sabato 1 ottobre 2016

La tranquilla certezza di Therese...

Santa Teresa di Lisieux


di Riccardo Cascioli
Per papa Pio X è «la più grande santa dei tempi moderni», Pio XI l’ha proclamata “patrona delle missioni” e Giovanni Paolo II “dottore della Chiesa”. Ma soprattutto si può ben dire che sia «la ragazza più amata del mondo», come recita il titolo di una biografia a lei dedicata. Santa Teresa di Gesù Bambino, “Santa Teresina” per tutti, vissuta alla fine dell’Ottocento, morta a soli 24 anni nel Carmelo di Lisieux, non smette di attirare a Dio, e quando l’urna con le sue reliquie gira per le città d’Italia e d’Europa, le chiese dove sosta si riempiono traboccanti di fedeli. Il racconto della sua vita, Storia di un’anima, scritto per obbedienza, ha tuttora un successo straordinario, tradotto in più di 50 lingue e venduto in milioni e milioni di copie. Ma qual è il segreto di questa santa di cui la Chiesa ricorda oggi – 1 ottobre – la sua memoria? Lo abbiamo chiesto a padre Antonio Sicari, carmelitano anche lui, “biografo dei santi”: i suoi libri di “Ritratti di santi” sono già quattordici e sono soltanto una parte della sua copiosa produzione biografica. Recentemente ha anche pubblicato per Ares “Così muoiono i santi, cento racconti di resurrezione”.
Padre Sicari, Santa Teresa di Lisieux a quasi 120 anni dalla morte, continua a godere di una popolarità impressionante, e lo si è visto anche recentemente per il Giubileo. Qual è la sua attualità?
Proprio l’occasione del Giubileo della Misericordia ci offre una chiave di interpretazione. Insieme a santa Faustina Kowalska è la santa che più parla di misericordia. E può sembrare paradossale perché entrambe sono “innocenti”.  Santa Teresina può dire di se stessa: «Io dall’età di 3 anni non ho mai detto di no a Gesù». E sul letto di morte, alla sorella che le chiede: «Tu pensi spesso al buon Dio?», lei risponde «Credo di non aver mai passato tre minuti senza pensare a lui». Una ragazza che può dire questo, che idea può avere di misericordia?
Già, quale esperienza può avere di misericordia?
Il nostro errore è collegare direttamente la misericordia al peccato. È come nel rapporto padre-figlio: se il figlio cade, si fa male, il padre lo guarisce, ma questo è solo un “incidente” all’interno del rapporto misericordioso tra padre e figlio o tra madre e figlio. Santa Teresina ha questa caratteristica: scrive “Storia di un’anima” e dice: «Io voglio solo parlare della misericordia di Dio». E infatti lei spiega come «la misericordia mi ha abbracciata fin dall’infanzia», racconta di «essere stata immersa nella misericordia», e finisce la vita con l’atto di offerta all’Amore misericordioso. Si può ripercorrere tutta la vita spiegando come la Misericordia si è esercitata su di lei attraverso i genitori e altri incontri…
Insomma, si può sperimentare la Misericordia pur senza aver commesso grandi peccati.
Sì, però Teresa su questo vive anche un dramma, perché ci sono due pagine di Vangelo che sembrano darle torto. E quando a Teresa succedeva questo non si dava pace finché non aveva scavato fino in fondo e trovato una soluzione.
La prima è la scena dell’incontro di Gesù con la peccatrice nella casa di uno dei farisei. Alla fine Gesù dice: «Colui al quale si perdona poco, ama poco». Questo lei non poteva sopportarlo, perché non avendo fatto grandi peccati, significherebbe che è in grado di amare poco. Anche i predicatori dicevano che solo i grandi peccatori capiscono l’amore di Dio. Lei questo non riusciva a sopportarlo, ma ecco la sua soluzione: «A me ha perdonato più che a Santa Maria Maddalena perché mi ha perdonato tutto, in anticipo».
Bella soluzione. E l’altra pagina del Vangelo?
È la parabola del figliol prodigo. Lei si sente il fratello maggiore, cioè colui che è stato sempre nella casa del padre per cui «tutto quello che è mio è tuo». È il fratello che attira il giudizio peggiore. Allora lei reinterpreta la parabola: quanti sono i figli in questa storia se si ascolta non solo il racconto ma lo si contestualizza? Questo è importante perché Gesù parla in un certo contesto. Allora viene fuori che effettivamente i figli della parabola sono quattro. Ci sono i farisei che fanno da fratelli maggiori rabbiosi; ci sono i peccatori che fanno i figli prodighi accolti da Gesù; poi c’è il vero figlio maggiore che è Gesù che sta agendo, perché è contro di lui che si muovono; poi ci sono i discepoli che stanno imparando a diventare figli.
