lunedì 3 ottobre 2016

Nunca Más.



Affinché non si ripeta mai più
 L'Osservatore Romano - donne, chiesa, mondo 
(Lucia Capuzzi) Per diciannove interminabili udienze sono rimaste imprigionate nei coloratissimi scialli. Il volto, i capelli, le mani, tutto era coperto. La stoffa pesante occultava ogni centimetro di pelle e di umanità. Immobili fagotti maya. Si sono presentate al mondo con l’immagine che gli aguzzini le cucirono violentemente indosso, 34 anni fa. Ancora una volta. L’ultima volta. Perché, appena il giudice Jazmín Barrios ha terminato di leggere la sentenza, le braccia si sono levate verso l’alto, spontanee. Uno dopo l’altro, i manti si sono aperti, liberando il viso. Labbra e occhi sono saltati fuori. 
E nell’aula è risuonato il grido: Mak´al li qa xiw (“non abbiamo più paura”). Allora, il 26 febbraio scorso, l’incubo è veramente finito per le undici eroine di Sepur Zarco — come le ha ribattezzate la stampa locale — ed è nata una nuova speranza per le migliaia e migliaia di guatemalteche stuprate, torturate, schiavizzate durante la guerra civile (1966-1996). Uno dei conflitti più feroci del Novecento, in cui anche i corpi delle donne furono trasformati in campi di battaglia. Nel silenzio generale. Tanto che, dopo la firma degli accordi di pace, c’è stata, a lungo, una difficoltà a considerare le violenze sessuali come parte della strategia di terrore sistematico inflitta dai gruppi armati — in particolare dall’esercito — alla popolazione. 
Quel giorno del 2016, però, il Tribunale A di massima sicurezza ha messo fine a decenni di impunità, condannando a 120 e 240 anni di carcere Steelmer Reyes Girón e Heriberto Váldez Asij, colpevoli, in quanto responsabili della guarnigione di Sepur Zarco, dello stupro di massa di decine di indigene nonché della scomparsa dei loro mariti. Il verdetto è storico: per la prima volta, gli abusi sessuali commessi durante una guerra sono stati giudicati e condannati all’interno dello stesso Paese. In Jugoslavia e Rwanda — i due punti di riferimento in materia — si è dovuto ricorrere a corti internazionali. In Guatemala no. 
Là, un gruppo di donne di etnia Q’eqchí ha costretto il sistema giudiziario nazionale a guardare in faccia la verità. «Non so né leggere né scrivere. Forse, se lo sapessi fare, parlerei con più scioltezza. Ma tutto ciò che ho detto è vero. Ero lì, ho visto e vissuto quei giorni. Dio mi è testimone» ha detto Petrona, 75 anni, al termine della deposizione. In aula, ha parlato in lingua q’eqchí, l’unica che conosce e l’unica in cui si sente autentica. Perché l’orrore richiede parole precise, spesso. Aveva quarantuno anni quando l’esercito arrivò nel villaggio di Panzós, nella valle del Polochic, il 25 agosto 1982. I militari interruppero la festa per il giorno di santa Rosa da Lima e cominciarono la “caccia”. Cercavano Mario, il marito di Petrona, “colpevole” di aver reclamato la proprietà del suo piccolo appezzamento. 
La versione ufficiale era ovviamente un’altra: Mario e altri 17 contadini delle comunità limitrofe avrebbero fornito cibo e protezione ai guerriglieri. Peccato che in quella zona non ci fossero formazioni ribelli. Difficile che le forze armate ignorassero un simile dettaglio. Più probabile, invece, che la tattica della “terra bruciata” fosse impiegata in modo “flessibile” per regolare i conti tra latifondisti e agricoltori. Mario, quella volta, si salvò fuggendo sui monti insieme alla famiglia. Poco dopo, però, fu scoperto e ucciso. O meglio, fatto scomparire. Quando Petrona si recò insieme ai quattro figli a chiedere il corpo al neonato distaccamento di Sepur Zarco, divenne lei stessa una “preda”. Anzi, una schiava. L’esercito obbligò le “vedove” — ma anche, a volte, le figlie e le sorelle — dei contadini assassinati a servirlo. In tutti i sensi. Le donne dovevano, a rotazione, lavare le uniformi, cucinare, rammendare, pulire l’interno della guarnigione. E, soprattutto, lasciarsi violentare senza fiatare dalle truppe. In caso contrario, avrebbero fatto la fine di Dominga Coc e delle figlie, Anita e Hermenilda, picchiate e seviziate per settimane prima di “sparire”. Per sei mesi — fino al 10 ottobre 1983 quando Steelmer Reyes Girón fu sostituito da un nuovo comandante — le indigene del Polochic furono costrette a “garantire il servizio”, secondo l’espressione impiegata all’epoca, dandosi il cambio ogni tre giorni. 
«Andavi via sapendo che al ritorno ti avrebbe aspettato lo stesso trattamento. O uno peggiore. Mi hanno stuprato molte volte. E l’hanno fatto anche a mia figlia» racconta Petrona. «Spesso lo facevano in tanti... Quando avevo delle emorragie, dovevo curarmi con le erbe. Spesso ci facevano delle iniezioni perché non avessimo bambini» le fa eco Rosa, un’altra delle undici eroine. «Nel distaccamento, però, sono passate molte più donne» sottolinea Petrona. Di sicuro, le “schiave” furono diverse decine, almeno una sessantina. 
La maggior parte, però, ha scelto il silenzio. Nel timore, in primis, di una rappresaglia dell’esercito, che rimase a Sepur Zarco nei successivi sei anni e continuò a pretendere “servizi”, sebbene con meno regolarità. La paura più grande, però, era il giudizio degli altri. Come spiegare loro che erano vittime se le stesse comunità le consideravano prostitute o, peggio, traditrici? I rapporti Guatemala Nunca Más — coordinato dal vescovo Juan Gerardi, assassinato a causa del suo impegno per i diritti umani — e Memoria del Silencio, della commissione Onu, aprirono la strada affinché le verità sepolte potessero riaffiorare. Per superare lo stigma dello stupro ci sono voluti, però, ancora molti anni di paziente lavoro delle attiviste dell’Unión nacional de mujeres de Guatemala, Mujeres transformando el mundo ed Ecap, riunite nell’Alianza rompiendo el silencio. 
Nel 2011, quindici indigene hanno presentato la prima denuncia per il “caso Sepur Zarco”. Cinque anni dopo, è arrivato il tempo della giustizia. Non solo per le undici superstiti rimaste. La sentenza è destinata a fare storia nelle cause sugli stupri di guerra. Perché ciò che è accaduto a Sepur Zarco non si ripeta. Nunca Más.

L'Osservatore Romano