martedì 27 settembre 2016

Tre Grazie



«Riconoscere la desolazione spirituale, pregare quando saremo stati sottomessi a questo stato di desolazione spirituale e sapere accompagnare le persone che soffrono momenti brutti di tristezza e di desolazione spirituale». Sono le tre grazie da chiedere al Signore che Papa Francesco ha indicato commentando le letture di martedì 27 settembre, durante la messa mattutina a Santa Marta. Offrendo la celebrazione del giorno, festa liturgica di san Vincenzo de’ Paoli, per le suore della comunità della Casa — che dal santo francese sono «state fondate» e la cui «vita segue la strada da lui segnata: fare la carità» — il Papa ha incentrato la propria riflessione soprattutto sulla prima lettura, tratta dal libro di Giobbe (3, 1-3.11-17.20-23). 
Quest’uomo «era nei guai» perché «aveva perso tutto. Tutti i suoi beni, anche i suoi figli. E poi si era ammalato di una malattia che assomiglia alla lebbra: forte, pieno di piaghe». Insomma «la sua sofferenza era tale» che «a un certo punto, aprì la bocca e maledisse il suo giorno, quello che gli accadeva», dicendo: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un maschio”. Tutto questo sarebbe stato meglio che non fosse stato, che non fosse accaduto. Meglio la morte che vivere così». Tuttavia, ha osservato il Pontefice, «la Bibbia dice che Giobbe era giusto, era santo». E un santo di solito non «può fare queste cose». Infatti, ha chiarito il Papa, Giobbe «non maledisse Dio. Soltanto si sfogò e questo era uno sfogo: uno sfogo di figlio davanti al Padre». 
Un po’ come fece il profeta Geremia, secondo quanto riportato nel capitolo ventesimo del suo libro nell’Antico Testamento: «Incomincia con una cosa tanto bella — ha fatto notare Francesco — e dice al Signore: “Io sono stato sedotto da Te, Signore”»; ma subito dopo, come Giobbe, anche Geremia dice: «Maledetto il giorno nel quale io sono stato concepito». Eppure «questi due casi non sono bestemmie: sono sfoghi». Entrambi «si sfogano davanti a Dio così», perché «tutti e due erano in una grande desolazione spirituale». E in proposito il Pontefice ha sottolineato come la desolazione spirituale sia «una cosa che accade a tutti: può essere più forte, più debole... Ma, quello stato dell’anima oscuro, senza speranza, diffidente, senza voglia di vivere, senza vedere la fine del tunnel, con tante agitazioni nel cuore e anche nelle idee», lo vive ogni donna e ogni uomo. 
«La desolazione spirituale — ha spiegato — ci fa sentire come se avessimo l’anima schiacciata», che «non vuol vivere: “Meglio è la morte!” è lo sfogo di Giobbe; meglio morire che vivere così». Ma, ha detto il Papa, «quando il nostro spirito è in questo stato di tristezza allargata, che quasi non c’è respiro, noi dobbiamo capire» che ciò «capita a tutti»: in modo più o meno accentuato, ma capita a tutti. Ecco allora l’invito a «capire cosa succede nel nostro cuore», a domandarsi «cosa si deve fare quando viviamo questi momenti oscuri, per una tragedia familiare, una malattia, qualche cosa che butta giù». Di certo, ha chiarito, non è il caso di «prendere una pastiglia per dormire e allontanarmi dai fatti, o prendere due, tre, quattro bicchierini» per dimenticare, perché «questo non aiuta». Invece «la liturgia di oggi ci fa vedere come» bisogna comportarsi «con questa desolazione spirituale, quando siamo tiepidi, giù, senza speranza». 
Un aiuto viene dal salmo responsoriale: «Giunga fino a te la mia preghiera, Signore». Dunque la prima cosa da fare è pregare. «Preghiera forte, forte, forte» ha scandito Francesco, evidenziando come il «salmo 87 che abbiamo recitato insieme», insegni «come si prega, come pregare nel momento della desolazione spirituale, del buio interiore, quando le cose non vanno bene e la tristezza entra tanto forte nel cuore. “Signore, Dio della mia salvezza, davanti a Te grido giorno e notte”: le parole sono forti! È quello che ha fatto Giobbe: “Grido, giorno e notte. Per favore, tendi l’orecchio alla mia supplica”». Insomma «è una preghiera» che consiste nel «bussare alla porta, ma con forza: “Signore, io sono sazio di sventure. La mia vita è sull’orlo degli inferi. Sono annoverato tra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai senza forze”». 
Nella vita, ha osservato il Papa «quante volte ci sentiamo così, senza forze». Ma «lo stesso Signore ci insegna come pregare in questi brutti momenti: “Signore, mi hai gettato nella fossa più profonda. Pesa su di me il tuo furore. Giunga fino a te la mia preghiera”. Questa è la preghiera: così dobbiamo pregare nei momenti più brutti, più oscuri, più di desolazione, più schiacciati, che ci schiacciano», ha esortato Francesco. Perché «questo è pregare con autenticità» e, in qualche modo, serve «anche sfogarsi come si è sfogato Giobbe con i figli. Come un figlio». 
Dopo aver indicato il comportamento individuale da tenere nei momenti di desolazione spirituale, il Pontefice si è poi soffermato sull’accompagnamento di chi si trova in tali situazioni. Il brano biblico, infatti, continua con il racconto degli amici che sono andati a trovare Giobbe e «sono rimasti in silenzio, tanto tempo». Infatti, ha spiegato il Papa «davanti a una persona che è in questa situazione, le parole possono fare male. Soltanto, toccarlo, essere vicino», in modo «che senta la vicinanza, e dire quello che lui domanda; ma non fare discorsi». Invece nel caso di Giobbe «si vede che gli amici dopo un certo tempo si sono annoiati del silenzio» e hanno incominciato «a fare discorsi, a dire stupidaggini». Mentre «quando una persona soffre, quando una persona è nella desolazione spirituale, si deve parlare il meno possibile e si deve aiutare con il silenzio, la vicinanza, le carezze la sua preghiera davanti al Padre». 
Da qui l’attualità delle letture liturgiche. Sulla base delle quali Francesco ha espresso l’auspicio «che il Signore ci aiuti: primo, a riconoscere in noi i momenti della desolazione spirituale, quando siamo nel buio, senza speranza, e domandarci perché; secondo, a pregare come oggi ci insegna la liturgia con questo salmo 87 nel momento del buio — “giunga fino a te la mia preghiera, Signore”». E terzo, «quando mi avvicino a una persona che soffre», sia per una malattia sia per qualsiasi altra circostanza, «ma che è proprio nella desolazione: silenzio». Un silenzio, ha concluso «con tanto amore, vicinanza, carezze. E non fare discorsi che alla fine non aiutano e, anche, fanno del male».
L'Osservatore Romano