E allora il diritto di Teresa è dire che se si può essere figlio maggiore scorbutico, rabbioso, con il cuore lontano da Dio, si può però essere il figlio che come Gesù è sempre stato a casa ed è contento di esserlo. E questa è la più grande misericordia. Allora Teresa riscrive la parabola con tre figli. È la parabola del dottore: torna a casa, vede che c’è sulla strada un sasso: viene un figlio, inciampa, cade, si fa male, e il padre lo cura; oppure il papà vede l’ostacolo, lo toglie di mezzo e il figlio non si fa male. Il figlio che non sa nulla di ciò che ha fatto il padre resterà indifferente, ma il figlio che lo sa lo amerà alla follia. 
È una interpretazione suggestiva
Teresa così reimposta il tema della misericordia, e secondo me ce ne è un grande bisogno. Il discorso non è che più peccato c’è, più misericordia c’è. Invece questa misericordia paterna e materna ti abbraccia da tutti i lati, è totale, ma bisogna che tu almeno sappia di essere stato amato fino a questo punto.
Allora è questa esperienza di misericordia che attira tanto in Santa Teresa?
Tradizionalmente si dice che le persone amano la sua “piccola via”, cosa peraltro su cui bisogna intendersi perché Teresa è di una incredibile maturità e perfino durezza in certe cose. Però ciò che le persone amano è capire che la prima moralità è la consapevolezza di essere amati. Teresa arriva a dire che la Misericordia è donata ai piccoli: «Io sono stato amato». Su questo si fonda anche la grande teologia di Santa Teresa, che esprime in “Storia di un’anima”, in questo ordine: primo, la proprietà dell’amore è quella di abbassarsi, di chinarsi: Dio è amore, Dio è tutto chinato sulle sue creature; secondo, Dio ama ciascun essere umano come se fosse unico al mondo; terzo, così come Dio organizza tutte le stagioni perché possa nascere un singolo fiore anche nel deserto, così organizza tutto il mondo e tutta la storia per ogni singola creatura umana. Sono piccolo, umile, ma unico.
Quello che piace a Dio di me non sono le mie opere, non è che non ho fatto peccati, quello che Dio ama è la fiducia assoluta che io ho. Se avessi fatto peccati andrei a buttarmi nelle sue braccia, se non li avessi fatti è tutto merito suo. La fiducia assoluta, questa maturità, questa anima grande, forte, che può essere totalmente bambina nelle braccia di Dio; ma non in una forma sentimentale, sciocca, ma molto adulta, molto profonda, assolutamente totale.
Teresa aveva anche una visione dell’ascesi incredibile, diversissima da quella abituale. Lei certe volte d’inverno come mortificazione non si stropicciava le mani quando aveva freddo, ma diceva che lo faceva perché in casa di una persona amata non è cortesia far vedere che stai soffrendo. Era una cortesia verso Dio, il fare piacere a Lui.
Dimostrava una tenerezza incredibile.
Ci sono tanti particolari che lo dimostrano: ad esempio il suo rapporto con il papà, quando lo vede malato con una specie di Alzhaimer, che diventa come un bambino. E mentre tutti si scandalizzano per questo vecchio saggio che diventa così, lei lo guarda e dice: «Papà sta diventando il bambino del buon Dio». C’è questa capacità di guardare con tenerezza perfino ciò che è terribile. Quando lei è malata le portano un grappolo d’uva, a lei piaceva tanto. E lei dice: «Gesù, dicono che ai bambini piace tanto l’uva, guarda che bel grappolo; anche la mia vita è diventata così, perché non la prendi?» Piccole cose che mostrano una grande tenerezza cattolica. 
È questa l’infanzia spirituale?
Sì, l’infanzia che poi non è neanche la sua, è l’infanzia della Chiesa, di quando comincia ad esistere. Siamo alla fine dell’800 quando la scienza pare ormai aver risolto tutto, ci sono i famosi maestri del sospetto – Nietzsche, Marx, Freud -, la morte di Dio. Con Teresa Dio dice: «Ah sì, Dio è morto? La Chiesa è morta? Allora ricominciamo da capo». E fa una piccola creatura, totalmente ecclesiale. Lei si percepisce nel cuore della Chiesa, destinata semplicemente a dare a Gesù gesti di affetto. Una sorta di infanzia ecclesiale, di infanzia eucaristica. È un momento storico particolare, il mondo si è incattivito e Dio ricomincia da capo. C’è sempre questo aggancio con il momento storico per capire i santi. Pensi, il prossimo 16 ottobre sarà proclamata santa Elisabetta della Trinità, un’altra carmelitana. Se anche i cristiani continuano a dire che il Dio cristiano e quello ebraico sono lo stesso Dio, che il Dio musulmano e quello cristiano sono lo stesso Dio, allora arriva il momento che qualcuna dica che la Trinità è essenziale. 
