giovedì 13 ottobre 2016

Un ragazzo normale



(Fidel González Fernández, Postulatore) Il quindicenne messicano Giuseppe Sánchez del Río era un portabandiera dei cristeros e, anche senza prendere parte direttamente agli scontri armati, pagò con il martirio la scelta di cedere il suo cavallo a un combattente perché potesse fuggire. 
Nato a Sahuayo, in diocesi di Zamora nello stato di Michoacán, il 28 marzo 1913, era stato battezzato nella parrocchia di San Giacomo apostolo, nello stesso luogo dove fu poi incarcerato. I suoi genitori, Macario Sánchez e Maria del Río, ebbero quattro figli: due prima di lui — Macario e Miguel, membri dell’Azione cattolica della gioventù messicana entrati nel movimento dei cristeros per difesa della libertà religiosa — e una dopo, Maria Luisa. 
Joselito, come veniva chiamato familiarmente, fece la prima comunione all’età di 9 anni. Qualche anno dopo, a Guadalajara, visitò la tomba del giovane avvocato Anacleto González Flores, martirizzato il 1° aprile 1927 e beatificato nel 2005 assieme ad altri otto giovani laici, fra i quali lo stesso Sánchez del Río. Durante tale visita maturò la scelta di offrire anch’egli la propria vita a Dio in difesa della fede cattolica. Grazia che ottenne l’anno dopo, il 10 febbraio 1928, appena dopo essersi unito ai cristeros.
I 27 testimoni del suo processo super martyrio lo ricordano come un ragazzo normale, sano e di carattere gioviale: frequentava il catechismo e si distingueva per l’impegno nelle difficili attività parrocchiali, non consentite in quei tempi di persecuzione; si avvicinava ai sacramenti, quando poteva, anche perché il culto pubblico era proibito, rischiando la vita; pregava ogni giorno il rosario assieme alla famiglia. Anche se molto giovane, sapeva bene ciò che si stava vivendo nel Messico. Come si chiede una delle testimonianze al suo processo: «Da dove prese quella forza questo ragazzo innocente come Tarcisio e intrepido come Sebastiano?». 
A Sahuayo il movimento dei cristeros era molto radicato. Le famiglie cattoliche lo appoggiavano in mille modi; per esempio nascondendo i sacerdoti che rischiavano di essere fucilati. In quei anni spesso si parlava dei primi martiri cristiani e molti giovani erano desiderosi di seguire le loro tracce. I martiri della fede sono diverse centinaia. La Chiesa ne ha riconosciuti con la canonizzazione 22 preti e 3 giovani laici e con la beatificazione una quarantina, in maggioranza giovani laici e alcuni sacerdoti. Il crudele martirio di molti di loro, di cui Joselito aveva conoscenza, rafforzò ancora di più il desiderio di donare la vita a Cristo in difesa della libertà religiosa. Con grande insistenza chiedeva ai suoi genitori il permesso di unirsi ai cristeros. E nonostante la iniziale ragionevole prudenza e rifiuto da parte dei genitori e dei dirigenti, data la giovane età, ottenne il consenso. Alle obiezioni rispondeva: «Mamma, mai è stato così facile come adesso di andare in paradiso». Alla fine, ottenne la benedizione paterna. Nell’estate 1927 riuscì a unirsi ai cristeros assieme a un altro amico, adolescente come lui. La sua occupazione principale era di svolgere semplici compiti, che non comportavano la partecipazione alla lotta attiva. Ma nel confronto con le truppe governative federali del 6 febbraio 1928, dopo aver ceduto il suo cavallo fu fatto prigioniero assieme a un altro suo giovane amico indigeno di nome Lázaro. Incarcerato a Cotija, lo stesso giorno Joselito poté mandare una lettera alla madre. Il giorno dopo fu portato a Sahuayo e rinchiuso nella chiesa parrocchiale di San Giacomo, trasformata in prigione. I soldati usavano la parrocchia anche come stalla e avevano trasformato il presbiterio con il tabernacolo in un pollaio per “galli da combattimento” di proprietà del capo politico della regione. Di fronte a quella profanazione, Giuseppe reagì ammazzando i galli, senza temere le ritorsioni di quel capo, che tra l’altro era stato amico della sua famiglia e suo padrino di prima comunione. L’8 febbraio il giovane rispose così alle accuse: «La casa di Dio è per pregare, non come una stalla di animali... Sono disposto a tutto. Puoi fucilarmi, così sarò ben presto alla presenza di Nostro Signore e potrò chiedergli che ti confonda». 
Uno dei soldati lo percosse violentemente alla bocca con il calcio del fucile, rompendogli i denti. Poi in sua presenza, il compagno Lázaro venne impiccato nella piazza davanti alla chiesa. Anche se in realtà non morì e fu salvato dal becchino. 
A Giuseppe il capo politico fece proposte lusinghiere come quella di iscriverlo alla prestigiosa scuola militare del Regime, e anche quella di fuggire negli Stati Uniti, ma il ragazzo le rifiutò con fermezza. Poi il capo politico chiese alla famiglia del giovane un riscatto, che il papà di Giuseppe consegnò e che il persecutore trattenne nonostante lo avesse mandato a morte la notte precedente. Il giovane aveva ripetutamente chiesto ai suoi genitori di non pagare il riscatto, dicendo che «la sua fede non era in vendita». 
Il 10 febbraio infatti, verso le 18, dalla prigione nella parrocchia Joselito fu trasferito in una locanda nella piazza antistante, diventata caserma delle truppe federali. Qui i soldati gli scorticano i piedi con un coltello. Verso le 7, poté scrivere una lettera che riuscì a far arrivare a una sua zia, dove comunicava che probabilmente sarebbe stato ucciso di lì a poco e chiedeva di fargli portare la comunione. Verso le 20 di quella stessa sera riuscì a ricevere il sacramento. 
Alle 23, quando ormai era notte, lo fecero uscire dalla locanda-caserma e lo costrinsero a camminare colpendolo lungo la strada che portava al cimitero municipale. Nonostante le crudeli torture a cui fu sottoposto, le sue labbra gridarono «Viva Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe». 
Al cimitero il capo della guarnigione ordinò ai soldati di pugnalarlo per evitare che in paese si sentissero gli spari. C’era il coprifuoco. Il giovane martire, ad ogni pugnalata gridava con un filo di voce: «Viva Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe». Ancora prima di morire, il capo dei soldati gli chiese cinicamente se voleva mandare qualche messaggio a suo padre, e il giovane martire rispose di dire: «Che ci vedremo in paradiso». Allora, il capo militare con la sua pistola gli sparò in testa. Il suo corpo fu buttato in un piccolo fosso e ricoperto con poca terra. Erano le 23.30 della notte di venerdì 10 febbraio 1928. Successivamente il becchino, aiutato di nascosto da alcune anime buone, lo diseppellì, avvolse il corpo in un lenzuolo e ritornò a seppellirlo più degnamente nello stesso luogo. Nel 1954, i resti sono stati inumati e portati nella cripta della vicina chiesa del Sacro Cuore. Nel 1996 sono stati trasferiti alla parrocchia di San Giacomo apostolo di Sahuayo, a un lato del battistero, dove era stato battezzato e dove era stato prigioniero prima del martirio. 

L'Osservatore Romano