marco fa frequentemente uso di diminutivi, talvolta erroneamente assenti nella traduzione CEI — cagnolini e briciole (7, 27-28); barchetta (3, 9), sandaletti (6, 9), ragazzina per la figlia di Giairo (5, 41); figlioletta (7, 25) — e ha un lessico povero, tanto da non distinguere in alcun modo, ad esempio, la “vocazione” dei discepoli dalla convocazione del centurione da parte di Pilato, facendo ricorso al medesimo verbo (pros-kaleín 3, 13; 6, 7; 15, 44).
Con la ripresa degli studi biblici, in particolare con il metodo storico-critico, l’opinione ora dominante è che Marco sia il più antico e la fonte principale degli altri due sinottici, nonché l’inventore del genere letterario “vangelo”. Infatti, è il primo tra tutti a collocare in un ordine narrativo gli avvenimenti — sino ad allora tramandati oralmente — che portano Gesù dalla Galilea a Gerusalemme attraverso un progressivo svelamento della sua identità e della sua missione. Euaggélion (“annuncio”, “buona notizia”) è la parola che apre la narrazione marciana: «Inizio (arché / fondamento) del Vangelo di (che è) Gesù Cristo», e ne definisce quindi la natura. Evangelo è dunque il titolo dell’opera e l’opera medesima. Ma insieme, con lo scorrere della narrazione, diventa evidente che l’Euaggélion coincide anche con il contenuto dell’opera, il messaggio da annunciare (1, 14; 13, 10; 14, 9; 16, 15), sino a identificarsi con la persona stessa di Gesù («chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo», 8, 35; cfr. 10, 29). E questo risulterà evidente per bocca del neanískos, il giovane in veste bianca che annuncia la Risurrezione di Gesù con le parole: «Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui» (16, 6), formula che sintetizza nel modo più breve possibile quel che Paolo chiama il suo euaggélion: «Vi proclamo poi, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto [...] A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1 Cor 15, 1.3-5). In buona sostanza, il Vangelo è la persona di Gesù.
Proprio questa identificazione, peculiare del Vangelo di Marco, ritorna sorprendentemente nello stile e nell’ottica con cui Papa Francesco “legge” le pagine evangeliche. Se i riferimenti così incessanti alla misericordia, alla gioia, al perdono rendono Francesco affine allo scriba mansuetudinis Christi, cioè all’evangelista Luca, nello stile di predicazione del Pontefice risalta questa costante identificazione della Parola del Vangelo, dell’annuncio del Regno con Gesù stesso: «Ascoltare Gesù. Ascoltare la predica di Gesù. “E come posso fare questo, padre? Su quale canale della tv parla Gesù?”. Ti parla nel Vangelo!» (Omelia 8 febbraio 2015).
Leggere il Vangelo di Marco significa ritrovarvi «la carta d’identità del cristiano» — come l’ha definita Papa Francesco il 12 luglio 2015. «La sua lettera di presentazione, le sue credenziali [...] Gesù non invia [i discepoli] come potenti, come proprietari, capi, o carichi di leggi e di norme; al contrario, indica loro che il cammino del cristiano è semplicemente trasformare il cuore, il proprio, e aiutare a trasformare quello degli altri. Imparare a vivere in un altro modo, con un’altra legge, sotto un’altra normativa. È passare dalla logica dell’egoismo, della chiusura, dello scontro, della divisione, della superiorità, alla logica della vita, della gratuità, dell’amore. Dalla logica del dominio, dell’oppressione, della manipolazione, alla logica dell’accogliere, del ricevere e del prendersi cura». Marco non si limita solo a rivelare il mistero di Gesù: ci guida a scoprire le nostre paure, la nostra ignoranza, le nostre resistenze.
E concludiamo, facendole nostre come augurio, con le parole di Bas van Iersel: «Ciò di cui il lettore si accorge in un secondo momento è che [...] il messaggio [...] è stato consegnato a lui stesso come lettore [...] il lettore si rende conto che, veramente, l’annuncio del messaggero celeste non è diretto ai discepoli, e a Pietro, ma a nessun altro se non al lettore stesso».
L'Osservatore Romano