martedì 11 ottobre 2016

La solitudine dell’aprirsi a Dio



(Cristiana Dobner) Elisabetta della Trinità, semplice e giovane monaca carmelitana, oggi, che cosa dice alla Chiesa e all’umanità? Il grande teologo Hans Urs von Balthasar affermò che le grazie ricevute dalla Chiesa con la testimonianza dei santi sono al tempo stesso «un avvertimento e un contrappeso alle correnti contemporanee nel mondo e nella Chiesa».
Conrad De Meester, noto studioso, ritiene che «appartenga alla categoria dei profeti», mentre altre voci asseriscono che Elisabetta non abbia avuto un carisma particolare, ma la sua personalità si staglia invece molto evidente.
La madre constatò fin da piccolissima il temperamento di Sabeth: «all’età di un anno si manifestava già in lei il carattere irruente e collerico». Con frequenti scatti d’ira, intransigenza, scenate sbattendo la porta e percuotendola con i pugni. Voleva assolutamente ottenere la realizzazione dei suoi desideri.
Fino ai sette anni. Al momento cioè in cui ricevette per la prima volta l’Eucaristia che segnò una svolta nella sua esistenza con la forte esperienza dell’amore di Dio che cambiò il suo carattere.
Un padre domenicano, Vallé, assicurò la giovane ragazza che quanto coglieva dentro di sé era il mistero dell’amore trinitario pulsante in lei. Elisabetta ne fu rassicurata, ma anche pensò che la spiegazione le impediva di gustare spontaneamente quanto provava interiormente.
Nelle deposizioni dei Processi, in cui tutta la vita della giovane musicista prima e della carmelitana poi viene passata al setaccio, si coglie quella che era la sua missione: «La forma di zelo in suor Elisabetta era speciale, tendeva a far nascere o a sviluppare la vita interiore nelle anime. La vita interiore era il tema abituale delle sue conversazioni nelle nostre ricreazioni e in parlatorio».
Proprio perché il Carmelo è solitudine in Dio, la sua famosa elevazione alla Trinità, come annota von Balthasar, «è semplicemente una preghiera della solitudine che, in senso assoluto, può non parlare della Chiesa: poiché non è altro che una preghiera fatta nel cuore stesso della Chiesa».
Il traguardo e la partenza, nell’arco di vita di Elisabetta, coincidono ed esprimono la sua missione. Lo documenta una teste: «Me lo indicò dalla prima lettera dopo l’entrata nel Carmelo spiegandomi che cos’era una carmelitana: “è un’anima che ha guardato il Crocifisso, l’ha visto offrirsi come vittima a Suo Padre per le anime e, raccogliendosi sotto questa grande visione della Carità di Cristo, ha compreso la passione della sua anima, ha voluto donarsi come Lui!”».
Quando ormai la vita si faceva difficile per lei, gravemente malata, ed era alla fine della sua breve esistenza, il punto di partenza si rivelò incarnato nel traguardo stesso: «L’idea generale che ho ritenuto dalle lettere — attesta chi la conobbe — è la devozione a Gesù crocifisso dalla prima all’ultima lettera scarabocchiata sul suo letto di morte. Scriveva: “Coraggio! Guardiamo il Crocifisso e conformiamoci a questa immagine divina”».
La grave malattia non spense la sue energie interiori, ma le rese ancora più trasparenti e più attente agli altri nella sua donazione: «Prima di morire — scriveva Elisabetta — sogno di essere trasformata in Gesù crocifisso e questo mi dona tanta forza nella sofferenza! Non dovremmo avere altro ideale che quello di conformarci a questo modello divino, allora quale ardore ci porterebbe al sacrificio, al disprezzo di noi stessi se avessimo sempre gli occhi del cuore orientati verso di Lui».
Quando Elisabetta parla di solitudine non l’intende nei termini di isolamento, di negatività, di assenza nel suo sentire psicologico, ma come una dimensione che giace nel profondo del suo essere, quindi ontologica e che si manifesta nell’aprirsi a Dio stesso, ben al di sopra di ogni altra creatura.
Così pensata, riflessa e sperimentata, la solitudine diventa grembo in cui Elisabetta ritrova tutti e il volto di Dio appare solitudine infinita.
L’espressione tipica di Elisabetta “I miei tre” è il basso continuo del suo vivere: «“Là io amo cercarlo perché non mi lascia mai. Dio in me e io in lui. Oh! È la mia vita” — in una deposizione ancora si legge — la sua grande virtù la portava a realizzare il suo sublime ideale di essere una lode di gloria della santissima Trinità».
La lode in Elisabetta scaturisce non dalla sola percezione e dalla certezza della fede e neppure solo da quel nesso — che sperimentò e seppe esprimere nella scrittura — fra le tre virtù teologali, fede, speranza e carità, quanto piuttosto dal suo essere creatura, trapassata dalla grazia di Dio, che le fonde tutte e tre e fa brillare in lei la fiamma della gratitudine, che assume appunto la forma della lode.
Nell’omelia per la beatificazione Giovanni Paolo II il 25 novembre 1984 affermò: «Elisabetta celebra lo splendore di Dio, perché si sa abitata nel più intimo di se stessa dalla presenza del Padre, del Figlio e dello Spirito, nella quale ella riconosce la realtà dell’amore infinitamente vivo».

L'Osservatore Romano