mercoledì 23 novembre 2016

Al confine.



Storie dalla barriera tra Stati Uniti e Messico 

(Silvina Pérez) Sono 2730 i chilometri che separano Tepaltepec da Tijuana dove, davanti un piccolo obelisco, finisce il Messico. Non è possibile andare oltre neppure con lo sguardo. Il mondo, per chi viene da sud, finisce qui. Davanti a quattro metri di lamiere metalliche arrugginite, in fondo all’avenida Pacifico e nel Friendship Park di Tijuana. 
L’imponente barriera di sicurezza tra Stati Uniti e Messico, chiamata dagli americani “muro messicano” e dai messicani “muro della vergogna”, si apre come una crepa profonda che parte dal punto più occidentale del confine (i primi piloni spuntano nell’oceano) dividendo la città di San Diego e di Tijuana, per poi proseguire verso est, allungandosi tra le città di El Paso e Ciudad Juárez. 
La costruzione si sviluppa lungo 930 chilometri non consecutivi, intervallati da confini naturali, filo spinato e zone dove sono presenti sensori elettrici e recinzioni. Il Friendship Park dista poche decine di metri dai primi piloni in mare; il muro taglia in due anche la spiaggia che si affaccia su entrambi i territori. Solo il rumore delle onde che sbattono incessanti sulle lamiere interrompono il silenzio. 
In questo punto esatto è arrivata sabato scorso la processione che ha celebrato padre Francisco Moreno, arcivescovo di Tijuana, con l’immagine della Madonna di Guadalupe, la «patrona e imperatrice delle Americhe» per un giorno pellegrina fra i migranti. La cerimonia è iniziata nella parrocchia di Santa Maria del Mare e ha proseguito lungo le strade che portano dritto alla barriera metallica per «pregare per i migranti in quest’ora difficile» e per «costruire un ponte di pace, amore e misericordia insieme alla Madonna di Guadalupe» ha detto l’arcivescovo Moreno.
Inaugurato negli anni Settanta, dalla first lady Pat Nixon, il Friendship Park è divenuto in poco tempo il punto d’incontro dove i migranti residenti negli Stati Uniti possono sfiorare una carezza attraverso una rete con i loro cari rimasti o arrivati per l’occasione a Tijuana. Se c’è un luogo che racconta meglio di altri il dolore della barriera tra il Messico e gli Stati Uniti, questo luogo è senza dubbio il Friendship Park. Negli anni Novanta fu costruita la prima barriera in lamiera per dividere l’area metropolitana di Tijuana da quella di San Diego ma, proprio a ridosso del Friendship Park, si è scelto di usare una trama metallica più larga, in modo che i migranti potessero condividere con i propri cari qualche ora di normalità creando di fatto un passaggio tra mondi che si incontrano. 
María Guadalupe Lopez ha viaggiato ventidue ore per raggiungere il parco dalla sua città, Tepaltepec. È una donna anziana che fatica molto a camminare, ma ha voluto prendere parte alla processione fino al muro. Lì, oltre la rete metallica, la attende lo sguardo di sua figlia che non vede da nove anni. Nonostante il mare, il verde e l’aria aperta, María non si sente a suo agio. A pattugliare il confine, c’è la polizia di frontiera che controlla l’arrivo del gruppo di fedeli.
Solo due volte il cancello d’emergenza del muro di lamiere è stato aperto, nel 2013 e nel 2015. A convincere i funzionari è stato un attivista, Enrique Morones. Gli agenti hanno permesso ad alcuni bambini di abbracciare le proprie madri, senza che alcuna barriera si frapponesse tra loro. Sabato scorso, dopo la processione, il pesante cancello di questo piccolo tratto di confine, che si affaccia sull’oceano Pacifico si è aperto brevemente per la terza volta e ha consentito a María di abbracciare sua figlia, soltanto per tre minuti. Lo stesso tempo che hanno condiviso a turno altre sei famiglie già divise da chilometri di grate e filo spinato che rischiavano di non potersi vedere mai più. 
Il parco, è aperto solo il sabato e la domenica, dalle dieci di mattina alle due di pomeriggio. Ma per le famiglie divise queste quattro ore sono un sogno che accarezzano da anni. Dal lato statunitense della barriera, la maggior parte delle persone sono senza documenti, sin papeles, ossia senza permessi di soggiorno regolari. Non possono uscire dal paese, non possono regolarizzare la loro situazione, rimangono per anni in un limbo senza diritti né identità. Molti di loro hanno alle spalle storie non riuscite. Altri, come la figlia di María, lavorano nel mercato nero americano, privi di sicurezza sociale e con difficili condizioni di lavoro. 
Sul lato di Tijuana, invece, la maggior parte delle persone che si incontrano sono state rimpatriate dagli Stati Uniti perché migranti illegali oppure ci sono anche persone che semplicemente non hanno i requisiti sufficienti per ottenere il rilascio dei visti per l’ingresso. È quello che succede in un piccolo punto al confine tra Stati Uniti e Messico, dove i latinos e i loro familiari emigrati si incontrano attraverso una grata di ferro.
L'Osservatore Romano