Quando si parla di Teresa, non si può non parlare anche della sua famiglia, i suoi genitori sono stati appena proclamati santi. Anche questo un segno dei tempi, visto l’attacco globale alla famiglia cui stiamo assistendo.
Qui c'è una cosa molto bella ma difficile da spiegare, la canonizzazione dei genitori. Entrambi fondano il matrimonio su una precedente vocazione verginale, che non possono realizzare. Addirittura quando si sposano pensano di rimanere casti, di avere un matrimonio totalmente verginale; solo con l’aiuto del prete diventa totalmente familiare. Però senza conflitto. Perché l’amore per una creatura è segno e realizzazione di un amore totale verso Dio. Non è vero che esistono due vocazioni, una verginale e una coniugale, Esiste una sola vocazione, verginale: per alcuni nel matrimonio, per altri nella vita religiosa.
C’è un altro aspetto da sottolineare, che è alla base di tutte le crisi matrimoniali. Quando c’è una crisi, in crisi è la filialità. Un marito non va più d’accordo con la moglie quando smette di riconoscere in lei una figlia di Dio e viceversa. Questa è l’origine di tutto. La Rivelazione è il figlio di Dio. L’essere figli è la prima qualità dell’essere umano. E il matrimonio ha la filialità come prima base, che poi servirà a generare figli. Quindi due sposi in crisi è inutile che vadano dallo psicologo per guardarsi in faccia, per vedere come lottare. Il problema di loro due è che a un certo punto hanno dimenticato di essere due figli, e che nel matrimonio l’uno è custode della filialità dell’altro, con tutto ciò che comporta a livello di preghiera familiare, rapporto con i figli, e così via.
Bisognerebbe inventare di nuovo il sacramento della confessione familiare. Non nel senso che tutti si confessino insieme, ma che tutta la famiglia vada insieme a celebrare il sacramento: i bambini vedono che il papà va a fare il bambino davanti a Dio, la mamma che fa la bambina davanti a Dio, i nonni che fanno i bambini davanti a Dio, così i piccolini vanno a fare i bambini davanti a Dio. Se manca questa esperienza, c’è qualcosa che manca nei rapporti. Manca l’esperienza della comune filialità. Se il bambino non sente che suo padre si sente figlio di Dio, non ce la fa a sentirsi figlio di suo padre e a sentire il padre come padre.
Anche lei in un suo libro nota che un certo linguaggio di Teresa alle nostre orecchie suona come dolciastro, lontano dalla nostra sensibilità. E infatti qualcuno sostiene che non sia adeguato all’uomo d’oggi.
Basta capire cosa dà fastidio: prendiamo la “storia di un piccolo fiorellino bianco”. Oddio, il fiorellino bianco... Poi uno sfoglia un po’ di pagine, trova che quando Teresa ha 15 anni al papà malato – il papà che sa di essere malato gravemente – lei gli dice la sua vocazione al Carmelo e il papà si sente il cuore lacerato: Teresa è la figlia che più ama e se ne sta andando. Il papà non le disse una parola. Lei racconta: il papà non mi disse nulla per distogliermi, mi fece solo osservare che ero molto giovane, poi mi mise un braccio attorno alle spalle, mi condusse lungo il giardino, arrivammo vicino al muro; c’era una sassifraga, un piccolo fiore bianco. Papà lo colse, venne via con tutte le radici, me lo diede e mi disse: questa è la tua storia, finora sei vissuta qui, adesso il Signore ti trapianta. Teresa terrà sempre quel fiore sulla sua immagine. Allora se uno capisce la storia di un piccolo fiore bianco con tutta la drammaticità che c’è ma anche la delicatezza con cui si esprime, allora si capisce che il linguaggio ha un suo significato.
Si capisce anche che questa apparente dolcezza era dentro una serietà assoluta. Lei andava in chiesa e capiva cos’era la consacrazione, la predica guardando la faccia di suo padre. È tutto così. C’era un clima dove l’amore, il rispetto, il dovere di far piacere era di una serietà assoluta.